Fashion Victims, quelle VERE vivono, lavorano (e soffrono) in India

Era il 24 aprile 2013 quando il Rana Plaza, edificio commerciale di otto piani, crollò a Savar, sub-distretto di Dacca, la capitale del Bangladesh.
Le operazioni di soccorso e ricerca si conclusero con un bilancio dolorosissimo: 1.134 vittime e circa 2.515 feriti per quello che è considerato il più grave incidente mortale avvenuto in una fabbrica tessile nonché il più letale cedimento strutturale “accidentale” nella storia umana moderna.
Com’è tragicamente noto, il Rana Plaza ospitava alcune fabbriche di abbigliamento, una banca, appartamenti e numerosi negozi: nel momento in cui furono notate delle crepe, i negozi e la banca furono chiusi, mentre l’avviso di evitare di utilizzare l’edificio fu ignorato dai proprietari delle fabbriche tessili.
Ai lavoratori venne addirittura ordinato di tornare il giorno successivo, quello in cui l’edificio ha ceduto collassando – e per questo ho messo “accidentale” tra virgolette…

Lo voglio ripetere: nel crollo, persero la vita 1.134 persone e ci furono oltre 2.500 feriti.

Molte delle fabbriche di abbigliamento del Rana Plaza lavoravano per i grandi committenti internazionali e questo orribile sacrificio di vite umane ha squarciato il velo di omertà che copriva, a mala pena, pratiche che moltissimi, in realtà, conoscevano da tempo e fingevano di non vedere.

Chi ha buona memoria, ricorderà forse che di tutto ciò ho già scritto lo scorso anno; continuerò a farlo, continuerò a scriverne finché sarà necessario, fino a quando non ci sarà un vero cambiamento, così come continuerò (anche questo come ho già fatto l’anno scorso) a scrivere di Fashion Revolution, il movimento presente in 102 Paesi nel mondo che è stato fondato da Carry Somers (stilista per oltre 20 anni con il brand Pachacuti che ha rivoluzionato il concetto di trasparenza nell’ambito della catena produttiva nella moda) e da Orsola de Castro (voce autorevole della moda sostenibile con il suo marchio From Somewhere fondato sul concetto di upcycling).

Nel 2013, dopo la tragedia del Rana Plaza, Carry e Orsola hanno deciso di fondare Fashion Revolution, organizzazione che conduce una costante campagna di sensibilizzazione rivolta soprattutto al consumatore finale: promossa attraverso stampa e social media, prevede eventi che siano mirati a promuovere il concetto di moda etica e di sostenibilità.

Nell’ottica di tale campagna e insieme a Fashion Film Festival Milano nonché in occasione della Fashion Revolution Week 2019 (22-28 aprile), Fashion Revolution ha promosso martedì 23 aprile la proiezione di “Fashion Victims”, docu-film di Chiara Ka’Hue Cattaneo e Alessandro Brasile.

Il documentario “Fashion Victims” è ambientato nel Tamil Nadu, ovvero uno dei 29 stati che compongono l’India: questo stato si trova nel sud del Paese e qui milioni di adolescenti e di giovani donne lavorano nell’industria tessile, dalla filatura alla tessitura del cotone fino alla confezione di capi di abbigliamento, per il mercato locale e internazionale. Leggi tutto

Aspettando la primavera: i cappelli della collezione Doria 1905 SS 2019

Ho osservato che ogni volta in cui mi trovo in difficoltà, magari perché sto vivendo una situazione che non mi fa sentire completamente a mio agio, la mia testa inizia a ragionare in prospettiva futura, concentrandosi su ciò che verrà.

Non credo di essere l’unica alla quale capita; credo, al contrario, che questo sia il più classico tra i meccanismi di difesa del nostro cervello.

Prendete, per esempio, la mia avversione per l’inverno: non so dirvi, sinceramente, se a mettermi più a disagio sia il freddo o la poca luce, fatto sta che, appena ne ho l’ardire, inizio a pensare alla primavera.

E diciamo che, di solito, questo momento coincide con la seconda metà di gennaio: archiviato dicembre, archiviato il solstizio d’inverno (il giorno più corto dell’anno, con mia grande sofferenza), archiviate tutte le festività, posso iniziare a pensare che, tra poco più di 45 giorni (evviva l’ottimismo…), inizierà marzo, il mese che porta con sé la primavera, almeno da calendario.

È vero, gennaio è molto lungo (e spesso è il mese più freddo qui a Milano), febbraio è più corto ma può essere altrettanto gelido; eppure, è innegabile che la prospettiva futura è adesso quella di marzo e che ciò che verrà a piccoli passi è la bella stagione.

Tra l’altro, proprio in queste ultime sere, ho fatto caso a come le giornate stiano tornando ad allungarsi dopo il citato solstizio d’inverno: verso le 17 c’è ancora luce mentre, fino a dicembre, alla stessa ora era già praticamente buio. Leggi tutto

Pillole per la prossima bella stagione: Simon Cracker SS 19 #TEENDRAMA

Backstage della collezione Simon Cracker SS 19 #TEENDRAMA (photo credit Elisa Campesato)

Lunedì 22 ottobre sono stata a una sfilata… fuori.
Fuori tempo (riferendomi ai tempi della moda che vogliono che la stagione primavera / estate si presenti in settembre durante Milano Moda Donna) e fuori dai soliti luoghi (una location quasi segreta in zona Ripamonti).
Fuori da un certo sistema, insomma.

Mi sembrava di andare a un ritrovo semi clandestino, cosa da temerari della moda dato che, invece, attualmente si tende a sbandierare ai quattro venti eventi spacciati come super cool e super esclusivi… e per questo ho subito accettato, incuriosita e stimolata.

E ho avuto pane per i miei denti, in effetti.

A proporre la sfilata è stato Simone Botte, fondatore del brand Simon Cracker; a essere presentata è stata #TEENDRAMA, la sua collezione SS 2019 no gender.

