Storie italiane, la controversia attorno al nome Bitto…

Un dettaglio dell’opuscolo informativo del Consorzio Salvaguardia dello Storico Ribelle
che evidenzia il dispiacere di non poter più utilizzare il nome Bitto…

Amo le parole e le ho messe al centro del mio lavoro.
Credo dunque di sapere quanto esse siano importanti e quanto peso possano avere, nel bene e nel male.
Ed è proprio per questi motivi che ci sono questioni che proprio non comprendo, questioni che ruotano attorno all’uso (e all’uso negato) di certe parole.

Permettetemi di spiegare.

Durante un recente week-end trascorso a Gerola Alta in provincia di Sondrio, sono venuta a conoscenza della controversia attorno alla parola Bitto, ovvero il nome del celebre formaggio che vanta molti secoli di storia ed è tipico delle valli orobiche.

Pensate che l’origine del Bitto si fa risalire addirittura ai Celti che, dopo essere stati cacciati dalla pianura, trovarono rifugio in Valtellina: esperti pastori e casari, iniziarono a produrre formaggi per conservare e trasferire le proprietà nutritive del latte nel tempo.

Ma in cosa consiste tale controversia?
Cerco di raccontarvelo brevemente.

Nel 1996, al Bitto è stata assegnata la denominazione di origine protetta ed è nato il Consorzio Bitto DOP che ha modificato il proprio disciplinare tradizionale introducendo alcune ‘modernizzazioni’ nella procedura di produzione; un gruppo di produttori non ha gradito l’iniziativa e si è opposto alle modifiche, continuando a produrre il formaggio secondo il metodo tradizionale e separandosi dal Consorzio Bitto DOP.

Il loro Bitto detto Storico è diventato Presidio Slow Food, ovvero è stato riconosciuto come uno di quei progetti che tutelano piccole produzioni di qualità da salvaguardare, realizzate secondo pratiche tradizionali.

Quindi…

Da una parte c’è il consorzio di tutela che si è ‘modernizzato’ accettando, per esempio, l’integrazione controllata dell’alimentazione da pascolo di mucche e capre; dall’altra parte c’è un manipolo di produttori (i caricatori d’alpe) che, in nome della difesa del disciplinare tradizionale, non si sono adeguati a dette ‘modernizzazioni’, tra cui il rifiuto di qualunque integrazione rispetto al pascolo naturale.

Il risultato è, a mio avviso, un paradosso: oggi i caricatori d’alpe che non si sono adeguati non possono più utilizzare l’appellativo Bitto – nonostante producano il formaggio nella sua versione originaria – in quanto quel nome è diventato nel frattempo di esclusiva proprietà del Consorzio Bitto DOP.

Ed è per questo motivo che, a seguito di una lunga controversia tra i due gruppi, nel 2016 è nata la denominazione Storico Ribelle per indicare il formaggio prodotto secondo tradizione (quello che è Presidio Slow Food, ex Bitto Storico).

Spero, pur avendo fortemente sintetizzato, di aver raccontato l’essenza della questione e aggiungo che non miro a prendere le parti né degli uni né degli altri.

Rispetto infatti l’esigenza di modernizzare e dunque non metto in discussione questo; tuttavia, essendo io stessa costantemente sospesa tra amore per la tradizione e propensione verso la modernità e il futuro, non posso non simpatizzare con chi ha il coraggio di essere fedele al 100% a storia e tradizione, per giunta anche a costo di grandi sacrifici, perché credetemi se vi dico che la vita del caricatore d’alpe non è per niente comoda né facile.

E quindi torno alla premessa di questo racconto.

Desidero infatti dire che non capisco perché negare l’uso dell’appellativo Bitto, non capisco perché riservarsi il diritto esclusivo e assoluto sul nome negandone l’uso a chi porta avanti la tradizione: secondo me, vuol dire privare dell’identità chi ha la sola ‘colpa’ (colpa?) di avere una visione tradizionale – ed è un paradosso, come ho già detto.

Perché io ho parlato con alcuni rappresentanti del Consorzio dello Storico Ribelle e la verità è proprio questa, sì, è che si sentono defraudati del diritto su un nome che racconta una storia. La loro storia.

{Vedere foto ↑ in apertura di articolo… non esagero}

E in questo sentirsi ingiustamente defraudati… io sono d’accordo con loro, mi dispiace.

Ecco, una parte alla fine l’ho presa, almeno dal punto di vista dell’uso delle parole.

Mi assumo la responsabilità di una mia personalissima opinione, ma rivendico al tempo stesso il diritto e la libertà di averla come consumatrice e come cittadina italiana.

