Chez Blanchette: la moda artigianale, Made in Italy, familiare, responsabile

Era il 24 aprile 2013 quando il Rana Plaza, edificio commerciale di otto piani, crollò a Savar, sub-distretto di Dacca, la capitale del Bangladesh.
Le operazioni di soccorso e ricerca si conclusero con un bilancio dolorosissimo: 1.134 vittime e circa 2.515 feriti per quello che è considerato il più grave incidente mortale avvenuto in una fabbrica tessile nonché il più letale cedimento strutturale accidentale nella storia umana moderna.

Com’è tragicamente noto, il Rana Plaza ospitava alcune fabbriche di abbigliamento, una banca, appartamenti e numerosi negozi: nel momento in cui furono notate delle crepe, i negozi e la banca furono chiusi, mentre l’avviso di evitare di utilizzare l’edificio fu ignorato dai proprietari delle fabbriche tessili.
Ai lavoratori venne addirittura ordinato di tornare il giorno successivo, quello in cui l’edificio ha ceduto collassando durante le ore di punta della mattina.
Lo voglio ripetere: nel crollo, persero la vita 1.134 persone e ci furono oltre 2.500 feriti.

Molte delle fabbriche di abbigliamento del Rana Plaza lavoravano per i grandi committenti internazionali e questo orribile sacrificio di vite umane ha squarciato il velo di omertà che copriva, a mala pena, pratiche che moltissimi, in realtà, conoscevano da tempo e fingevano di non vedere.

Dopo la strage, oltre 200 imprese del settore abbigliamento – così dicono le cronache – hanno siglato un accordo sulla sicurezza in Bangladesh; da un recente simposio alla Ford Foundation di New York è emerso che, da allora, sono state corrette una media di 60 violazioni per impianto e sono stati organizzati corsi sulla sicurezza per 2 milioni di addetti.
Sono passi verso una maggiore responsabilità, ma è solo l’inizio: le paghe sono ancora (troppo) basse, gli orari sono spesso senza regole e la strada verso una sicurezza totale, dunque, è ancora lunga.

A chi pensa che la colpa di tutto ciò vada esclusivamente al fast fashion, alla sua nascita e alla sua diffusione, dico di non farsi trarre in inganno.
Sul banco degli imputati non ci sono solo i ben noti marchi di moda low cost, bensì anche nomi blasonati fino ad arrivare alle maison di Alta Moda, in alcuni casi accusate di poca chiarezza a proposito delle risorse e delle materie prime utilizzate, spesso con riferimento a quelle di origine animale.

Volete un esempio circa il fatto che anche i brand blasonati non siano sempre innocenti?

In quanti ricordano lo scandalo che colpì Moncler, accusata nel 2014 dalla trasmissione Report di spennare crudelmente le oche per fare i propri piumini?
Io ne parlai confessando anche tutte le mie personali debolezze e poi, da allora, non ho mai smesso di monitorare la questione, soprattutto per seguire l’andamento della reputation e in particolare della web reputation del marchio (sono studi che fanno parte del mio lavoro in ambito comunicazione).
Ebbene, posso dirvi che delle povere oche non si ricorda proprio nessuno, visto che la crescita di Moncler è sempre stata costante, soprattutto in termini economici: certo, per amor di cronaca e di verità, c’è da dire che da allora l’azienda ha accettato di trattare con molte associazioni animaliste e questo è apprezzabile.

Per fortuna, oggi esistono organizzazioni come Fashion Revolution il cui scopo è sottolineare quanto sia importante che i marchi – tutti i marchi – siano trasparenti nei confronti di noi consumatori.
Lo scopo è che le aziende di abbigliamento forniscano i dati circa le loro filiere di approvvigionamento, in modo tale da individuare chi non è conforme agli standard necessari e potendo così gestire i rischi della mancata conformità, preservando i diritti umani, salvaguardando la dignità dei lavoratori, attuando politiche ambientali idonee.
Fashion Revolution fa tutto ciò in tanti modi, presso le aziende e presso il grande pubblico, per esempio lanciando l’hashtag #whomademyclothes e invitando noi tutti a essere responsabili ponendoci degli interrogativi e dando dunque un contribuito – piccolo eppure concreto – per debellare tutte le pratiche che portano allo sfruttamento scriteriato e irresponsabile, che sia a carico dell’uomo o dell’ambiente.

Come ho confessato proprio in occasione del mio articolo su Moncler e anche in altri contesti, né la mia persona né il mio blog si possono considerare liberi da colpa.
Perché – come molti – anch’io compro talvolta capi fast fashion.
Perché uso borse, cinture, calzature e giacche in pelle.
Perché cerco di evitare la pelliccia ma talvolta ho ceduto.
Perché mangio la carne e mi piace.
La mia posizione è dunque ibrida, me ne rendo conto, nonché piena di contraddizioni: ammetto le mie debolezze, eppure vi dico che, anche grazie al mio lavoro nella moda, cerco di tenere gli occhi aperti e cerco di non smettere di pormi domande, costantemente, continuando a mettere in discussione me e le mie idee ogni singolo giorno.