No gender, gender fluid, agender, genderless, ungendered, co-ed: sono tutti i termini con cui oggi si tende a definire una certa estetica a sesso unico, ovvero quella moda che non prevede rigide distinzioni tra capi femminili e capi maschili.

Conoscevo già Simone, c’eravamo conosciuti lo scorso maggio a una precedente presentazione, quindi conoscevo la sua filosofia e il suo orientamento stilistico.

Con la collezione #TEENDRAMA, Simone propone un percorso fatto di ricordi d’infanzia che molti adulti vogliono rivivere, vogliono sentire nuovamente sulla pelle, ingannando il tempo con un cocktail di cliché e stereotipi incorniciati e messi in mostra come in un museo. Leggi tutto

Pillole di MFW per la prossima bella stagione, SS 19 Lamberto Losani

Lamberto Losani menswear & womenswear SS 19 in un mio scatto realizzato durante la recente MFW

E così, anche settembre è ormai finito portando via con sé la Milano Fashion Week o Milano Moda Donna con l’edizione che ha presentato le proposte degli stilisti per la prossima primavera / estate 2019.
Come ho scritto in un recente post a proposito di Alberto Zambelli, so che – giustamente! – siamo ormai tutti proiettati verso l’autunno e l’inverno, ma mi fa piacere condividere con voi alcune anticipazioni, le collezioni di alcuni stilisti che ho incontrato durante le numerose presentazioni e che hanno attirato la mia attenzione in modo positivo (ebbene sì, confesso di aver visto anche proposte che non mi sono piaciute per niente ma ribadisco ancora una volta quanto io preferisca aprire bocca oppure pigiare i tasti del pc esclusivamente per dare spazio alla positività).

Continuo dunque questo mio piccolo viaggio tirando in ballo una persona che ho avuto la fortuna di incontrare diversi anni fa: era il 2012 quando ho incontrato Saverio Palatella per la prima volta e se parlo di fortuna è perché Saverio è un vero professionista della moda e dei modi in cui essa si fa linguaggio, è un grande anzi grandissimo esperto di maglieria ed è uno sperimentatore (qui trovate un mio articolo su una delle sue sperimentazioni pubblicato da Scenario Magazine, testata con la quale allora collaboravo, qui nel blog trovate invece un post su una sua collaborazione con la cantante Rokia Traoré – giusto per citare un paio di progetti che raccontano l’immensa versatilità di Palatella).

Tra le tante collaborazioni e i tanti progetti che costellano la carriera di Saverio, oggi desidero raccontarvi del suo lavoro in seno a Lamberto Losani, un nome che evoca a sua volta suprema qualità e innovazione: la maison leader nell’ambito del cashmere Made in Italy e che può contare su una storia lunga oltre 75 anni (78, per l’esattezza) si proietta verso il futuro grazie a una nuova sede, un assetto manageriale rinnovato e il debutto del menswear che va ad affiancare il womenswear a partire, appunto, dalla primavera – estate 2019.

Fondato nel 1940 e guidato oggi da Lamberto Losani, persona innamorata di arte e musica e votata all’armonia e alla qualità del bel vestire italiano in maglia pregiata, il brand ha infatti aperto uno showroom a Milano in via Spiga 2, nel cuore del quadrilatero dello shopping di lusso milanese e accanto ai protagonisti del Made in Italy: la foto in alto è stata da me scattata proprio lì lo scorso 22 settembre, quando ho avuto la possibilità di visionare la collezione e di accarezzarla, è proprio il caso di dirlo.

Direttamente dall’Umbria, regione divenuta ormai per antonomasia il distretto del cashmere italiano d’eccellenza, arrivano le nuove collezioni Made in Lamberto Losani, ricercate e dotate di naturale raffinatezza ed eleganza, disegnate dal direttore creativo Saverio Palatella, colui che con talento e capacità ha fatto della maglieria la forza della sua creatività e della sua personale e costante ricerca.
Sotto la sua egida, nasce la costola maschile di Lamberto Losani, brand già a lungo affermato nel womenswear, e si dipana in un percorso creativo fatto di forme confortevoli e destrutturate.

Partendo dal guardaroba di Ernest Hemingway, autore di romanzi indimenticabili e uomo che adorava i pullover di gusto british e le maglie a trecce fisherman, il guardaroba intelligente per l’uomo di Lamberto Losani guarda in direzione dell’arte grafica del giapponese Ikko Tanaka (1930 – 2002) che, per inciso, ha collaborato anche con il grande (grandissimo) Issey Miyake.
Filtrato da un certo gusto nipponico, stemperato da vivaci accenti contemporanei, ispirato ai criteri più evoluti dell’estetica no gender o gender fluid (termine che preferisco poiché più poetico e suggestivo) e del filone athleisure (la tendenza che estrapola lo sportswear dall’ambito di origine per portarlo nella vita di ogni giorno), prende così forma un guardaroba in cashmere ricco nelle lavorazioni e nei colori che, oltre ai classici neutri e al deep blu, prevede anche lampi di rosso: trionfano gli intarsi e le geometrie con qualche riferimento all’esuberante natura hawaiiana.

Forte di uno spirito nomade e cosmopolita, la collezione si rivolge non solo all’esigente clientela italiana, ma anche ai mercati esteri come il Giappone, la Corea, la Germania, l’America.
Le esclusive creazioni di Lamberto Losani sono esposte nelle vetrine italiane e internazionali più ambite e rinomate e lo smart knitwear della maison è diffuso attraverso più di 400 punti vendita selezionati in tutto il mondo (tra i quali
figurano nomi del calibro di L’Eclaireur a Parigi, Maxfield a Los Angeles, IF Boutique a New York, Cashmere & Silk a Mosca, Shinsegae a Seoul) nonché mantenendo solide partnership con i più prestigiosi department store come Harrods, Galeries Lafayette, Isetan e molti altri.

