WearMe30Times, quando un gioco è molto più di un gioco

L’etichetta del progetto WearMe30Times su una maglia

Da diverso tempo, ormai, mi interesso di moda (mia immensa passione da sempre) non solo dal punto di vista del processo creativo, ma anche e soprattutto per quanto riguarda le sue interazioni con ogni settore della nostra vita – e in particolare dal punto di vista della sostenibilità sociale e ambientale.

Desidero pertanto condividere con voi, cari amici, il racconto di un evento al quale ho partecipato recentemente e che si è tenuto presso il quartier generale di H-Farm qui a Milano per lanciare una innovativa campagna di sensibilizzazione contro gli sprechi nel settore moda: mi riferisco al progetto WearMe30Times.

L’evento – in formato fisico e digitale – ha visto presenti in sala i due partner promotori dell’iniziativa, ovvero Walfredo della Gherardesca, CEO di Genuine Way, e Aurora Chiste, CEO di Maakola; era inoltre presente in collegamento web Holly Syrett di Global Fashion Agenda.

L’evento si è aperto proprio con l’intervento di Holly che ci ha esposto uno studio – realizzato da Global Fashion Agenda insieme a McKinsey – che analizza nel dettaglio l’impatto ecologico globale dell’industria della moda, andando a identificare e dividere le varie voci di tale impatto, dalla produzione al consumo: da questa analisi deriva una riflessione importante, ovvero che una rilevante parte del problema non risiede solo nell’ambito produttivo, ma nelle abitudini di consumo, ovvero negli sprechi legati al poco utilizzo dei capi acquistati e della rapida sostituzione degli stessi.

(Se siete interessati a saperne di più, vi segnalo che la presentazione è interamente disponibile qui.)

Aurora, fondatrice di Maakola, brand ecosostenibile che valorizza il territorio e le tradizioni del Ghana, ci ha quindi raccontato come è nato il progetto WearMe30Times (WM30T): la sua idea è quella di valorizzare la scelta di acquistare capi di alta qualità, resistenti e quindi idonei a essere tenuti e utilizzati per molto tempo, in quanto non esistono molte iniziative concrete che incentivino noi consumatori a comportarci in questo modo.

Nel 2016, l’attivista Livia Firth ha lanciato una campagna di successo, chiamata 30Wears, che sensibilizza il consumatore a utilizzare un capo almeno 30 volte affinché lo stesso diventi ecologicamente sostenibile; Maakola e Genuine Way si sono ispirati a questa iniziativa aggiungendo un elemento tecnologico, ovvero la gamification.

Ed è proprio così – e fin dall’invito – che WM30T ha catturato il mio interesse, visto che mi interesso anche al fenomeno gamification, tanto da aver scritto un articolo (qui) per ADL Mag già in gennaio di quest’anno.

Con il termine gamification viene indicato l’utilizzo di elementi mutuati dai giochi e delle tecniche di game design: il termine – racconta Wikipedia – è stato introdotto per la prima volta nel 2010 da Jesse Schell, game designer americano.

In italiano potremmo dire ‘ludicizzazione’, ovvero la possibilità di utilizzare il gioco e i meccanismi di premio/ricompensa per coinvolgere clienti attuali o potenziali: il fenomeno gamification si rivela molto utile in tal senso e diventa, dunque, un efficace strumento di marketing in uno scenario in cui la customer experience è sempre più elemento distintivo per ogni brand.

Sono infatti molti i brand che si stanno cimentando in esperimenti di gamification (cito Nike, Gucci, Louis Vuitton, Burberry giusto per fare qualche esempio) e l’idea alla base del progetto WM30T è un ‘gioco’ che permette a una serie di brand aderenti di coinvolgere i propri consumatori nel contare quante volte usano un capo venendo poi premiati dal brand stesso per il raggiungimento dei 30 utilizzi.

Walfredo, che rappresenta Genuine Way ovvero l’azienda sviluppatrice dell’applicazione, è entrato nel dettaglio del funzionamento del ‘gioco’: visto che, tutti i giorni, lui e la sua azienda lavorano nell’ottica di creare connettività tra prodotti di consumo e consumatori, è nata l’idea di creare una web app (in poche parole una app che non richiede nessun download ma funziona su qualsiasi dispositivo che abbia una connessione Internet, indipendentemente dal sistema operativo iOS o Android) da collegare direttamente ai capi via QR code.

Partecipare all’iniziativa WearMe30Times è gratis, per i brand e, naturalmente, per noi consumatori.

Ma entriamo appunto nel dettaglio.

Supponiamo di possedere un capo che sia stato dotato dell’etichetta che segnala l’iniziativa WearMe30Times – la potete vedere in apertura di questo mio post e anche qui sopra.

Facendo la scansione del QR code, accediamo a una interfaccia che ci chiede come prima cosa di loggarci via Facebook oppure Instagram poiché il gioco passa attraverso i social network.

Una volta registrati, possiamo selezionare da una lista il brand così come lo specifico capo in nostro possesso: fatto tale abbinamento, dobbiamo scattarci un selfie indossando tale capo e, postandolo a nostra scelta via Facebook o Instagram, ottiamo il conteggio del primo utilizzo del capo. Attenzione, è sì un gioco ma deve chiaramente essere un gioco pulito, pertanto vi è un blocco minimo di 24 ore tra un utilizzo e l’altro.

