Se stavolta il mio compleanno porta con sé una maggiore consapevolezza
E siamo a quota cinque.
Di cosa parlo?
Con oggi, 26 novembre 2017, sono cinque i miei compleanni festeggiati qui, attraverso A glittering woman, lo spazio web al quale tengo molto e che curo con grande passione, come se fosse una tenera piantina da proteggere e fare crescere giorno dopo giorno.
Quindi, per prima cosa… me lo permettete? Ma sì, dai, tanti auguri a me 🙂 🙂 🙂
Di solito, A glittering woman non vede me come protagonista diretta o esclusiva.
Durante tutto l’anno, i protagonisti sono i talenti che sostengo, in ambito moda o negli altri ambiti che suscitano il mio interesse e solleticano la mia curiosità: fa eccezione solo il 26 novembre, giorno in cui il post che pubblico è dedicato a me stessa.
È diventata una piccola tradizione, l’unica occasione in cui mi metto al centro: cosa ne dite, una botta di egocentrismo all’anno può essere accettabile?
Questi post sono un modo per raccontare qualcosa di me e della fase che sto vivendo: il tutto è accompagnato dalle foto di alcune delle esperienze che ho vissuto nel corso dell’anno.
Il primo anno, il 2013, è stato quello della gioia mista però a una vena di malinconia (lo stesso giorno era successo un fatto che mi aveva irrimediabilmente rovinato la giornata); il secondo anno è stato invece quello della sindrome da pallina da flipper (quando ci si sente un po’ sballottati come avviene, appunto, a una povera pallina intrappolata nel celebre gioco).
Il 2015, il terzo anno, ho parlato della teoria del kintsugi che significa letteralmente riparare con l’oro, una pratica giapponese che consiste nel sistemare oggetti rotti attraverso l’uso di materiali preziosi: contiene – naturalmente – un messaggio intrinseco, ovvero che la vita consta non soltanto d’integrità, ma anche di rottura e che tale rottura va accolta come qualcosa che aggiunge bellezza. Era una metafora perfetta per gli accadimenti di quel periodo.
L’anno scorso, invece, il quarto anno, è stato quello della gratitudine. Semplicemente (semplicemente si fa per dire).
Questa volta voglio parlarvi di consapevolezza e della mia visione del social che attualmente preferisco, ovvero Instagram: le due cose, tra l’altro, sono collegate e vi spiegherò come e perché.
Prima di tutto parto dicendovi che, per il primo anno, le foto che vedrete vengono direttamente ed esclusivamente dal mio account Instagram: l’ho detto, è il social network che attualmente prediligo, quello che mi diverte di più, quello che mi aiuta a esprimermi meglio, quello che mi permette di fare gli incontri più interessanti.
Molto di ciò che condivido passa conseguentemente da Instagram (e sempre meno da Facebook) e pertanto, volendo fare una gallery che raccontasse il mio ultimo anno, è stato naturale pescare da lì.
Chi mi conosce bene potrebbe però pensare che l’amore per Instagram (fortemente incentrato sulle immagini) sia strano, visto che è la parola ad avermi caratterizzata fin dalla più tenera infanzia.
Mia mamma racconta per esempio un episodio che risale al mio primo viaggio in aereo: avevo circa due anni e, mentre lei era bloccata al suo posto a causa di una forte nausea, io passeggiavo tranquilla lungo il corridoio, come se nulla fosse e come se l’aereo mi fosse assolutamente familiare, intrattenendo hostess e passeggeri, tutti divertiti da una tipetta sorridente e chiacchierina, alta quanto un soldo di cacio, per nulla intimorita dalla situazione sicuramente nuova per una bimba.
Devo dire che questo piccolo episodio rappresenta molto bene la propensione che da sempre ho avuto ad approcciare gli altri e a chiacchierare, propensione che ha poi trovato il suo massimo coronamento nella scrittura.
Scrivo da sempre, da quando ne ho memoria: ho riempito decine di quaderni, taccuini, agende, diari, Smemoranda (le ricordate?).
Quando ho iniziato a scrivere professionalmente, sentivo che era un ambito nel quale potevo riuscire bene, eppure io stessa non sapevo quante parole avessi dentro di me e quante nuove ne avrei trovate.
