Come la sfilata Iulia Barton Inclusive Fashion ha testato la mia coerenza

È proprio vero.
È facile, tutto sommato, fare bei discorsi in linea teorica.
È facile scrivere che si è a favore della moda inclusiva – ovvero di quella moda che sia davvero rappresentativa della società in cui viviamo e di tutte le persone che la compongono.
È facile parlare di uguaglianza, di accettazione, di superamento e abbattimento di qualsiasi barriera, limitazione, ostacolo.
È facile riportare una frase bella come «la diversità è un attributo privo di fondamento».
Ma – come disse saggiamente qualcuno – tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare.
E c’è di mezzo il mare perfino per chi è fondamentalmente una persona coerente. Una persona che davvero crede in ciò che dice e scrive, come la sottoscritta.

Perché esordisco così?

Perché, così come avevo annunciato in un post precedente, martedì 27 febbraio, a chiusura della Milano Fashion Week, sono stata alla sfilata Iulia Barton Inclusive Fashion Industry, il progetto creato da Giulia Bartoccioni.

Alla presenza di Carlo Capasa, presidente della Camera Camera Nazionale della Moda Italiana, sono andati in passerella sei stilisti rappresentativi del Made in Italy: a indossare le loro creazioni sono stati chiamati modelli e modelle, uomini e donne, scelti senza alcuna limitazione o barriera.
E scrivendo senza alcuna limitazione o barriera, mi riferisco alla scelta di far sfilare modelle e modelli con e senza disabilità.

La serata prevedeva l’ingresso con donazione.
I proventi raccolti verranno devoluti ai laboratori delle strutture Niguarda Ca’ Granda e San Paolo Hospital a sostegno della ricerca nel campo della rigenerazione dei danni al midollo spinale attraverso le nanotecnologie e l’utilizzo di cellule staminali.
I fondi raccolti saranno destinati anche all’acquisto di nuove strumentazioni di laboratorio e verranno impiegati per il sostegno dei giovani ricercatori all’interno dei team di studio.

A questo punto, potreste pensare che mi sto dando la zappa sui piedi da sola, visto che parlo della facilità di fare discorsi teorici nonché del mare che separa dire e fare.
Ohibò, che io stia per confessarvi di aver scoperto di essere incoerente dopo aver tanto parlato della mia allergia a pregiudizi e cliché, in ogni campo e di ogni genere?
No, non è così, anche se desidero comunque confessare tutta la mia fragilità, quella che forse appartiene un po’ a tutti.

In questo spazio che mi piace definire libero, sono me stessa al 100%, e qui, tra le pagine virtuali di A glittering woman, trova spazio solo verità e spontaneità: è un lusso che mi sono voluta concedere e del quale pago però il prezzo, come in questo caso.
E dunque voglio confessarvi che, come chiunque, ho dubbi, fragilità, ripensamenti, paure, nonostante creda davvero nella necessità di superare i nostri limiti personali e nonostante sia sinceramente allergica a barriere, pregiudizi e stereotipi.
Ma non vivo di certezze assolute, tengo ben aperti occhi, cuore e cervello e metto in discussione me stessa, le mie idee e i miei pensieri costantemente, nel tentativo di essere coerente con me stessa e con ciò che dico e scrivo.