E lo ripeto ancora una volta, comprendo le moderne esigenze MA allo stesso tempo desidero che non venga penalizzato chi continua a far vivere la tradizione.

C’era davvero bisogno di arrivare a questo?
C’era davvero bisogno di arrogarsi l’uso esclusivo di parola gli uni a discapito degli altri?
Non stiamo parlando di casi in cui un prodotto italiano viene preso, snaturato e prodotto – magari all’estero – in modo del tutto discutibile con risultati qualitativi scandalosi e per i quali è allora più che giusto e legittimo difendere la denominazione, mi vengono in mente i casi del parmigiano e del prosecco, per esempio. In quei casi c’è eccome il bisogno di vietare l’uso di un termine.

Concludo pertanto con un paio di pensieri.

Quanto mi piacerebbe che, un giorno, questa controversia cessasse.
Perché una volta le parole erano di tutti e disegnavano pensieri, idee, concetti, storie, poi abbiamo rovinato le cose, per esempio arrogandoci il diritto di avere la proprietà esclusiva di una parola che era sempre appartenuta a un luogo, a un metodo, a una tradizione – e lo abbiamo fatto nascondendoci dietro regole e cavilli creati da noi stessi.

Basterebbe aggiungere un aggettivo – storico per indicare il Bitto tradizionale così come era all’inizio – per dare a tutti la stessa opportunità declinata nelle due visioni.
Tanto ormai la questione è nota (felice di contribuire a diffonderla) e quel ‘ribelle’ crea ancora più rumore, clamore e curiosità…

Una volta si usava un modo di dire, questioni di lana caprina, dalla locuzione latina de lana caprina, ovvero questioni inutili.
Qui si tratta di latte e non di lana, passatemi la battuta, ma il risultato non cambia: è una controversia che, lo ripeto ancora una volta, mi è difficile comprendere.

Perché mette al centro di un conflitto ciò che di solito amo, ovvero una parola.
E perché è una questione inutile, poiché non è negando l’uso di quella parola che si metterà a tacere tutta la questione, non è nascondendosi dietro quella parola che si negherà l’aspetto più importante, ovvero la sostanza, dal punto di vista metaforico e concreto.

E con questo… vi auguro buone vacanze.

Manu

 

 

Nell’ottica del mio amore per informazione e conoscenza, desidero lasciarvi, cari amici, alcuni link per approfondire la storia che vi ho raccontato (ed entrare nel merito di tutte le differenze e di tutti i dettagli produttivi) allo scopo di farvi a vostra volta un’opinione.

Qui potete trovate il sito del Consorzio per la Tutela dei Formaggi Valtellina Casera e Bitto (CTCB).
Qui potete trovate il sito del Consorzio Salvaguardia dello Storico Ribelle.
E qui trovate la pagina dedicata allo Storico Ribelle nel sito della Fondazione Slow Food per la Biodiversità Onlus.

 

 

 

*** Ringrazio i miei amici Elena e Giorgio
per aver creato l’occasione che mi ha fatto scoprire questa storia
alla quale mi sono appassionata e alla quale ho voluto dare voce ***

 

 

 

 

 

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Manu

Mi chiamo Emanuela Pirré, Manu per gli amici di vita quotidiana e di web. Sono nata un tot di anni fa con una malattia: la moda. Amo la moda perché per me è una forma di cultura, una modalità di espressione e di comunicazione, un linguaggio che mi incuriosisce. Scrivo e creo contenuti in ambito editoriale, principalmente proprio per la moda. Insegno (Fashion Web Editing, Storytelling, Content Creation) in due scuole milanesi. Vivo sospesa tra passione per il vintage e amore per il futuro e sono orgogliosa della mia nutrita collezione di bijou iniziata quando avevo 15 anni. Per fortuna Enrico, la mia metà, sopporta (e supporta) entrambe, me e la collezione, con pazienza e amore. Oltre a confessare un'immensa curiosità, dichiaro la mia allergia a pregiudizi, cliché, luoghi comuni, conformismo e omologazione. Detesto i limiti, i confini, i preconcetti – soprattutto i miei – e mi piace fare tutto ciò che posso per superarli. La positività è la mia filosofia di vita: mi piace costruire, non distruggere. Moda a parte, amo i viaggi, i libri e la lettura, l'arte, il cinema, la fotografia, la musica, la buona tavola e la buona compagnia. Se volete provare a diventare miei amici, potete offrirmi un piatto di tortellini in brodo, uno dei miei comfort food. Oppure potete propormi la visione del film “Ghost”: da sognatrice, inguaribile romantica e ottimista quale sono, riesco ancora a sperare che la scena finale triste si trasformi miracolosamente in un lieto fine.

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