Le parole sono parte di me al punto tale che chi mi conosce bene si preoccupa quando mi chiudo nel silenzio. Non è un buon segno, in effetti.
La comunicazione verbale ha per me un grande valore e cerco di non usare le parole a caso, mai; né quando le uso per raccontare persone, progetti, prodotti; né quando le uso per raccontare me stessa e i miei sentimenti.
E, stavolta, desidero usarle per raccontarvi il cambiamento che ho vissuto proprio negli ultimi 365 giorni, dallo scorso novembre a oggi, e che porta alla nuova consapevolezza alla quale mi riferisco.
All’inizio il cambiamento è stato impercettibile, tanto che non l’ho quasi notato; poi, ho pensato si trattasse di eventi casuali e slegati per notare, infine, che gli episodi in realtà si moltiplicavano.
Cosa è successo?
È successo che, finalmente, sono riuscita a dare un valore preciso al mio tempo e al mio lavoro in qualità di libera professionista.
Voi direte: che novità, è cosa normale.
Certo, è normale, tant’è che in realtà era un processo in corso da anni ma che nell’ultimo ha visto il suo compiersi definitivo: è normale o dovrebbe esserlo, ma non è scontato né automatico, soprattutto per una come me che, per tanti anni (una vita precedente come la definisco scherzosamente), è stata una lavoratrice dipendente.
Sapete, mi è accaduta una cosa buffa.
Quando mi interfacciavo con i datori per i rapporti di lavoro subordinato, sapevo perfettamente quale fosse lo stipendio al quale puntavo, soprattutto quando ho iniziato ad avere un’esperienza consolidata; da quando sono diventata lavoratrice autonoma, faccio invece più fatica a comprendere il giusto compenso da chiedere per le attività che svolgo.
Un po’, forse, è colpa / merito di fare finalmente ciò che amo: fatico come una pazza, molto più di prima, eppure ciò che faccio mi appassiona così tanto che mi sembra di non lavorare.
Ecco, sì, forse il problema è proprio questo, ovvero non davo abbastanza peso io stessa a ciò che faccio, quasi come se fare un lavoro che è anche una passione trasformi quel lavoro in altro, in svago. Quasi come se sia una colpa, qualcosa da espiare perché troppo bello.
Non è così, è sempre lavoro, e io, finalmente, dopo un lungo percorso durato anni, l’ho capito appieno: ho fatto mio il concetto e ora sono io a trasmetterlo agli altri.
Ecco il cambiamento, ecco la nuova consapevolezza.
Un cambiamento quasi miracoloso: la conquista della consapevolezza di sé non è forse un piccolo miracolo?
Quando in questi anni mi dicevano «sei brava ma devi anche imparare a dare un prezzo al tuo lavoro» mi sembrava una cosa tanto brutta: non volevo avere un cartellino con il prezzo, non era per quello che avevo cambiato il corso della mia vita.
Ma alla fine ho capito: non è questione di avere un prezzo bensì è questione di darsi un valore, di essere consapevoli, è questione di una corretta impostazione.
Se siamo noi per primi a darci un valore lo faranno anche gli altri.
E poi avere un prezzo (mi riferisco al lavoro) non è sbagliato se ciò che si vende è limpido, onesto, corretto, reale, autentico.
Insomma, ho cambiato la mia attitudine e, conseguentemente, è cambiata l’attitudine altrui.
Talvolta, quando siamo in una situazione di disagio o difficoltà, dovremmo chiederci se il cambiamento che sentiamo come necessario non sia da ricercarsi negli altri quanto piuttosto e soprattutto in noi stessi: ebbene sì, spesso è una questione di messaggi, magari inconsci o subconsci, che lanciamo noi per primi agli altri.
Certo, strada da fare ce n’è ancora, ma credo che tutti, oggigiorno, siamo più che mai in costante cammino e credo di aver finalmente messo a fuoco i messaggi che trasmetto e gli obiettivi che mi pongo.
Ma la strada della consapevolezza non è solitaria – non per me, almeno.
Ci sono state persone e situazioni che mi hanno aiutata e ispirata e mi fa piacere riconoscere alcuni meriti, proprio come nel mio mestiere si fa con i crediti fotografici di un editoriale.