Alla luce di tutto ciò, martedì sera, nel momento in cui la sfilata è iniziata, mi sono chiesta se ciò che stavo vedendo mi dava un sentimento positivo o negativo.
Chiariamo subito cosa intendo con negativo: non mi sono certo né scandalizzata né spaventata per i modelli in carrozzina e con o senza protesi (almeno questa fase davvero non mi appartiene minimamente), ma mi riferisco piuttosto a quel «senso di malintesa protezione» (lo definisco così) che moltissime persone nutrono (talvolta) nei confronti di chi è portatore di un qualsiasi tipo di diversità.
Mi spiego meglio: vi è mai capitato di avere un amico in carrozzina? Vi è mai capitato che si comportasse da stronzo? Vi è mai capitato di mandare giù il boccone perché non ve la sentivate di mandare a quel paese una persona in carrozzina perché vi sareste sentiti delle cacche, mentre a quel paese ci avreste mandato chiunque altro si fosse comportato in quello stesso modo?
Ecco, questo è ciò che chiamo «senso di malintesa protezione».
Perché essere in carrozzina o avere un arto in meno non è né garanzia né sinonimo di santità.
Perché gli stronzi camminano e stanno in carrozzina, hanno tutti gli arti o uno in meno, indifferentemente.
E la verità è che, se non riusciamo a mandare a quel paese uno stronzo solo perché è in carrozzina o perché non ha un arto, siamo vittime del «senso di malintesa protezione» e non stiamo affatto tutelando o proteggendo quella persona, anzi, al contrario, la stiamo discriminando perché, nel più profondo di noi, la percepiamo appunto come diversa.

Se state arrossendo pensando che sì, l’avete fatto e se mi state detestando perché sto scrivendo queste parole antipaticissime e scomodissime, sappiate che io sono arrossita molto prima di voi perché – naturalmente – è capitato anche a me. Sicuramente, non sono migliore di voi né sono qui per farvi un predicozzo.
E l’ho realizzato proprio martedì sera, mentre i primi modelli sfilavano, quando ho capito che avevo solo due possibili scelte davanti a me.
Potevo apprezzare la sfilata semplicemente perché «che bello, che bella cosa democratica questo progetto Iulia Barton Inclusive Fashion» continuando così a perpetrare quel «senso di malintesa protezione».
Oppure potevo obbligarmi a guardarla esattamente con gli stessi occhi con i quali guardo qualsiasi sfilata, ovvero valutando l’abito e valutando chi lo stava indossando.
Tipo: questo abito mi piace oppure no? Funziona oppure no? Questo modello è bravo oppure no? È convincente oppure no?
Il tutto senza sconti per protesi, carrozzine, amputazioni.

Prima di dirvi com’è andata a finire, desidero però mettere sul piatto alcune considerazioni.
Già, guardate un po’ a quante cose ho pensato nel giro dei pochi minuti di una sfilata…

Poco prima che l’evento iniziasse, ho chiacchierato con una giornalista che stimo immensamente e che mi ha chiesto cosa pensassi della sfilata che ci accingevamo a vedere: era sinceramente interessata alla mia opinione, era sinceramente interessata a sapere se secondo me potesse esistere qualche tipo di strumentalizzazione – ed era una domanda senza alcuna malizia, credetemi.
Le sono stata grata per il quesito, perché mi ha permesso di sgombrare il campo da un primo possibile equivoco o sentimento negativo e devo ringraziare per questo un’altra persona che intervistai tempo fa.
A Francesca, modella definita curvy, chiesi se quell’aggettivo – curvy – desse o meno fastidio: lei, con molta naturalezza, mi rispose di no, che fino al momento in cui gli aggettivi servono a puntare i riflettori su una questione aperta allora sono positivi.
Il suo punto di vista mi colpì molto e mi piacque al punto che, da allora, l’ho adottato e fatto mio: non sono infastidita quando si sottolinea appositamente qualcosa per richiamare l’attenzione su una questione aperta e penso che far sfilare modelli in carrozzina e con amputazioni serva a evidenziare quanto la questione dell’accettazione della diversità sia tuttora aperta.
Nessuna negatività, dunque, su questo fronte e da questo punto di vista, incluso l’eventuale «quesito di opportunità» che qualcun altro potrebbe tirare in ballo (ovvero sì, per me è del tutto opportuno, necessario e utile organizzare eventi di tale tipo).