Cosa aggiungere? Mi riempie sempre di grande orgoglio avere conferma di quanto i nostri prodotti più pregiati e prestigiosi siano apprezzati in tutto il mondo.

In principio, ho scritto di aver visionato e accarezzato la collezione e non l’ho scritto a caso: i capi di Palatella per Lamberto Losani vanno toccati e le lavorazioni vanno viste da vicino perché c’è da restare a bocca aperta, ve l’assicuro.
È uno dei frangenti in cui sento l’impotenza delle parole davanti all’esperienza diretta e reale poiché, in questo caso, esse non bastano a descrivere ciò che va toccato e sentito sulla pelle.

Manu

 

A seguire, alcuni outfit della collezione womenswear SS 19 Lamberto Losani (ph. courtesy ufficio stampa).
Per visualizzare la gallery da pc, cliccate sulla prima foto
e poi scorrete con le frecce laterali.

Per seguire il brand Lamberto Losani, qui trovate il sito, qui la pagina Facebook e qui l’account Instagram.

Chez Blanchette: la moda artigianale, Made in Italy, familiare, responsabile

Era il 24 aprile 2013 quando il Rana Plaza, edificio commerciale di otto piani, crollò a Savar, sub-distretto di Dacca, la capitale del Bangladesh.
Le operazioni di soccorso e ricerca si conclusero con un bilancio dolorosissimo: 1.134 vittime e circa 2.515 feriti per quello che è considerato il più grave incidente mortale avvenuto in una fabbrica tessile nonché il più letale cedimento strutturale accidentale nella storia umana moderna.

Com’è tragicamente noto, il Rana Plaza ospitava alcune fabbriche di abbigliamento, una banca, appartamenti e numerosi negozi: nel momento in cui furono notate delle crepe, i negozi e la banca furono chiusi, mentre l’avviso di evitare di utilizzare l’edificio fu ignorato dai proprietari delle fabbriche tessili.
Ai lavoratori venne addirittura ordinato di tornare il giorno successivo, quello in cui l’edificio ha ceduto collassando durante le ore di punta della mattina.
Lo voglio ripetere: nel crollo, persero la vita 1.134 persone e ci furono oltre 2.500 feriti.

Molte delle fabbriche di abbigliamento del Rana Plaza lavoravano per i grandi committenti internazionali e questo orribile sacrificio di vite umane ha squarciato il velo di omertà che copriva, a mala pena, pratiche che moltissimi, in realtà, conoscevano da tempo e fingevano di non vedere.

Dopo la strage, oltre 200 imprese del settore abbigliamento – così dicono le cronache – hanno siglato un accordo sulla sicurezza in Bangladesh; da un recente simposio alla Ford Foundation di New York è emerso che, da allora, sono state corrette una media di 60 violazioni per impianto e sono stati organizzati corsi sulla sicurezza per 2 milioni di addetti.
Sono passi verso una maggiore responsabilità, ma è solo l’inizio: le paghe sono ancora (troppo) basse, gli orari sono spesso senza regole e la strada verso una sicurezza totale, dunque, è ancora lunga.

A chi pensa che la colpa di tutto ciò vada esclusivamente al fast fashion, alla sua nascita e alla sua diffusione, dico di non farsi trarre in inganno.
Sul banco degli imputati non ci sono solo i ben noti marchi di moda low cost, bensì anche nomi blasonati fino ad arrivare alle maison di Alta Moda, in alcuni casi accusate di poca chiarezza a proposito delle risorse e delle materie prime utilizzate, spesso con riferimento a quelle di origine animale.

Volete un esempio circa il fatto che anche i brand blasonati non siano sempre innocenti? Leggi tutto

40anni di tesori MF1 svelati da un archivio ora digitale, una mostra, un libro

Lo racconto sempre agli studenti dei miei corsi in Accademia del Lusso: siamo così abituati a pensare alla moda italiana come a un elemento costitutivo dell’identità del nostro Paese da dimenticarci spesso che essa è, al contrario, una realtà abbastanza recente.

La verità è che, fino all’Ottocento, a dettare legge in ambito moda è stata la Francia e gli stessi creatori di casa nostra hanno guardato i cugini d’Oltralpe cercando esempi e ispirazione.
Pensate alla celebrità della quale ha goduto Maria Antonietta d’Asburgo Lorena, moglie di Luigi XVI e nota semplicemente come Maria Antonietta (1755-1793): tutto ciò che la sovrana fece creare o scelse e poi indossò divenne moda non solo in Francia, bensì presso tutte le corti europee dell’epoca.
E pensate che, proprio per quanto riguarda il nostro Paese, ho scoperto che la stessa parola «moda» apparve per la prima volta solo nell’edizione del 1691 del dizionario italiano: la definizione era quella che fotografa tuttora la caratteristica fondamentale della moda, ovvero «ciò che riguarda le abitudini mutevoli».
Già, perché la moda indica comportamenti collettivi con criteri mutevoli: non solo, anche se usiamo spesso questo termine in relazione al modo di abbigliarci, dobbiamo ricordare che in realtà la moda non è solo nei vestiti.
Così come è utile ricordare che la moda nasce solo in parte dalla nostra necessità di sopravvivere, coprendoci prima con pelli e poi con materiali e tessuti lavorati per essere indossati; gli abiti assunsero infatti ben presto anche precise funzioni sociali, atte per esempio a distinguere le varie classi e le mansioni – e questo occorrerebbe ricordarlo soprattutto a chi continua a considerare la moda come cosa futile e sciocca.