Il primo merito va a Gloria Rovere, designer e illustratrice che ho conosciuto grazie a Instagram (toh!) e che poi ho avuto la fortuna di incontrare di persona.
Un giorno Gloria ha pubblicato un post che mi ha colpito con la forza di un diretto in pieno volto – ma con esito positivo 😉
«Non è orgoglio. Non è egoismo o presunzione. Semplicemente è il tuo valore. Sapere chi sei. L’autostima è amica stretta della consapevolezza e come lei ci rende più autentici.»
Il post di Gloria diceva così e, tante volte, sono le parole degli altri a raccontarci meglio delle nostre.
È bellissimo riconoscersi nelle parole altrui e questo è esattamente tutto ciò che penso oggi a proposito di consapevolezza e autenticità.
Il secondo merito va a Valentina Tomirotti, giornalista che stimo profondamente e della quale ho avuto anche il privilegio di scrivere per SoMagazine.
Anche con Valentina ci si conosce di persona, ma ci teniamo in contatto soprattutto grazie ai social e anche lei mi ha dato una mano attraverso un suo post Instagram, tra l’altro pubblicato per il suo compleanno.
«Essere i migliori amici di sé stessi non è scontato, è riuscire ad alleggerire la presenza in questo mondo. Vogliatevi bene, ve lo dovete!»
Così terminava il post e mi è sembrato un augurio meraviglioso a coronamento di un percorso, perché lo scopo ultimo di una conquistata consapevolezza deve condurre a questo, e essere i migliori amici di noi stessi e a volerci bene.
Il terzo credito va a una mia studentessa e non è la prima volta che i ragazzi di Accademia del Lusso sono fonte di soddisfazioni e illuminazioni.
Tra tutti i progetti e le attività che seguo attualmente, nulla mi dà tanta gioia, entusiasmo, soddisfazione e orgoglio quanto insegnare: è vero, insegnare richiede tantissimo impegno e infinita energia, ma altrettanta ne restituisce. Ed è vero che, se si insegna con il cuore aperto e con una vera voglia di condivisione, in realtà molto si apprende.
Un giorno mi sono fermata con una mia studentessa per darle un piccolo aiuto per il compito di un’altra materia: lei mi ha confessato di essersi rivolta a me perché con me si sente a suo agio e perché in me vede «un’insegnante appassionata e generosa».
È stato come vincere alla lotteria: alcune volte, nelle parole degli altri ci riconosciamo, come accade con quelle di un libro che sembra scritto per noi o come a me è accaduto con quelle di Gloria e Valentina; altre volte, invece, le parole degli altri ci confermano che siamo sulla strada giusta, esattamente quella su cui speravamo di trovarci.
E così, le parole di questa ragazza (grazie C. G.) sono state una splendida conferma del fatto che il cammino intrapreso mi stia facendo arrivare agli altri esattamente nel modo in cui desideravo, diretto, vero, sincero, appassionato, autentico, aperto.
Anche avere avuto una conferma di questo tipo ha contribuito affinché potessi completare il mio percorso di consapevolezza.
Vi avevo però promesso di dire come tutto questo discorso della consapevolezza sia legato (anche) a Instagram.
Prima di tutto, a parte il fatto che da sempre chiacchiero (vedere episodio aereo…) e scrivo, a un certo punto della mia vita ho realizzato un fatto importante: che si parli di immagini o di parole, per me ciò che resta fondamentale è la voglia di comunicare. Comunicare veramente.
E la comunicazione, per me, è una passione talmente grande da decidere di farne un lavoro.
Come avete potuto leggere qui sopra, Instagram è stato spesso il mezzo che mi ha dato spunti nel percorso verso la consapevolezza: lo ha fatto non solo attraverso i post di persone che stimo, ma anche grazie alla osservazione costante e silenziosa che conduco.
Osservare e studiare i social network e la loro evoluzione è infatti una parte importante del lavoro di chi come me si occupa di comunicazione e devo dire che offre spunti molto interessanti sotto molteplici punti di vista.
Per riuscire ad arrivare dove voglio, userò un parallelo.
Tempo fa, in occasione della scomparsa del fotografo Bill Cunningham, una delle mie icone, avevo parlato della differenza tra lui e il collega Scott Shuman, ovvero della differenza tra candid photography e fotografia posata.