Il problema subentra piuttosto quando la nostra (e nel caso specifico la mia) cosiddetta libertà di pensiero è messa alla prova proprio da simili eventi: quanto regge la nostra apertura mentale in questo caso? E soprattutto… regge?
E questa è la seconda considerazione che desidero condividere: oltre al «senso di malintesa protezione», siamo tutti (o quasi tutti) vittime di un sistema che ci fa credere che bellezza e perfezione siano miti da perseguire a ogni costo. Conseguentemente nonché più o meno consciamente, soppesiamo ogni cosa attraverso tali parametri.
Mi state di nuovo odiando? Allora rispondete, per favore, a un paio di domande. Con sincerità.
Avete mai iniziato una dieta qualche mese prima delle vacanze al mare, sgranocchiando frutta e cracker integrali in pausa pranzo?
Avete mai sospirato guardandovi allo specchio e pensando «certo, potessi fare una piccola punturina qui o sollevare leggermente la palpebra»?
Avete mai comprato una guaina contenitiva o i fanghi miracolosi o la crema anti-cellulite o un cosiddetto beverone?
Ecco, se avete fatto anche solo una di queste cose… benvenuti nel club delle vittime dell’aspirazione a bellezza e perfezione, club nel quale trovate anche me, naturalmente e ancora una volta, comodamente seduta qui prima di voi ad aspettarvi, con tanto di cocktail e sigaretta dei quali – ovviamente – mi pentirò alla sola idea del mezzo etto o della rughetta in più.
Perché, che ci piaccia o no, che si abbia il coraggio di ammetterlo o meno, siamo tutti vittime della sindrome che ci porta ad aspirare a bellezza e perfezione.

Lo so, qualcuno dirà che certe cose sono normali, che è giusto migliorarsi: certo, sono la prima a sostenere che migliorarsi sia sacrosanto e che avere rispetto di ciò che ci è stato dato da Madre Natura (soprattutto la salute) sia ancora più sacrosanto, ma chi stabilisce qual è la normalità e qual è il limite e soprattutto un limite giusto per tutti?
Il punto è che nella nostra testa, da sempre, viene indotta un’associazione: bellezza e perfezione sono sinonimi di salute e ciò comporta – come estrema conseguenza – la possibilità di garantire continuità della specie che è ciò a cui – giustamente! – l’essere umano aspira così come vi aspirano tutti gli animali, tant’è che i maschi di molte specie si esibiscono in dimostrazioni di bellezza e/o forza per convincere la femmina ad accoppiarsi…
Coda del pavone a parte, desiderio o meno di riprodursi, il punto è che dentro di noi, più o meno profondamente, c’è la paura che diverso – ovvero non essere conforme ai cosiddetti parametri di perfezione – voglia significare o implichi mancanza di salute.

E questa idea ci fa paura. Una fottuta paura.

E adesso vi lancio anche l’ultima provocazione.
In molti (sottoscritta inclusa, ancora una volta) crediamo di essere liberi, di essere fuori da questi e da altri schemi, ma in verità iniziamo veramente il nostro percorso verso la libertà solo quando prendiamo atto di tutto ciò, solo quando siamo onesti e ammettiamo che è difficile essere davvero liberi, solo quando realizziamo di essere – in realtà – vittime di molti condizionamenti.
Se accettiamo ciò e se ci mettiamo in discussione, è da quel punto che inizia il nostro cammino verso la libertà.

Ed è qui che voglio arrivare, è questa la scelta che ho fatto.
Ammesso quel maledetto «senso di malintesa protezione», ammessa la mia umana e istintiva propensione alla perfezione, ammesso che tale propensione rappresenta però un limite rispetto alla mia sincera voglia di libertà, posta davanti a un evento forte e coraggioso, ho deciso di avviare il mio percorso e di provare a essere a mia volta forte, coraggiosa, libera.
Ma libera sul serio, libera perfino di criticare.