Facendo la scansione a ogni nuovo utilizzo e scattandoci un selfie (che non è più necessario pubblicare se non l’ultimo, il trentesimo), progrediremo attraverso il gioco: raggiunti i 30 utilizzi del capo, si riceve un premio a sorpresa dal brand stesso. Può trattarsi di un codice sconto oppure di un capo in regalo oppure dell’invito a un evento speciale.

Al 22 ottobre, il giorno in cui ho partecipato all’evento di presentazione, l’iniziativa aveva già accolto l’adesione di 35 brand sostenibili da 4 continenti.

E, tra i brand che hanno già scelto di aderire al progetto WearMe30Times, figura Matchless London.

L’azienda era una delle più antiche case motociclistiche britanniche, fondata nel lontano 1878 da Henry Herbert Collier per fare biciclette e produttrice nel 1899 della sua prima motocicletta: nel 1966 ha chiuso, ma il marchio è rimasto un’icona perché l’azienda non produceva solo motocicli, ma anche giacche di pelle.

Ed è proprio sulla produzione di giacche e tessuti tecnici che ha deciso di puntare la nuova Matchless quando, nel 2012, i fratelli Michele e Manuele Malenotti hanno acquisito il marchio.

Oggi il brand è rigorosamente Made in Italy e di recente ha lanciato una giacca vegana realizzata con pelle di origine non animale, ricavata da un innovativo composto vegetale in buona parte derivante dal mais, 100% biodegradabile e dunque a minimo impatto ambientale.

Matchless London è stato il primo brand che ha deciso di aderire alla campagna WM30T: è a tutti gli effetti un partner promotore dell’iniziativa e ora sta esplorando nuove frontiere di sostenibilità ambientale.

Dopo aver creato una giacca che non utilizza cuoio animale, il prossimo passo è proprio quello di dialogare con i propri clienti per far comprendere l’importanza di utilizzare il capo a lungo nel tempo, come un bene prezioso, evitando un consumo troppo vorace e veloce.

Mi fa piacere segnalare che – tra l’altro – è stata proprio Genuine Way, l’azienda di Walfredo, a certificare la giacca vegan di Matchless attraverso la blockchain technology, la tecnologia che permette al consumatore di verificare la tracciabilità (qualità e sostenibilità) dell’intera filiera produttiva.

La giacca vegan di Matchless London
La giacca vegan di Matchless London

Lo scorso anno, dopo aver visto lo sconvolgente docu-film Fashion Victims, scrissi un lunghissimo articolo (qui) che comprendeva anche alcune idee e proposte circa ciò che possiamo fare noi consumatori per camminare lungo la strada della sostenibilità sociale e ambientale del settore moda.

Oggi più che mai, sono convinta che ciò che possiamo fare concretamente, oltre a informarci e ad aumentare costantemente la nostra consapevolezza, sia dare lunga vita ai capi che possediamo.

Ecco perché sono andata alla presentazione di WearMe30Times ed ecco perché ho voluto condividere il racconto dell’esperienza con voi, cari amici.

Credo nel potere del gioco (in fondo, da sempre, l’essere umano impara attraverso il gioco) e credo che il fenomeno gamification possa essere messo al servizio di un’opera di sensibilizzazione.

Ed ecco perché, molto volentieri, concludo lasciando il link del sito attraverso il quale potete entrare a fare parte del gioco e potete verificare la lista dei brand aderenti, lista in costante crescita.

Peraltro, sapendo che questo spazio viene frequentato anche dai titolari di tanti brand indipendenti, piccoli e medi, il mio è un invito a valutare se il progetto WearMe30Times possa fare per loro.

Dopodiché, come sempre, lascio a voi che leggete qualsiasi scelta e decisione, che voi siate consumatori o brand

Manu

 

 

 

 

 

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Manu

Mi chiamo Emanuela Pirré, Manu per gli amici di vita quotidiana e di web. Sono nata un tot di anni fa con una malattia: la moda. Amo la moda perché per me è una forma di cultura, una modalità di espressione e di comunicazione, un linguaggio che mi incuriosisce. Scrivo e creo contenuti in ambito editoriale, principalmente proprio per la moda. Insegno (Fashion Web Editing, Storytelling, Content Creation) in due scuole milanesi. Vivo sospesa tra passione per il vintage e amore per il futuro e sono orgogliosa della mia nutrita collezione di bijou iniziata quando avevo 15 anni. Per fortuna Enrico, la mia metà, sopporta (e supporta) entrambe, me e la collezione, con pazienza e amore. Oltre a confessare un'immensa curiosità, dichiaro la mia allergia a pregiudizi, cliché, luoghi comuni, conformismo e omologazione. Detesto i limiti, i confini, i preconcetti – soprattutto i miei – e mi piace fare tutto ciò che posso per superarli. La positività è la mia filosofia di vita: mi piace costruire, non distruggere. Moda a parte, amo i viaggi, i libri e la lettura, l'arte, il cinema, la fotografia, la musica, la buona tavola e la buona compagnia. Se volete provare a diventare miei amici, potete offrirmi un piatto di tortellini in brodo, uno dei miei comfort food. Oppure potete propormi la visione del film “Ghost”: da sognatrice, inguaribile romantica e ottimista quale sono, riesco ancora a sperare che la scena finale triste si trasformi miracolosamente in un lieto fine.

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