Le immagini di Bill Cunningham erano definite – anzi sono e rimarranno, giustamente e a pieno titolo – candid photograph, ovvero quel tipo di fotografie realizzate senza creare una posa studiata ad arte. Si tratta di veri e propri scatti rubati, catturati al volo.
Ciò faceva di Bill Cunningham un fotografo di street style, mestiere che ha fatto in qualità di precursore per buona parte della sua vita.
Credetemi se vi dico che, oggi, in alcuni dei fotografi di street style non c’è nulla di veramente rubato o catturato al volo. Tutto – o quasi – è studiato, incluse le pose (so che mi farò dei nemici, ma è necessario dire la verità).
Non mi credete? Guardate una foto di Bill Cunningham e guardatene una di Scott Schuman e sono certa noterete la differenza.
Per carità, non c’è nulla di male, il lavoro di Schuman è – forse – un’evoluzione e i differenti punti di vista possono sicuramente convivere, ma consentitemi di dire che io preferisco la genuinità, la spontaneità e la veridicità di Bill Cunningham.
Naturalmente può capitare anche nello street style più autentico – quello catturato al volo – che il soggetto si accorga dell’intenzione del fotografo e che, magari, gli doni un sorriso: ciò che non mi convince né piace, però, è che la foto sia concordata, per giunta con richiesta da parte del fotografo di pose, posture e gesti precisi.
Ecco, a mio umile avviso questo cessa di essere genuino e sicuramente non è uno scatto rubato, come invece scrivono poi alcuni nelle didascalie: è un ritratto – che è un’altra cosa.
Perché rinvango questa storia?
Perché mi serve per parlare delle due facce di Instagram: la differenza tra candid photography e fotografia posata è la stessa che esiste tra chi sceglie di avere un account di tipo naturale (o grezzo/spontaneo/casuale/improvvisato/imperfetto) e chi sceglie di averne uno di tipo patinato (o preparato/programmato/costruito/perfetto).
Ci sono infatti oggi due scuole di pensiero che vanno per la maggiore su Instagram che si divide tra chi gestisce il proprio profilo come una sorta di diario un po’ casuale (e anche casereccio, lo ammetto) e chi lo gestisce invece come uno strumento da programmare e attraverso il quale tutto viene accuratamente studiato e scrupolosamente programmato (guai a condividere qualcosa che non faccia parte di uno schema).
In principio, Instagram era nato come social in grado di fotografare – letteralmente! – gli attimi, la nostra vita quotidiana, e per condividere tutto ciò con gli altri.
Che poi in molti vi abbiano visto una possibilità di guadagno e che l’abbiano trasformato in altro è normale, era una delle evoluzioni possibili, e non mi sconvolge né ci vedo nulla di male, ma non è detto che tale evoluzione vada bene a tutti: io, per esempio, dico no grazie.
E lo dico nonostante anch’io – come molti – con Instagram in parte ci lavori, ma questo per me non significa che debba perdere autenticità, spontaneità, immediatezza, naturalezza: non accetterò che, per lavorare, il mio account si trasformi in qualcosa di patinato e che non rappresenta affatto la mia vita.
Anzi, vi dico che sincerità e spontaneità in verità pagano, facendomi guadagnare un capitale di stima (moneta non sonante né immediata ma spendibile a lungo termine) e portandomi conseguentemente lavoro in altri ambiti (anche questo ragionamento fa parte della mia nuova consapevolezza).
È tutto molto più impegnativo e molto meno diretto e veloce ma, d’altro canto, a me le scorciatoie non sono mai piaciute.
Tengo moltissimo a precisare che la mia non è assolutamente una critica verso chi ha abbandonato la spontaneità in nome della programmazione visto che, tra l’altro, seguo diversi profili patinati, chiamiamoli così, e sono quegli account che riescono a risultare accattivanti e veritieri perfino nella perfezione – equilibrio per niente facile, tra l’altro, perché la perfezione suscita ammirazione o fastidio o invidia, ma difficilmente suscita coinvolgimento o empatia.
Ognuno è libero di fare ciò che vuole ed è tutta questione di scelte, come sempre e come in ogni ambito della nostra vita, scelte che rispetto e che osservo con curiosità (viva la differenza, sempre), ma io non posso, non riesco e non voglio fare questa scelta.