Mi sono obbligata a mettere da parte il «senso di malintesa protezione», un senso che in realtà è parente stretto della sindrome da perfezione nonché della paura che in fondo tutti, chi più chi meno, abbiamo di ciò che è diverso e/o sconosciuto.
E dopo questa complicatissima lotta interiore che però si è svolta nel giro di pochi attimi, mi sono resa conto che non vedevo più la protesi, la carrozzina, il braccio amputato. Non distinguevo più tra chi sfilava camminando o spingendo la carrozzina.
Vedevo solo modelli e modelle, uomini e donne che – appunto – sfilavano.
Vedevo modelle delle quali apprezzavo la bellezza e pensavo «wow, lei è proprio tagliata per fare questo».
Vedevo modelli per i quali pensavo «che gran bel ragazzo!» (sì, è la versione edulcorata, non è esattamente questo l’aggettivo che ho usato tra me e me…).
E vedevo solo abiti che mi piacevano e altri meno; vedevo proposte che mi hanno convinta, conquistata, entusiasmata e altre meno.
Insomma, vivevo esattamente tutto ciò che mi accade in occasione di qualsiasi sfilata alla quale assisto.

A quel punto sono stata davvero felice di essere lì e ho capito il senso più autentico della frase «la diversità è un attributo privo di fondamento» o almeno il senso che ha per me.

Secondo me, con il suo progetto Iulia Barton Inclusive Fashion, Giulia Bartoccioni non vuole affatto cancellare la diversità bensì affermare che la bellezza ha molti volti e molte sfumature di cui non dobbiamo avere paura: se percepiamo la diversità come ricchezza e se non ne facciamo una questione di migliore/peggiore o superiore/inferiore, barriere e scudi diventano del tutto inutili.

La sfida alla quale siamo chiamati non è dunque quella di eliminare l’idea di diversità bensì siamo chiamati ad accoglierla, ad accettarla senza timori o fraintendimenti (inluso quel «senso di malintesa protezione»): quando siamo pronti a fare questo, la diversità diventa ricchezza e l’omologazione è noia.
Tant’è che il progetto Iulia Barton Inclusive Fashion mira a far sì che le protesi e le carrozzine diventino piuttosto estensioni dell’abito, grazie anche alla collaborazione con l’azienda Able to enjoy che personalizza le sedie a rotelle in base ai colori degli outfit che vanno in passerella, facendo sì che quello che nasce come ausilio medicale si trasformi letteralmente in carrozzina da indossare, che da (possibile) limite diventi invece possibilità.

La moda – in quanto linguaggio – serve anche a questo e deve farsi carico di questa responsabilità; quando faremo nostri tali concetti, sarà davvero inclusiva, senza dover specificare modelle curvy piuttosto che sfila camminando oppure sfila in carrozzina.

È per questo che ho deciso di scrivere il post su una sfilata che è stata dura, coraggiosa e utile come solo le esperienze vere e autentiche sanno essere.
Questo evento non è stato affatto una passeggiata spensierata, lo vedete e lo sto ammettendo: non credevo sarebbe stato così tosto e impegnativo e che mi avrebbe messa così a dura prova ma credetemi se vi dico che sono stata davvero felice di esserci andata e di avere affrontato paure, dubbi, incertezze, contraddizioni, fantasmi.
Sono felice di essermi messa in gioco e in discussione fino in fondo.

Ed è per questo che ho deciso di dare al post un taglio poco accomodante per non dire scomodo, perfino un po’ ruvido e antipatico.
Il punto è che fare la coda come un pavone è cosa che non mi interessa più da tempo.
Sarà che è passato il tempo di riprodurmi e di continuare la specie così come è passato il tempo in cui potevo sperare di aspirare a bellezza e perfezione.
Sarà che ho anch’io atteggiamenti da espiare e che voglio continuare ad attraversare quel mare esistente tra pensiero, parola e azione. Senza affogare.

Se la pensate così anche voi e se volete seguire il progetto Iulia Barton Inclusive Fashion (e mi auguro di sì), vi lascio tutti i link utili: qui trovate il sito, qui la pagina Facebook, qui l’account Instagram e qui quello Twitter.