Ma torniamo alla moda italiana. Leggi tutto

Come la sfilata Iulia Barton Inclusive Fashion ha testato la mia coerenza

È proprio vero.
È facile, tutto sommato, fare bei discorsi in linea teorica.
È facile scrivere che si è a favore della moda inclusiva – ovvero di quella moda che sia davvero rappresentativa della società in cui viviamo e di tutte le persone che la compongono.
È facile parlare di uguaglianza, di accettazione, di superamento e abbattimento di qualsiasi barriera, limitazione, ostacolo.
È facile riportare una frase bella come «la diversità è un attributo privo di fondamento».
Ma – come disse saggiamente qualcuno – tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare.
E c’è di mezzo il mare perfino per chi è fondamentalmente una persona coerente. Una persona che davvero crede in ciò che dice e scrive, come la sottoscritta.

Perché esordisco così?

Perché, così come avevo annunciato in un post precedente, martedì 27 febbraio, a chiusura della Milano Fashion Week, sono stata alla sfilata Iulia Barton Inclusive Fashion Industry, il progetto creato da Giulia Bartoccioni.

Alla presenza di Carlo Capasa, presidente della Camera Camera Nazionale della Moda Italiana, sono andati in passerella sei stilisti rappresentativi del Made in Italy: a indossare le loro creazioni sono stati chiamati modelli e modelle, uomini e donne, scelti senza alcuna limitazione o barriera.
E scrivendo senza alcuna limitazione o barriera, mi riferisco alla scelta di far sfilare modelle e modelli con e senza disabilità. Leggi tutto

Armani e il suo Silos che contiene sogni, successi, storia, futuro della moda

Armani è uno dei motivi per cui mi occupo di moda.

Questo post inizia così, con un’affermazione forte che non lascia spazio a dubbi.

Giorgio Armani, classe 1934, e la sua prestigiosa maison fondata nel 1975 figurano tra i miei ricordi di bambina, ricordi che profumano di tenerezza, calore e divertimento nonché dei primissimi approcci con la moda.

Ricordo molto bene quando mia sorella e io trascorrevamo interi pomeriggi a disegnare figurini, immaginando anche di frequentare gli stilisti che erano famosi in quegli anni, Maestri del calibro di Giorgio Armani, Valentino, Gianni Versace, Ottavio Missoni, Franco Moschino, Gianfranco Ferré.

Ebbene sì, eravamo due bambine dotate di grande fantasia ed ecco perché, quando mi chiedono di parlare di me, affermo che la moda è una malattia con la quale sono nata – una malattia meravigliosa.

Armani è lo stilista che ha forgiato i miei primi sogni di moda: vi è entrato quando ero solo una bambina con gli occhi pieni di meraviglia e curiosità e lì è rimasto per sempre, stagione dopo stagione, anno dopo anno.

Sono cresciuta, ho studiato, ho coltivato tante passioni: il bello, la moda, la comunicazione sono diventati sempre di più poli di irresistibile attrazione e si sono infine fusi nel mestiere che faccio oggi, con amore, passione, devozione e quella stessa curiosità che – per fortuna – non si è mai affievolita ma che al contrario è cresciuta, diventando più matura e profonda. Nonché più consapevole, mi piace pensare, anche se ciò che avevo colto da bambina, in modo istintivo come spesso accade ai giovanissimi, continua a essere il nucleo di tutto. Leggi tutto

YOUnique, essere unici (e trasformisti) secondo Accademia del Lusso

«La differenza tra le persone sta solo nel loro avere maggiore o minore accesso alla conoscenza.»
Così scrisse Lev N. Tolstòj, il grande romanziere e filosofo russo autore di capolavori quali Guerra e pace e Anna Karenina.

Sono d’accordo con lui e, nel mio piccolo, ho sempre pensato che la cultura sia il miglior strumento per ottenere la libertà.
Credo fermamente nel valore della cultura come fonte di salvezza dalle brutture, come opportunità e come speranza verso il futuro.
Credo nel rispetto, nell’uguaglianza, nel dialogo interculturale e nel valore della diversità.
Credo nella comprensione, nella tolleranza e nel fatto che occorra mettersi nei panni degli altri.
Non credo invece nella violenza, nell’ignoranza, nella prepotenza, nella prevaricazione, nella cecità che porta alcuni a credersi superiori ad altri.

Penso anche che il web, oggigiorno, abbia moltiplicato le nostre possibilità di accesso a conoscenza, cultura e formazione e – naturalmente – amo infinitamente tale opportunità.
Amo il fatto che esistano ancora maggiori possibilità di incontro, scambio, condivisione.

Penso infine che le parole siano importanti nella misura in cui vengono confermate e realizzate attraverso i fatti.

È per tutti questi motivi e per altri ancora che ho accettato con gioia, entusiasmo, gratitudine di avere un ruolo attivo e concreto in Accademia del Lusso, istituto di alta formazione per la moda e il design.
È per questi motivi che sono orgogliosa di essere parte del loro corpo docenti.
Ed è sempre per questi motivi che torno a scrivere della sfilata che, come di consueto, corona le attività di ogni anno accademico. Leggi tutto

Louis Vuitton, delocalizzazione, Made in Italy, H&M: perché tutto insieme?

Eccezionalmente, oggi pubblico un secondo post nella stessa giornata perché mi preme condividere con voi alcune riflessioni alquanto calde e attuali.

In questi giorni, circola infatti la notizia di un’inchiesta fatta da The Guardian: secondo l’autorevole quotidiano britannico, la maison Louis Vuitton (gruppo LVMH, ovvero una delle grandi holding del lusso) fabbricherebbe le proprie scarpe in Romania, per la precisione in Transilvania.
Sempre a quanto risulta secondo l’inchiesta, le scarpe vengono poi spedite da noi, qui in Italia, dove vengono semplicemente incollate le suole.
Altro che Made in France o Made in Italy, insomma, come invece viene stampigliato sulle suole.