Non sono pertanto qui a fare la predica a nessuno, sia ben chiaro, però voglio fare la mia piccola parte perché non ci si dimentichi del Rana Plaza, perché non ci si dimentichi delle oche spennate, perché non ci si dimentichi dei brand – e non mi importa che siano fast fashion o Haute Couture – che fanno fare i capi che indossiamo in fabbriche dalle politiche poco chiare, magari da persone che non avrebbero nemmeno l’età per lavorare.

E ho scelto di dare il mio contribuito concreto onorando l’hashtag #whomademyclothes e raccontandovi di una piccola realtà – artigianale, italiana e a conduzione familiare – della quale sono personale cliente da circa un anno perché, nonostante le mie debolezze e contraddizioni, cerco sempre più di fare scelte consapevoli e acquisti responsabili.

La realtà di cui vi voglio parlare si chiama Chez Blanchette e nasce nel 2008, dieci anni fa.

Cosa fa questo marchio?
Produce abbigliamento per donna e uomo, spesso unisex, in tessuto recuperato e riciclato, proponendo linee baggy, ovvero morbide e rilassate: proprio grazie a queste linee, i capi possono essere unisex, volendo, e il marchio riesce a vestire davvero tutte le donne, incluse le donne che si trovano nel periodo più bello e delicato, ovvero la gravidanza.
Chez Blanchette realizza anche orecchini fatti a mano con tessuti e stampe vintage.

Il progetto è iniziato con Bianca, «tra un lavoro serale in pizzeria, vari traslochi e tante peripezie», come racconta lei stessa.
La gioia più grande di Bianca nonché quello che lei considera il miglior successo è il fatto di essere riuscita nel tempo a portare le sue sorelle, Martina e Camilla, dentro il progetto Chez Blanchette.

Ma perché il nome Chez Blanchette?
Perché Bianca veniva chiamata Blanchette da alcuni amici, vezzeggiativo francese che è un po’ come dire Bianchetta, e così, quando è arrivato il momento di decidere un nome per il suo marchio da registrare, Bianca ha pensato a quel vezzeggiativo grazioso al quale ha deciso di aggiungere chez, ovvero da sempre in francese.

Et voilà Chez Blanchette, ovvero dalla piccola Bianca.

Chez Blanchette realizza principalmente pezzi unici o in tirature davvero molto limitate, proprio perché lavora con tessuti di recupero: il bello è che fa tutto ciò vendendo ai prezzi che caratterizzano i capi che di solito compriamo nelle catene fast fashion.

Come riesce Chez Blanchette a fare ciò garantendo un’ottima qualità di tessuti?

Ora cerco di spiegarvelo attraverso due importanti parole chiave – RICICLO e ORGOGLIO – lasciando la spiegazione a Bianca stessa.

IL RICICLO
«Da qui è iniziato tutto, da piccoli pezzi di tessuto trovati per mercatini o nei bauli della nonna (sì, le ho svaligiato casa).
Fino ad arrivare al punto in cui siamo ora, con la nostra piccola produzione di abbigliamento artigianale in tessuti di riciclo, vecchie rimanenze di produzioni più grosse della nostra, rimanenze di magazzino, stock di fallimenti, cose che forse nessuno avrebbe più voluto, di sicuro non il cosiddetto fast fashion.
Per noi non esistono numeri, per noi esistono pezzi unici o piccolissime quantità, per questo quando le clienti vengono a conoscerci nei market e ci raccontano del loro primo capo acquistato noi ancora ce lo ricordiamo o spesso siamo noi per prime a ricordare quale è stato il loro primo capo, poiché ogni capo è unico.
Perché io mi dimentico di fare la spesa o stendere i panni, di pagare bollette o rabboccare l’olio dell’auto, ma mi ricordo di tutti i tessuti che mi passano tra le mani e conservo tutti i loro cartellini forse maniacalmente, ma mi piacciono da matti, ci trovo scritte cose che mi fanno sorridere, che mi emozionano, e spesso sono tessuti che vengono da piccole produzioni come la nostra, con ancora nome, cognome e telefono del cliente per cui andava confezionato il capo. Siamo davvero fortunate a poter fare ciò che facciamo.»

Permettimi di dire che è una fortuna che avete saputo costruirvi, mia cara Bianca, perché certe fortune non piovono dal cielo, ma si costruiscono con sacrificio.

L’ORGOGLIO
«Provo un estremo orgoglio a pensare a come viene svolto il nostro lavoro, artigianale, nel rispetto delle persone, dell’ambiente e della legalità.
Molte volte mi chiedo se avere un posto fisso, da dipendente, senza tutti i crucci e talvolta le delusioni che mi provoca questo lavoro, sarebbe meglio per me e per il mio futuro.
Eppure credo anche che la rivoluzione debba partire da qualcuno ed è troppo facile stare seduti ad aspettare che qualcun altro si metta in gioco.
Io sono in ballo da oramai 10 anni e, nonostante le badilate sui denti quanto a tasse e spese varie, sorrido ancora tutti i giorni e sono felice della decisione presa.
Questo è il mio futuro e sono sicura che l’etica sarà sempre la mia strada.»

