Mario Dice e il suo sguardo a Marsha P. Johnson per la SS 2021

Avete mai sentito parlare di Marsha P. Johnson?

Scomparsa nel 1992 in circostanze tuttora non del tutto certe, è stata un’attivista per i diritti LGBTQI+ ed è nota per aver partecipato alle rivolte dello Stonewall Inn del 1969, quelle che hanno poi dato inizio al Pride Month.

Era nata il 24 agosto del 1945 a Elizabeth, nel New Jersey, con il nome di Malcolm Michaels Jr.: dopo aver ottenuto il diploma, si trasferì a New York con pochi dollari in tasca, andando a vivere nel Greenwich Village dove iniziò a lavorare in un locale come performer.
A New York cambiò legalmente il suo nome in Marsha P. Johnson: la lettera P era una risposta, secondo il suo stesso racconto, a coloro che chiedevano quale fosse il suo genere sessuale, ovvero stava per «pay it no mind», «non pensarci».
Da drag queen iniziò ad allestire spettacoli che, date le sue ristrettezze economiche, non erano caratterizzati né da grandi costumi né da trovate scenografiche: molti ricordano però come si adornasse spesso il capo con fiori freschi.

Arrivò il 28 giugno 1969, quando alcuni poliziotti fecero irruzione nello Stonewall Inn, bar del Greenwich Village la cui clientela era composta soprattutto da gay, lesbiche e transgender.
Le irruzioni della polizia nel locale non erano una novità ed erano abbastanza frequenti: era infatti un’epoca in cui l’omosessualità era considerata diffusamente come un comportamento deviato ed era illegale in 49 stati americani.
Quella sera, però, molte persone si opposero all’arresto e, in poco tempo, fuori dal locale si riunì una folla e dalle urla si passò agli scontri fisici.
Sul posto arrivò un gruppo più numeroso di agenti, ma anche la folla aumentò fino a raggiungere migliaia di persone: lo scontro continuò fino alle prime ore del mattino e poi a intermittenza per altre cinque notti.

Oggi quella rivolta è considerata simbolicamente come il momento di nascita del Pride Month celebrato ogni anno nel mese di giugno: un anno dopo la rivolta di Stonewall, l’attivista Brenda Howard ebbe infatti l’idea degli eventi che oggi costituiscono – appunto – il Pride Month.

A proposito…
Sarebbe più corretto dire semplicemente Pride (e quindi Pride Month) e non Gay Pride sebbene questa seconda formula sia usata molto spesso.
Non si parla infatti di una manifestazione organizzata solo per i diritti delle persone gay, ma anche delle persone lesbiche, bisessuali, transessuali, intersessuali e di ogni soggettività con un orientamento sessuale considerato non conforme, il tutto oggi riassumibile nella formula (comunque non esaustiva) LGBTQI.

In molte parti del mondo, le persone LGBTQI sono tuttora punite, torturate e allontanate dalle loro comunità (come ho raccontato qui a proposito di Sarah Hegazi) e se in molte parti del mondo i Pride sono occasioni gioiose, piene di divertimento e allegria, in altre non c’è niente da festeggiare visto che le persone LGBTQI si ritrovano a combattere per la loro sopravvivenza e per la loro incolumità.
Lo scopo dei Pride è unire le persone (incluse quelle eterosessuali) nella lotta per i diritti perché oggi più che mai il Pride vuole essere una manifestazione inclusiva.

Il <em>doodle</em> dedicato da Google il 30 giugno 2020 a Marsha P. Johnson
Il doodle dedicato da Google il 30 giugno 2020 a Marsha P. Johnson

Ma torniamo a Marsha P. Johnson.

Dopo aver partecipato alle rivolte dello Stonewall Inn, nel 1970, fondò il movimento STAR, acronimo di Street Transvestite Action Revolutionaries, insieme all’amica e attivista Sylvia Rivera; nel 1972 fondarono la STAR House, casa-rifugio.
Per tutta la vita lavorarono per sostenere le minoranze più povere della comunità LGBTQI, ragazzini che a causa del loro orientamento avevano perso tutto, famiglia, casa, possibilità, futuro. Marsha e Sylvia fornirono loro cibo, vestiti, supporto emotivo.