Non voglio scendere nel merito specifico di questo episodio, perché il discorso è lungo e articolato.
Prima di tutto, occorrerebbe parlare bene di cosa oggi possa legalmente fregiarsi dell’appellativo Made in Italy (e sto meditando di scrivere un post dedicato).
E secondo, se vogliamo parlare di etica e soprattutto di etica del lavoro, bisogna dire che sembrerebbe che quelle fabbriche in Romania siano un ambiente pulito nel quale lo staff lavora da seduto, ha il fine settimana libero, è pagato per gli straordinari e non usa prodotti tossici.

(A proposito: un paio di cosette circa delocalizzazione, reshoring, Made in Italy, etica e via discorrendo le avevo già scritte tempo fa, nel 2014, ora che ci penso – precisamente qui)

L’osservazione che desidero fare è dunque piuttosto un’altra: bisogna tenere gli occhi ben aperti e non dobbiamo fidarci di tutto ciò che ci viene detto.
Oggi, il fast fashion viene spesso additato come l’essenza del male in ambito moda o peggio come l’unico male, ma non è così, non del tutto, non al 100%.
Così come non è vero che le maison di alto di gamma siano sempre virtuose, non è altrettanto vero che quelle di fast fashion facciano tutto quanto male.

Vi faccio un esempio pratico anche in questo caso.
Recentemente, ho fatto degli acquisti attraverso il sito H&M e quello che vedete qui sopra è il sacchetto che mi è arrivato insieme ai capi.
Perché – nonostante le responsabilità che si imputano al fast fashion e che certo non intendo negare – occorre anche dire che H&M, per esempio, è da anni in prima linea nella lotta per la sostenibilità.
Ha un sito dedicato nel quale dettaglia tutte le attività che svolge.
E, fin dal 2013, ha creato il più grande sistema globale di raccolta di abbigliamento usato del settore retail.
Tutti i negozi della catena, in ogni paese del mondo, dispongono di contenitori di raccolta dei capi: i clienti possono depositare capi usati di qualsiasi marca che saranno riutilizzati o riciclati, ricevendo un buono in cambio.
Già a febbraio 2014, H&M ha presentato i primi prodotti contenenti materiali ottenuti con l’iniziativa, ovvero capi in denim con una percentuale di cotone riciclato.

Non voglio fare un’arringa a favore del colosso del fast fashion, non mi interessa, credetemi; desidero solo – e lo ripeto! – dire a noi tutti di tenere gli occhi aperti e di guardare oltre.
Non dobbiamo subire i luoghi comuni, né nel bene e nel male, e non beviamoci bugie e/o false promesse, qualsiasi etichetta esse portino – letteralmente!

E per il momento mi fermo qui.

Se poi volete saperne di più sul caso Louis Vuitton, vi invito a leggere l’articolo di The Guardian.
E ce n’è anche per il gruppo diretto concorrente di LVMH, ovvero Kering: leggete cosa scrive Pambianco a proposito di un’altra querelle che riguarda degli occhiali…

La butto lì: sarà forse che quello di giocare un po’ con appellativi, definizioni e cavilli sia un vizio piuttosto diffuso?
Sarà forse che – come sostengo io – il male non stia oggi solo nel fast fashion ma in chiunque si comporti con poca trasparenza?

Manu

 

We Wear Culture, dal little black dress di Coco allo street style di Tokyo

We Wear Culture: la cover della sezione dedicata al virtual tour del Metropolitan Museum of Art

Tra i tanti vantaggi del web, uno dei miei preferiti è senza dubbio quello di aver ridotto i limiti fisici e geografici.

Per esempio, possiamo stare comodamente seduti alla nostra scrivania e contemporaneamente fare ricerche grazie a luoghi virtuali, biblioteche e librerie, archivi e musei. Oppure, possiamo rilassarci sul divano mentre chiacchieriamo in live chat con persone che si trovano dall’altra parte del mondo. O ancora, possiamo fare acquisti in pochi click.

Certo, a volte tutto ciò non basta: io, in questo periodo, mi struggo per il fatto di non poter essere a New York fisicamente, precisamente al Metropolitan Museum of Art dove si sta svolgendo la mostra Rei Kawakubo / Comme des Garçons: Art of the In-Between.

Non so cosa darei per visitare l’esposizione dedicata a una delle più importanti stiliste del Novecento, colei che nel 1969 ha fondato il brand Comme des Garçons e che insieme a Yohji Yamamoto e Issey Miyake forma l’eccezionale triade giapponese che, alla fine degli Anni Settanta, ha portato un grandissimo rinnovamento nella moda.

Qui, però, torna in ballo Internet e la sua capacità di essere un mezzo che ci dà infinite possibilità che sta a noi saper sfruttare al meglio: non posso teletrasportarmi a New York, è vero, ma grazie al web posso consultare il sito del Metropolitan, godere di filmati e gallery, leggere articoli, consultare reportage.

Ed è proprio in nome di tutto ciò che, oggi, sono molto felice di parlarvi di un progetto che si chiama We Wear Culture.

We Wear Culture ovvero Indossiamo la Cultura, in quanto ben tremila anni di storia del costume e della moda confluiscono in una sorta di sfilata (o vetrina, chiamatela come preferite) che debutta online in questi giorni.

Disponibile attraverso la piattaforma Google Arts & Culture, il progetto consente di esplorare stili e look di epoche diverse nonché le storie che sono alla base degli abiti che indossiamo oggigiorno: inoltre, pezzi iconici che hanno cambiato il modo di vestire di intere generazioni vengono letteralmente fatti vivere grazie alla realtà virtuale.

L’iniziativa è frutto di una collaborazione con oltre 180 istituzioni culturali di fama mondiale: tra i nomi italiani, figura il Museo del Tessuto di Prato e una selezione di tessuti proveniente proprio dalle collezioni antiche di tale Museo è ora disponibile online. Leggi tutto

Second hand economy: i miei tre negozi preferiti a Milano

Oggi desidero parlare con voi di un argomento che mi sta molto a cuore: il second hand.