Lo voglio sottolineare con forza: «rispetto delle persone, dell’ambiente e della legalità», esattamente tutto ciò che è mancato al Rana Plaza e che ha condotto alla morte di tante, troppe persone.

Chapeau, Bianca.

Io mi tolgo il cappello davanti a te e a Marti e Cami, le tue sorelle.
Mi tolgo il cappello davanti alla vostra forza, coerenza, etica, al vostro coraggio.

Non sono coerente quanto voi, l’ho già ammesso, ma questo post è un omaggio a tutte le vittime del Rana Plaza e tutte le persone come voi che, anziché stare sedute e lasciare la responsabilità a qualcun altro, si alzano in piedi e si mettono in gioco, facendo una scelta e portandola avanti nonostante sia tutt’altro che facile.

E allora vi invito, cari amici che leggete, a guardare il lavoro di queste ragazze e a decidere a vostra volta da quale parte stare.

Qui trovate il sito Chez Blanchette, qui il loro e-shop, qui la pagina Facebook e qui il canale Instagram attraverso il quale potrete apprendere tante cose su di loro e imparare a conoscerle giorno dopo giorno.

Mi sento totalmente tranquilla nel lasciarvi nelle loro mani capaci e competenti perché, dopo averle testate e messe alla prova (ebbene sì, sono una carognetta…) per un annetto (d’altro canto ho acquistato quattro tute e una gonna…), posso ampiamente testimoniare l’efficienza, la precisione, la grande correttezza, la velocità (mettete in preventivo qualche giorno in più se richiedete personalizzazioni) e l’estrema umanità che queste giovani professioniste riserveranno ai vostri eventuali ordini – e credo non sia poco, giusto?

Quanto a me… spero stavolta di averle sorprese io, visto che di questo post non ho detto loro nulla prima che vedesse la luce.

E le voglio ringraziare perché, quando indosso i capi Chez Blanchette, posso davvero sapere #whomademyclothes.

Manu

 

 

Io in Chez Blanchette, nel corso del tempo e in occasioni diverse: con la maxi gonna fiorata (qui, qui, qui) e poi con le mie TUTEcorda, in versione gessata (qui, qui, qui, qui), in versione floreale (qui), in versione rigata (qui).

 

 

 

 

 

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Manu

Mi chiamo Emanuela Pirré, Manu per gli amici di vita quotidiana e di web. Sono nata un tot di anni fa con una malattia: la moda. Amo la moda perché per me è una forma di cultura, una modalità di espressione e di comunicazione, un linguaggio che mi incuriosisce. Scrivo e creo contenuti in ambito editoriale, principalmente proprio per la moda. Insegno (Fashion Web Editing, Storytelling, Content Creation) in due scuole milanesi. Vivo sospesa tra passione per il vintage e amore per il futuro e sono orgogliosa della mia nutrita collezione di bijou iniziata quando avevo 15 anni. Per fortuna Enrico, la mia metà, sopporta (e supporta) entrambe, me e la collezione, con pazienza e amore. Oltre a confessare un'immensa curiosità, dichiaro la mia allergia a pregiudizi, cliché, luoghi comuni, conformismo e omologazione. Detesto i limiti, i confini, i preconcetti – soprattutto i miei – e mi piace fare tutto ciò che posso per superarli. La positività è la mia filosofia di vita: mi piace costruire, non distruggere. Moda a parte, amo i viaggi, i libri e la lettura, l'arte, il cinema, la fotografia, la musica, la buona tavola e la buona compagnia. Se volete provare a diventare miei amici, potete offrirmi un piatto di tortellini in brodo, uno dei miei comfort food. Oppure potete propormi la visione del film “Ghost”: da sognatrice, inguaribile romantica e ottimista quale sono, riesco ancora a sperare che la scena finale triste si trasformi miracolosamente in un lieto fine.

Glittering comments

Barbara
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Ciao Manu! Grazie x avermi fatto conoscere questa realta…gia visitato sito e già innamorata della gonna floreale😊

Manu
Reply

Ma sono io che ti ringrazio, cara Barbara!
Grazie per aver letto, grazie per esserti incuriosita, grazie per aver visitato il sito di Chez Blanchette, grazie per esserti innamorata della gonna!
Ecco, questo è tutto ciò in cui spero quando occupo il mio tempo a conoscere realtà come quelle di Bianca, Martina e Camilla: spero che ci siamo persone intellettualmente aperte e curiose come te, che abbiano a loro volta voglia e tempo per dare una chance a chi lavora nel rispetto delle persone e dell’ambiente.
Ti abbraccio,
Manu

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