Per ben due motivi.
Primo, perché non sono interessata né alla perfezione né alle patinature e questo né in Instagram né nella vita reale.
Secondo perché il mio scopo non è rappresentare una vita pseudo perfetta: la mia vita non è perfetta, ho solo la fortuna di vivere alcune cose che mi sembrano belle (tenendo a mente che le cose belle accadono o possono accadere a tutti) e che ho voglia di condividere con gli altri.
Il tutto come ben dicono alcune delle massime che ho scelto e che ho inserito tra queste righe e che vengono tutte dal mio accont Instagram.
Voglio concedermi il lusso di imperfezioni e sbavature perché non sto cercando di rendere geloso qualcuno – come dice l’attrice Dakota Fanning in un’intervista che ho ri-postato sul mio profilo perché non avrei saputo esprimere questo concetto meglio di così, vedere qui sotto.
E se qualcuno sta leggendo e scuote la testa davanti alle mie parole perché propende per la visione patinata, citerò un esempio illustre ed eclatante: quello di Suzy Menkes.
La Menkes è stata fashion editor per il prestigioso International Herald Tribune – ora International New York Times – per 25 anni, lasciandolo nel 2014 per diventare international editor per 19 edizioni internazionali di Vogue online: in parole povere vuol dire che, in ben 19 edizioni digitali di Vogue in tutto il mondo, il suo nome figura nel menù principale nella home page della testata e implica che i suoi articoli vengano conseguentemente condivisi con un pubblico immenso.
Penso di poter affermare senza tema di smentita che, oggi, è una delle giornaliste di moda e costume più importanti, autorevoli e influenti che esistano: ecco, questa grande professionista di moda e comunicazione ha un account Instagram assolutamente spontaneo e genuino, che rappresenta ciò che vive (nel privato e nel lavoro) senza troppe rileccature o patinature, a volte con foto perfino un po’ sfocate perché prese al volo.
Lei è per me un ottimo esempio: se dovessi indicare un percorso al quale aspiro, il suo sarebbe uno dei nomi da citare e se lei vede Instagram come lo vedo io… perdonatemi ma ciò mi rafforza.
Volendo potrei citare altre star o celebrità, inclusa Dakota Fanning già citata nell’immagine qui sopra.
E se loro – che sono vere star – scelgono la spontaneità… forse un senso ci sarà in questo tipo di scelta, no?
Voglio condividere quello che mi piace e quello che vivo, quello che mi capita per caso e che non avevo programmato, un incontro casuale con un fiore piuttosto che con una cosa buffa, senza troppo retropensiero, senza troppo calcolo, senza troppa progettazione, senza troppa programmazione. Senza troppi scopi reconditi.
Voglio potermi sorprendere con dei fuori programma e non voglio costantemente e sistematicamente dover pensare a like, follower, conversione come se si trattasse solo di un freddo investimento economico: per me è piuttosto un investimento emozionale e voglio divertirmi rimanendo autentica e incontrando altre persone autentiche.
Voilà.
Qualcuno continua a pensare – nonostante Suzy Menkes & co. – che questo fa di me una persona poco cauta (o poco esperta) nell’ambito della nuova comunicazione?
Pazienza e comunque vi dico che proprio la comunicazione digitale non sta affatto procedendo nella direzione che molti si aspettano.
Questo giovedì, sono stata a un convegno di formazione e aggiornamento dedicato a brand reputation e social media: in parole povere, si è discusso di strategie, pratiche e strumenti per tutelare la reputazione delle aziende oggi, nell’epoca del digitale.
Sapete qual è una delle cose più interessanti che sono emerse?
Che, grazie al digitale, la comunicazione (che una volta era unidirezionale, qualcuno produceva contenuti e qualcuno ne usufruiva) si sta trasformando in conversazione e dialogo (e dunque bidirezionale perché chi riceve il contenuto può oggi interagire): dunque, chi (brand o persone) ha incentrato tutto su sé stesso, magari pensando che la perfezione sia sufficiente, farebbe bene a rivedere le proprie strategie e a iniziare a prendere atto del cambiamento che sempre più porterà a penalizzare il modello egocentrico.