In un momento storico in cui circola meno denaro rispetto al passato (penso, per esempio, ai più goderecci Anni Ottanta), una delle soluzioni possibili è quella di allungare il ciclo di vita degli oggetti: così, dopo decenni di consumismo e di filosofia usa e getta, è il momento d’oro del riuso, dal vintage ai negozi second hand (o seconda mano), dai mercatini delle pulci alla pratica dello swap party.

Prima di tutto, però, occorre fare una doverosa distinzione tra vintage e second hand.

Il termine vintage indica espressamente oggetti prodotti almeno vent’anni prima del momento attuale e dunque si differenzia dal second hand che di solito è più recente. La caratteristica principale di un oggetto o di un capo vintage non è dunque soltanto quella di essere stato utilizzato in passato, bensì il valore che ha acquisito nel tempo per le sue doti di irripetibilità e irriproducibilità: rappresenta una testimonianza dello stile di un’epoca passata e magari ha anche segnato un particolare momento storico o un passaggio importante della moda o del design.

Tutto ciò è intrinseco già nel nome stesso: vintage deriva infatti dal francese antico vendenge, termine inizialmente coniato per i vini vendemmiati e prodotti nelle annate migliori e poi diventato sinonimo dell’espressione d’annata. Leggi tutto

Curiosità dal mondo: Instagram e il caso dei coordinatissimi Bonpon511

Uno dei tanti outfit coordinati condivisi sull’account Instagram Bonpon511

Lo ammetto, in alcune cose sono un po’ maniaco-compulsiva e rasento una precisione che sfiora – appunto – il maniacale.
Faccio un esempio: i miei armadi sono rigorosamente suddivisi per tipo di indumento e colore.
In altre cose, invece, sono sciatta al limite dell’inverosimile e anche in questo caso faccio un esempio: la mia auto non è invasa da cartacce o carabattole varie sparse per l’abitacolo, ma viene lavata più o meno una volta all’anno e, in genere, è mio marito, mosso a pietà, a occuparsene.
Dunque, si potrebbe dire che sono anche un po’ bipolare, con estremi che convivono al limite del paradosso (vi prego, ditemi che non sono l’unica).

A ogni modo, tornando al mio ordine maniacale: un altro esempio è che conservo tutti gli spunti che reputo interessanti – sia nel lavoro sia nel privato – organizzandoli in raccolte ragionate di appunti.
Anni fa, dette raccolte erano cartacee, mentre oggi sono elettroniche e, naturalmente, ho diversi (ehm… parecchi) file pieni zeppi di note e idee.
E, altrettanto naturalmente, da brava maniaca dell’ordine e del controllo, capita che questo accumulo mi provochi ansia, sia perché temo di perdere qualcosa sia perché mi domando quando avrò mai tempo di dare seguito alle tonnellate di appunti che si stratificano sempre più.

Ma, in fondo, voglio pensare che non sia poi così grave avere quelle tonnellate di appunti; per una come me che fa un lavoro fondamentalmente basato sulla curiosità e sulla costante voglia di crescere, sarebbe probabilmente più grave non avere interessi e non avere desideri e spunti da seguire e inseguire.
Il vero guaio sarebbe forse arrivare al giorno in cui i file things to do oppure work in progress dovessero risultare vuoti: in fondo, è la mancanza di progetti nonché di prospettive future a farci invecchiare e a sancire l’inizio della fine. No?

Ho scelto di condividere con voi certe mie curiose abitudini e le riflessioni di cui sopra per due motivi.

Il primo è perché oggi ho deciso di trarre ispirazione da uno di quei miei famosi (o famigerati…) file sviluppando un appunto preso tempo fa.
Oggi è un ennesimo giorno difficile, 48 ore dopo l’orrenda strage di giovanissimi a Manchester, al termine del concerto di Ariana Grande: io scelgo, ancora una volta, di non fermare il mio lavoro e di fare esattamente il contrario di ciò che vorrebbe ottenere chi semina il terrore.

Scelgo di non assecondare la paura, di non fermare la libertà di pensiero e di parola; anche se a volte è davvero difficile, mi ostino invece ad assecondare la bellezza, cercando di rimanere salda negli ideali di civiltà e cultura nei quali credo da sempre.
Lo faccio in quanto sono fermamente convinta che difendere tali valori sia oggi l’unica risposta possibile dinnanzi a odio e follia (come ho letto ieri anche in un post di AnOther Magazine, una delle testate che seguo).

Eppure, anche se desidero fare tutto ciò, anche se credo fermamente che la paura vada combattuta e non assecondata né alimentata, mi riesce impossibile pensare di descrivere una borsa o un abito: ho scelto allora di parlarvi di umanità e unità, attraverso la storia originale (e spero simpatica) di due signori giapponesi.

Il secondo motivo è che penso che questi due signori giapponesi sarebbero d’accordo con ciò che ho scritto qui sopra, ovvero che è la mancanza di prospettive future a farci invecchiare.
E credo che loro non abbiano affatto alcuna intenzione di invecchiare, non nell’accezione negativa che spesso conferiamo a questo verbo, bensì credo intendano continuare ad avere il loro spazio nel mondo in un modo decisamente originale.

Tempo fa, durante le mie consuete navigazioni via Instagram e grazie alla segnalazione di una persona che conosco e stimo, sono approdata a un account che si chiama Bonpon511.

Appartiene a una coppia di signori giapponesi i quali coordinano quotidianamente il proprio abbigliamento, scrupolosamente, indossando gli stessi colori (in genere le tonalità del blu, del rosso, del grigio, del beige, del nero e del bianco), le stesse fantasie (spesso righe e quadretti) oppure le stesse linee, forme e proporzioni (tutto molto essenziale), cercando dunque di far risaltare il loro legame affettivo già al primo sguardo.