E visto che siete arrivati eroicamente fino a questo punto (grazie ), il minimo che posso fare è salutarvi con alcune foto della serata di martedì, una per ogni stilista coinvolto.
I capi che sono andati in passerella appartengono, in alcuni casi, alle collezioni autunno / inverno 2018 – 19 mentre, in altri casi, sono rappresentativi di diverse collezioni e stagioni, un remix di pezzi iconici di archivio.

Lasciandovi alla loro visione, prendo in prestito una frase di Angelo Cruciani, uno dei sei stilisti ad aver sfilato e gradito ospite di A glittering woman già in passato.

«La bellezza e la perfezione stanno negli occhi e nei cuori di chi guarda.»

E credo che questa sia la miglior lezione e la miglior conclusione possibile per questa Milano Fashion Week.

Manu

 

 

Angelo Cruciani x <em>IULIA BARTON INCLUSIVE FASHION</em>
Angelo Cruciani x IULIA BARTON INCLUSIVE FASHION
Antonio Urzi x <em>IULIA BARTON INCLUSIVE FASHION</em>
Antonio Urzi x IULIA BARTON INCLUSIVE FASHION
Carmela Hontou x <em>IULIA BARTON INCLUSIVE FASHION</em>
Carmela Hontou x IULIA BARTON INCLUSIVE FASHION
Diego Salerno x <em>IULIA BARTON INCLUSIVE FASHION</em>
Diego Salerno x IULIA BARTON INCLUSIVE FASHION
Giuseppe Fata x <em>IULIA BARTON INCLUSIVE FASHION</em>
Giuseppe Fata x IULIA BARTON INCLUSIVE FASHION
Massimo Crivelli x <em>IULIA BARTON INCLUSIVE FASHION</em>
Massimo Crivelli x IULIA BARTON INCLUSIVE FASHION

 

 

 

 

«Ho sempre lavorato in reazione ai tempi in cui viviamo, perché i vestiti influenzano i comportamenti e gli atteggiamenti.
Quindi, per questa stagione, ho immaginato una collezione ricca e sconfinata, ispirata da molte culture, come un’ode alla coesistenza in contrapposizione all’esclusione.»
Sono parole pronunciate pochi giorni fa da Giorgio Armani (per me Re Giorgio) immediatamente dopo lo show della sua collezione autunno / inverno 2018-19.
Le riporto (notate l’uso di esclusione) giusto nel caso in cui qualcuno pensi che Giulia Bartoccioni sia un po’ folle a portare avanti il suo progetto Iulia Barton Fashion Inclusive.

 

 

 

 

 

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Manu

Mi chiamo Emanuela Pirré, Manu per gli amici di vita quotidiana e di web. Sono nata un tot di anni fa con una malattia: la moda. Amo la moda perché per me è una forma di cultura, una modalità di espressione e di comunicazione, un linguaggio che mi incuriosisce. Scrivo e creo contenuti in ambito editoriale, principalmente proprio per la moda. Insegno (Fashion Web Editing, Storytelling, Content Creation) in due scuole milanesi. Vivo sospesa tra passione per il vintage e amore per il futuro e sono orgogliosa della mia nutrita collezione di bijou iniziata quando avevo 15 anni. Per fortuna Enrico, la mia metà, sopporta (e supporta) entrambe, me e la collezione, con pazienza e amore. Oltre a confessare un'immensa curiosità, dichiaro la mia allergia a pregiudizi, cliché, luoghi comuni, conformismo e omologazione. Detesto i limiti, i confini, i preconcetti – soprattutto i miei – e mi piace fare tutto ciò che posso per superarli. La positività è la mia filosofia di vita: mi piace costruire, non distruggere. Moda a parte, amo i viaggi, i libri e la lettura, l'arte, il cinema, la fotografia, la musica, la buona tavola e la buona compagnia. Se volete provare a diventare miei amici, potete offrirmi un piatto di tortellini in brodo, uno dei miei comfort food. Oppure potete propormi la visione del film “Ghost”: da sognatrice, inguaribile romantica e ottimista quale sono, riesco ancora a sperare che la scena finale triste si trasformi miracolosamente in un lieto fine.

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