Lo scenario che si sta delineando privilegia infatti l’interazione soprattutto attraverso il listening, ovvero la capacità di ascoltare e rispondere ai bisogni altrui.
E questo perché la frontiera più avanzata del digitale torna – per paradosso – a mettere al centro l’individuo.
Brunello Cucinelli, l’imprenditore umbro fondatore dell’omonima casa di moda specializzata in cashmere, parla da tempo di tecnologia garbata e di umanesimo digitale.
L’ha fatto anche lo scorso 8 novembre, in occasione di un importante convegno a San Francisco, di fronte a una platea che comprendeva personaggi del calibro di Michelle Obama (ex First Lady degli Stati Uniti), Susan Wojcicki (CEO di YouTube), Ginni Rometty (presidente e CEO di IBM).
Capite quanto sono avanti (o straordinariamente intuitive) persone come Suzy Menkes e Dakota Fanning – che hanno già capito tutto – e perché preferisco la loro scelta nel gestire Instagram rispetto a quella di chi invece si ostina a perseguire la perfezione che (lo ripeto) difficilmente porta al coinvolgimento e all’interazione?
Insomma, tornando a noi: dopo essere stato un mezzo, oggi Instagram è anche il risultato e lo specchio del mio percorso.
Come?
Ho parlato di consapevolezza e di voglia di comunicare.
Ho usato più volte aggettivi quale diretto, vero, sincero, appassionato, autentico, aperto, limpido, onesto, corretto, reale.
Ecco, io desidero che il mio account Instagram sia tutto questo, che sia il concretizzarsi di tutti quegli aggettivi e che sia il riflesso della mia voglia di comunicare e della consapevolezza che ho conquistato, dell’amicizia che ho fatto con me stessa e che non voglio mi renda egoista o egocentrica o presuntuosa bensì autentica.
È con questi occhi, con questa visione e con questa consapevolezza che guardo anche le mie foto: anno dopo anno, vedo tante cose belle vissute (e torna la gratitudine) e vedo anche una me stessa che invecchia.
Qualcuno, per rimediare a problemi di questo tipo, fa ampio uso di Photoshop e di filtri, su Instagram e non solo: mi dispiace ma non ho alcuna intenzione di uniformarmi nemmeno a questo.
Sì, è vero, sono invecchiata e – peggio ancora – continuerò a invecchiare, ma volete sapete una cosa?
Quella che vedete sulla mia faccia è tutta la vita che ho vissuto.
E che mi sono goduta con golosità bevendomela tutta, fino all’ultima goccia. Senza riserve, senza mai risparmiarmi.
Come potrei cancellarla con qualche filtro? Mi sembrerebbe un’eresia, un non senso.
La consapevolezza è anche questo: prendere atto della propria imperfezione, prendere atto di come vanno certi fenomeni più o meno di massa e decidere la propria strada, consciamente e autonomamente.
Ed ecco come in ultima analisi la consapevolezza e Instagram sono collegati: nonostante veda che in molti ancora prevale la voglia di perfezione e preso atto che io non lo sono, scelgo di continuare a pubblicare le immagini che amo, di ciò che vivo (anche se casuale) e di me stessa (sebbene imperfetta).
Anche perché io sono pronta al cambiamento della comunicazione da unidirezionale a bidirezionale, visto che voglia di dialogo e bisogno di confronto mi hanno in realtà sempre contraddistinta, fin da quel primo lontanissimo viaggio in aereo di cui ho parlato in principio.
E proprio a proposito di voglia di comunicare / dialogare / confrontarsi, mi preme dirvi che sto condividendo questo lungo sproloquio con voi perché, se dovesse offrire un minimo spunto (come alcune persone lo hanno offerto a me) lungo la strada della ricerca della consapevolezza anche solo a una persona, ne sarei felicissima.
Nonostante, come d’abitudine, io non pretenda affatto di aver scritto l’assoluta verità giusta per tutti, bensì quella che per me è la verità.
Parto sempre dal presupposto che i miei siano solo pareri e, conseguentemente, tengo presente che i pareri sono buoni per chi li enuncia, ma talvolta possono risultare inadatti per chi li ascolta.
Così come i consigli che, per quanto possano essere dati con le migliori intenzioni di questo mondo e a fin di bene, possono essere inadatti per chi li riceve.