In giapponese, bon significa marito e pon moglie: no, non conosco questa lingua meravigliosa, l’ho scoperto grazie ai servizi di traduzione web.
Sempre grazie ai servizi di traduzione, ho scoperto che la data citata nella bio – 11/5/1980 – è quella del loro matrimonio: sono dunque sposati da 37 anni.
Ecco spiegata la scelta del nome Bonpon511 (li trovate qui).

È invece dichiarata in inglese quella che è la loro volontà: couple | over60 | grayhair | fashion | coordinate.

Ovvero mostrare una coppia oltre i 60 anni, con i capelli grigi, che propone una moda coordinata: una sintesi perfetta, insomma, una sorta di stringato manifesto di intenti.

Io li trovo fantastici: adoro la loro capacità di fare richiami che si incrociano e che legano l’una all’altro e adoro la loro sobrietà in puro stile giapponese eppure al tempo stesso mediata da un tocco assolutamente personale.
E, evidentemente, non sono l’unica a pensarla così: il loro account è infatti seguito a oggi da 463mila persone e i commenti sotto ciascun post sono pieni di parole di apprezzamento e simpatia.

Tutto ciò, miei cari amici, porta a dimostrare una teoria nella quale credo profondamente: la bellezza attira l’occhio, è vero, ma è la personalità (accompagnata da un tocco di sano divertimento, guardate bene i loro volti e le loro espressioni) a colpirci e a catturare il cuore.
E a farsi poi ricordare (anche in mezzo a tonnellate di appunti).

Manu

 

P.S.: Mi piace pensare che i deliziosi Bonpon511 sarebbero piaciuti a un grande della moda, Bill Cunningham. Secondo me, si sarebbe tanto divertito a fotografarli.

 

Give me 5 for charity, Kiabi e Humana insieme per bambini e ragazzi

Ho avuto la fortuna di poter vivere un’infanzia serena con una famiglia presente e unita che mi ha dato certezze e tanto amore.
Pur essendo fortunata su quel fronte, ho comunque conosciuto il dolore attraverso alcuni incidenti gravi che hanno segnato i miei primi anni di vita, mettendomi in serio pericolo.
Proprio grazie al grande amore dei miei genitori, ho superato quegli sfortunatissimi frangenti e sono qui, oggi, a poterne parlare.

La sofferenza e il disagio di bambini e ragazzi, dunque, è un argomento che mi tocca da vicino ed è per questo che qui nel blog ho sempre volentieri dato spazio a cause in favore del benessere dei più giovani.
Non sopporto che bambini e ragazzi soffrano, né fisicamente, come è accaduto a me, né moralmente, come succede a molti, anzi, a troppi, anche perché le sofferenze morali rischiano di minare e ipotecare pesantemente il loro futuro, rendendoli degli adulti privi di quel bagaglio di certezze sulle quali io ho invece potuto contare per superare difficoltà e momenti difficili.

Credo fermamente che il benessere fisico e mentale di bambini e ragazzi sia una precisa responsabilità di tutta la società, perché una società che desideri considerarsi – ed essere – civile deve necessariamente prendersi cura dei suoi membri più fragili e indifesi.

Eppure, nonostante quello che dovrebbe essere un ideale universalmente condiviso, ancora oggi (nel 2017!) non tutti i bambini sono rispettati, curati e protetti come e quanto dovrebbero esserlo.
I maltrattamenti e gli abusi verso i bambini sono inaccettabili e mettono a rischio la società, di oggi e di domani, perché il degrado e la violenza generano spesso altro degrado e altra violenza.

Ecco perché scelgo di parlarne, ancora una volta; ecco perché ho scelto di parlarvi nello specifico di una campagna che si chiama Give me 5 for charity.

I protagonisti sono Kiabi, leader francese della moda a piccoli prezzi, e Humana People to People Italia Onlus, organizzazione che promuove la cultura della solidarietà e dello sviluppo sostenibile: anche quest’anno si rinnova la loro collaborazione in Give me 5 for charity, una campagna di raccolta abiti.

Quella del claim è una scelta accurata: il numero cinque è infatti il simbolo e il fil rouge di tutta l’operazione.

Fino al 31 maggio, nei punti vendita Kiabi, ogni 5 capi donati si riceverà un buono del valore di 5 euro spendibile sulla nuova collezione fino all’8 giugno, con una spesa minima di 45 euro, in negozio e online.

Inoltre, il nome della campagna stessa richiama il classico gesto di intesa tra due persone che, colpendosi la mano e dandosi appunto il cinque, sottolineano il fatto di avercela fatta insieme.

Ed è questo ciò che vogliono fare Kiabi e Humana: farcela tutti insieme in quanto, quest’anno, gli abiti donati dai clienti di Kiabi permetteranno di sostenere le attività di FATA Onlus (acronimo di Famiglie Temporanea Accoglienza), un’associazione che gestisce comunità di accoglienza per bambini e ragazzi che hanno vissuto gravi situazioni di abbandono e maltrattamenti, dando loro alloggio nonché supporto educativo e psicologico.

C’è poi un ulteriore motivo per sostenere Give me 5 for charity: i kit di indumenti personalizzati – che Humana distribuirà a circa 50 bambini e ragazzi di età compresa fra 1 e 20 anni – saranno confezionati anche grazie all’aiuto dei dipendenti Kiabi in occasione della Giornata di Volontariato Aziendale organizzata presso il Centro di Smistamento Humana di Pregnana Milanese. Quando si dice mostrare impegno in prima persona!

Questo progetto charity, sostenuto anche dalla Fondazione Kiabi, rientra nella strategia di sostegno delle famiglie dei Paesi in cui il brand è presente, andando così a sottolineare che si può far moda rimanendo dalla parte di chi si trova in difficoltà e confermando le idee che accompagnano Kiabi fin dalla sua nascita.

Era infatti il 1978 quando Patrick Mulliez, noto imprenditore francese, lanciò un concetto allora rivoluzionario: sviluppare una rete di grandi negozi di abbigliamento proponendo prodotti alla moda, di qualità, con prezzi accessibili e per tutta la famiglia. Nacque cosi Kiabi che l’anno prossimo compirà ben 40 anni.