Sul fronte artistico, l’immagine quanto mai autentica di Marsha arrivò a ispirare Andy Warhol: si guadagnò un posto d’onore nel portfolio di polaroid intitolato ‘Ladies and Gentlemen, che l’eclettico artista realizzò nel 1975.

Negli Anni Ottanta continuò il suo attivismo partecipando alle iniziative di ACT UP (AIDS Coalition to Unleash Power), organizzazione internazionale impegnata a richiamare l’attenzione sulle vite dei malati di AIDS.

Ma l’esistenza di Marsha P. Johnson aveva un lato molto doloroso.

Le enormi difficoltà e le privazioni che dovette subire durante la sua esistenza così come lo stress di una vita sempre precaria minarono a lungo andare la sua salute fisica e mentale: molti testimoniavano circa il suo carattere ambivalente, dedito agli altri così come propenso a scoppi d’ira.

Visse per strada, si prostituì, finì in carcere varie volte, subì aggressioni: il 6 luglio del 1992 il suo corpo senza vita fu trovato nel fiume Hudson.
La polizia trattò la morte come un suicidio, ma diverse persone hanno sostenuto nel corso degli anni che fosse stata uccisa.
L’attivista Mariah Lopez riuscì a far riaprire il caso nel 2012 ma, in mancanza di prove, la polizia di New York riclassificò la causa di morte come ‘sconosciuta’.

La vita e le azioni di Marsha P. Johnson sono state al centro di vari omaggi postumi, come documentari e film.

Inoltre, lo scorso 24 agosto, in quello che sarebbe stato il suo 75esimo compleanno, Andrew Cuomo (il governatore di New York) le ha dedicato un parco a Brooklyn, il Marsha P. Johnson State Park, precedentemente noto come East River State Park.
«NY is indebted to her for her brave advocacy and relentless fight for LGBTQ equality»,
ha twittato Cuomo.
E, a seguito di una petizione, pare che una statua di Marsha P. Johnson sorgerà vicino al municipio della sua città natale, Elizabeth, al posto di quella di Cristoforo Colombo.

Attivista, performer, drag queen, sex worker: sono tante le parole che sono state usate per descrivere Marsha P. Johnson, una persona che ha lottato per tutta la sua esistenza per liberare sé stessa e gli altri.

Oggi molti si chiedono quanto la liberazione iniziata con i moti di Stonewall sia però ancora apparente: le persone che non amano identificarsi con un’etichetta difficilmente sono accettate per ciò che sono.
Viviamo forse una illusione di libertà e in questa illusione molte persone sono costrette a nascondersi e a celare i loro veri sentimenti.

È dunque importante che si continui a parlare e a confrontarsi, è importante che le arti continuino a essere cassa di risonanza come Andy Warhol fece con quelle polaroid che ritraevano Marsha.

La voglia di ribellarsi al sistema, di non obbedire alle regole preconfezionate, di costruire un mondo diverso e di appartenere a sé stessi avvicina Marsha P. Johnson alla visione di Mario Dice: per la collezione primavera / estate 2021, il designer si è ispirato all’attivista e alla sua lotta affinché l’amore possa essere libero dai vincoli e dalle sovrastrutture sociali.

La libertà di sfidare in modo provocatorio un sistema rigido e la libertà di esprimere la propria arte con passione e dedizione si fondono insieme per dar vita nella collezione SS 2021 a una ricerca continua di non identificazione sistemica di una specifica connotazione nonché di una identità di genere.

Nella collezione – una delle poche con sfilata in presenza e non in streaming durante la Milano Fashion Week di settembre come ho raccontato qui e alla quale sono stata anch’io fisicamente presente – tessuti come canvas, denim, lino e cotone vengono declinati secondo altre forme, stravolgendo così la sostanza primaria.

Gli stessi tessuti vengono arricchiti e impreziositi da pizzi e ricami sangallo in una scala di nuance cromatiche che vanno dal mattone e dal caramello, caldi e materici, fino al tono acceso del corallo.
I dettagli contrastanti degli intarsi e dei ricami in bianco, blu e lime abbattono la barriera delle convenzioni dei capi, mantenuti ancora in tessuto grezzo.
Oltre al denim effetto batik, la collezione vanta seta Habutai plissé e stampe 3D, sempre partendo dall’assunto di Mario secondo cui «in questa collezione viene sottratta ai tessuti l’identità convenzionale e classica».