Pertanto, il mio invito è sempre lo stesso: prendete ciò che di buono trovate nelle mie parole e poi costruite la vostra strada.
Ovunque vi porti il vostro percorso, quello sarà il luogo più giusto per voi e magari sarà mille miglia lontano dal mio.
Ma non importa: per la milionesima volta ripeto evviva la differenza, evviva la personalità, abbasso l’omologazione poiché ciò che più conta è essere coerenti, sinceri e onesti con noi stessi.
Ho finito, finalmente: vi lascio al foto-racconto dei miei 365 giorni più recenti, non tutti, don’t worry 🙂 🙂 🙂
E non ricordo più se l’ho già detto ma… tanti auguri a me e grazie a voi per la pazienza e per essere qui ♥
Manu
Manu
Mi chiamo Emanuela Pirré, Manu per gli amici di vita quotidiana e di web. Sono nata un tot di anni fa con una malattia: la moda. Amo la moda perché per me è una forma di cultura, una modalità di espressione e di comunicazione, un linguaggio che mi incuriosisce. Scrivo e creo contenuti in ambito editoriale, principalmente proprio per la moda. Insegno (Fashion Web Editing, Storytelling, Content Creation) in due scuole milanesi. Vivo sospesa tra passione per il vintage e amore per il futuro e sono orgogliosa della mia nutrita collezione di bijou iniziata quando avevo 15 anni. Per fortuna Enrico, la mia metà, sopporta (e supporta) entrambe, me e la collezione, con pazienza e amore. Oltre a confessare un'immensa curiosità, dichiaro la mia allergia a pregiudizi, cliché, luoghi comuni, conformismo e omologazione. Detesto i limiti, i confini, i preconcetti – soprattutto i miei – e mi piace fare tutto ciò che posso per superarli. La positività è la mia filosofia di vita: mi piace costruire, non distruggere. Moda a parte, amo i viaggi, i libri e la lettura, l'arte, il cinema, la fotografia, la musica, la buona tavola e la buona compagnia. Se volete provare a diventare miei amici, potete offrirmi un piatto di tortellini in brodo, uno dei miei comfort food. Oppure potete propormi la visione del film “Ghost”: da sognatrice, inguaribile romantica e ottimista quale sono, riesco ancora a sperare che la scena finale triste si trasformi miracolosamente in un lieto fine.
Glittering comments
Le tue parole non saranno “l’assoluta verità per tutti”ma sicuramente hanno colpito me. In un periodo della vita non facile, perche il tempo passa e si invecchia….e un lavoro non gratificante non riesce a farmi acquisire quella bella consapevolezza di sé di cui parli…Forse non è da ricercare nel lavoto ma in me stessa. Comunque grazie e soprattutto TANTI AUGURI A TE!!!
Barbara cara,
Prima di tutto GRAZIE (sì, scritto così, a caratteri tutti maiuscoli) per esserci nelle ricorrenze e per ricordarti sempre di me. Sappi che vale moltissimo 🙂
E poi… non c’è bisogno che io dica nulla, perché la verità la conosci già e l’hai scritta da sola: la consapevolezza non è da ricercare nel lavoro né negli altri, ma in noi stessi.
Sei una donna in gamba, attiva, con tanti interessi: non ti serve cercare gratificazione negli altri! Tu sei la chiave di tutto, tu e la tua forza!
Il lavoro non è per sempre né lo è la giovinezza: l’amicizia con noi stessi, invece, lo è. Lo è essere obiettivi ma anche un po’ indulgenti con noi stessi.
E non ti dico tutto ciò per fare bella filosofia, ma perché è un percorso da intraprendere con pazienza, difficile, con tanti ostacoli, impegnativo ma che dobbiamo provare a fare, piano piano, giorno per giorno, accettando i giorni neri che ci sono per tutti.
Tra due giorni, magari, sarò triste e vedrò grigio, ma sai una cosa? Voglio sforzarmi di risalire dopo ogni caduta.
Me lo devo come te lo devi tu: sì, ce lo dobbiamo.
Ti abbraccio fortissimo e con il cuore pieno di gratitudine ti dico grazie, per gli auguri, per essere qui, per avere voglia di dialogare e confrontarti.
Manu con un sorriso 🙂 tutto per te