Da allora, l’ambizione di Kiabi è sempre stata quella di offrire una moda colorata, generosa e accessibile, una moda che non si impone ma che si adatta e rispetta la personalità di ognuno: tutto ciò mi piace, naturalmente, e mi piace che l’azienda persegua questo ideale anche in iniziative come quella attuata con Humana.

Per chi non la conoscesse, posso raccontare che Humana People to People Italia Onlus è un’organizzazione umanitaria indipendente e laica, nata nel 1998 per contribuire allo sviluppo dei popoli svantaggiati attraverso programmi umanitari di lungo termine. È membro della Federazione Internazionale Humana People to People presente in 43 Paesi di Africa, Asia, Europa, America.

Tra i vari programmi a lunga scadenza atti a creare sviluppo sostenibile in una vasta gamma di settori (cito Educazione e Formazione, Aiuto all’Infanzia, Salute e Prevenzione, Sostegno della Comunità, Agricoltura Sostenibile, Energie Rinnovabili), Humana contribuisce alla tutela dell’ambiente anche attraverso la raccolta, la vendita e la donazione di abiti usati, fatto che spiega ulteriormente l’interessante sodalizio con Kiabi.

A questo punto, concludo lasciandovi alcune coordinate importanti:

  • Qui trovate la campagna Give me 5 for charity e qui potete trovare il negozio Kiabi più vicino a voi
  • Qui trovate la pagina Facebook della Fondazione Kiabi
  • Qui trovate la pagina Facebook di Humana People to People Italia Onlus
  • Qui trovate la pagina Facebook di FATA Onlus

Sono da sempre convinta che ciò che non serve più a noi possa fare la fortuna di altri e quindi ho sempre parteggiato per il riutilizzo: direi che, attraverso Give me 5 for charity, Kiabi e Humana hanno reso quanto mai concreta tale mia convinzione.

E, per giunta, ci ringraziano dandoci perfino qualcosa in cambio.

Manu

Lucio Costa, quando la moda racconta qualcosa di bello e speciale

Ci sono momenti in cui è necessario avere l’intelligenza e l’umiltà di fare un passo indietro.

Perché oggi esordisco con questa affermazione? Ora ve lo spiego.

Lo scorso 23 settembre, durante Milano Moda Donna, ho avuto il grande piacere di partecipare a un evento speciale dedicato a Lucio Costa.

Si è trattato di un momento suggestivo pensato per parlare di un capitolo interessante della moda italiana e di un protagonista che ha contribuito a scriverne la storia: da una parte, è stato presentato So Lucio!, ovvero il libro dedicato allo stilista prematuramente scomparso; dall’altra, è stato presentato il rilancio del marchio con la nuova capsule collection primavera / estate 2017 disegnata da Roberto Pelizzoni, socio e compagno storico di Lucio Costa.

Il libro presenta il percorso personale e professionale di Lucio Costa attraverso immagini iconiche tratte dalle più importanti riviste di moda, dalle sfilate e dagli scatti fotografici delle sue proposte stilistiche dal 1987, anno del suo debutto internazionale, al 2012, anno della sua scomparsa.

I testi sono di chi ha amato e stimato Lucio, le giornaliste Giusi Ferré, Renata Molho, Gisella Borioli, Cinzia Brandi, Dominique Muret; la presentazione dello spaccato storico e sociale di Milano negli Anni Ottanta è curata dal critico e giornalista Matteo Ceschi.

Alice Gentilucci ha invece coordinato il fashion editing del libro So Lucio! e l’immagine dello shooting con la guest model Soo Joo Park, fotografata da Federico Garibaldi.

Potrei andare avanti citando altri bravi professionisti che hanno collaborato a questo progetto straordinario: straordinario perché racconta un uomo e un professionista che merita di essere raccontato e ricordato; straordinario perché non è poi così consueto – nella moda così come in altri settori – che tante persone si riuniscano con un unico scopo che vada oltre qualsiasi singolo interesse personale.

E, in questo caso, il desiderio è quello di rendere unico protagonista Lucio Costa, desiderio che riconferma quanto lui sia stato una persona speciale in grado di lasciare una grande eredità in termini di affetto e di stima. Leggi tutto

Freedomday, ricordi di viaggio in un piumino

Che ci piaccia o no, sono due gli argomenti che vanno per la maggiore in questi giorni: il tempo e l’inizio dei saldi.

A me la cosa non meraviglia più di tanto: il meteo è sempre oggetto di animate discussioni (e in questi giorni fa proprio un gran freddo ovunque, ammettiamolo) e a tutti fa piacere fare acquisti a prezzi ridotti.

E così, ho pensato di mettere insieme le due cose e di parlarvi, oggi, di un marchio di outerwear che ha catturato la mia attenzione in occasione del press day dello scorso maggio: mi piace l’idea di poter mostrare un prodotto di qualità e penso che il periodo dei saldi dovrebbe essere dedicato ad acquistare qualcosa che sia un buon investimento. Per giunta, penso (o meglio temo) che, se andiamo avanti così, piumini e giubbotti serviranno ancora molto a lungo…

Il marchio in questione si chiama Freedomday e nasce dalla passione e dall’esperienza quarantennale dei fratelli Russo, fondatori di un’azienda che si chiama Max Moda: l’azienda è specializzata nella produzione e distribuzione di capispalla per alcuni dei marchi più noti del panorama italiano e internazionale. Può contare su uno staff altamente specializzato e che comprende l’ufficio stile e il controllo qualità.

Freedomday è nato nel 2014 proprio grazie a questa realtà consolidata: giubbotti e piumini – per donna, uomo e bambino – propongono modelli che hanno fatto la storia della moda e dello stile, resi però originali dalla cura dei dettagli e della vestibilità. Leggi tutto

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