Ringrazio la Maison e l’Ufficio Stampa per l’uso delle foto
(per sfogliare la gallery qui sotto da pc
potete cliccare sulla prima immagine e scorrere avanti/indietro
con le frecce laterali – photo credit Imaxtree)

La moda viene spesso considerata superficiale ma non è così.

La moda è un racconto di sé e della società, ma il suo compito non è solo quello di rispecchiare il tempo al quale appartiene bensì di contribuire a plasmarlo tant’è che gli abiti sono stati (e sono) strumento di espressione (uno dei primi usati da noi donne quando non avevamo né altro modo né la libertà di esprimerci) nonché veicolo di cambiamenti e di rivoluzioni, grandi e piccole; parallelamente, anche persone come Marsha hanno usato la moda e l’abbigliamento per raccontarsi e per infrangere limiti e tabù.

Tornando a Stonewall e poi al Pride (e a quelli che alcuni considerano i suoi eccessi), desidero sottolineare che l’evento è nato proprio per essere visibile quando alcune persone hanno deciso di uscire per la strada e di mostrarsi per quello che erano, nonostante diffidenze e insulti: i colori e le esibizioni contribuiscono a rendere visibile il Pride e il corteo gioioso, allegro e scanzonato ha proprio l’obiettivo di rivendicare ed esporre ciò che qualcuno vorrebbe restasse invisibile.

Ecco perché non mi meraviglia affatto – anzi, al contrario, mi piace – che Mario Dice si ispiri a Marsha P. Johnson e alla sua vita intensa e complessa.
Ecco perché sostengo che Mario riesce a dimostrare una volta di più come la moda sia tutt’altro che superficiale.
È capace di utilizzarla – e lo fa molto bene – per confezionare il suo messaggio: per lo stilista, questa collezione rappresenta «un viaggio introspettivo dentro ognuno di noi, per togliere quella maschera che sin da piccoli ci costruiamo, celando un lato oscuro che prima o poi emergerà».
E del quale non dobbiamo avere paura perché è dal contrasto che rinasciamo.

«I may be crazy, but that don’t make me wrong.»
Ovvero potrò essere pazza, ma questo non mi rende sbagliata: lo diceva Marsha P. Johnson e, come Mario, credo anch’io che sia una frase meravigliosa e rappresenti una grande verità.

Manu

 

 

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Manu

Mi chiamo Emanuela Pirré, Manu per gli amici di vita quotidiana e di web. Sono nata un tot di anni fa con una malattia: la moda. Amo la moda perché per me è una forma di cultura, una modalità di espressione e di comunicazione, un linguaggio che mi incuriosisce. Scrivo e creo contenuti in ambito editoriale, principalmente proprio per la moda. Insegno (Fashion Web Editing, Storytelling, Content Creation) in due scuole milanesi. Vivo sospesa tra passione per il vintage e amore per il futuro e sono orgogliosa della mia nutrita collezione di bijou iniziata quando avevo 15 anni. Per fortuna Enrico, la mia metà, sopporta (e supporta) entrambe, me e la collezione, con pazienza e amore. Oltre a confessare un'immensa curiosità, dichiaro la mia allergia a pregiudizi, cliché, luoghi comuni, conformismo e omologazione. Detesto i limiti, i confini, i preconcetti – soprattutto i miei – e mi piace fare tutto ciò che posso per superarli. La positività è la mia filosofia di vita: mi piace costruire, non distruggere. Moda a parte, amo i viaggi, i libri e la lettura, l'arte, il cinema, la fotografia, la musica, la buona tavola e la buona compagnia. Se volete provare a diventare miei amici, potete offrirmi un piatto di tortellini in brodo, uno dei miei comfort food. Oppure potete propormi la visione del film “Ghost”: da sognatrice, inguaribile romantica e ottimista quale sono, riesco ancora a sperare che la scena finale triste si trasformi miracolosamente in un lieto fine.

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