Ritmi sostenibili, sostenibilità verso innovazione, cultura e intrattenimento

La parola sostenibilità è una delle più utilizzate – e oserei aggiungere abusate – degli ultimi anni.

È però necessario utilizzarla bene, comprendendo fino in fondo quanto sia preziosa: riconduce a temi estremamente importanti e comporta rispetto e consapevolezza.

Come anticipavo nel post precedente e nell’ottica di essere sempre più attiva sul fronte sostenibilità sociale e ambientale, ho accettato molto volentieri l’invito a partecipare a un talk intitolato Ritmi Sostenibili.

Il talk è stato pensato e organizzato da Demood, collettivo che si pone un preciso obiettivo: celebrare creatività e bellezza in ogni forma.

Sempre in evoluzione, Demood ha le sue radici nelle Marche, regione in cui si incontrano natura e genio umano: ogni membro mette a disposizione il proprio talento e le proprie esperienze per realizzare progetti caratterizzati da sperimentazione e dinamismo.

Il loro progetto di punta è il Mood Festival e lo scorso anno ho raccontato (qui) che si tratta di un evento che nasce con l’idea di portare le atmosfere delle grandi rassegne musicali nel cuore delle colline marchigiane.

Mood Festival giunge quest’anno alla sua nona edizione: si terrà il 21 e 22 luglio al Castello della Rancia di Tolentino (qui tutti i dettagli) ed è accompagnato da una serie di novità tra le quali in primis il talk Ritmi Sostenibili che si è tenuto il 10 giugno presso il Campus Simonelli. Leggi tutto

Perché ho partecipato al talk “Ritmi Sostenibili” voluto da Demood

Oggi vorrei condividere alcune riflessioni riguardo moda e abbigliamento con voi, cari amici che mi fate l’onore di leggere questo spazio web, e vi spiegherò poi anche il motivo di questa condivisione.

Parto da un presupposto.

Il rapporto con l’abito accompagna l’uomo (e gli antenati più prossimi) da sempre perché risponde a un’esigenza di tipo primario, ovvero correlata alla nostra sopravvivenza: fin dai tempi delle caverne, abbiamo compreso di aver bisogno di coprirci per proteggerci e difenderci poiché siamo gli unici esseri a non essere dotati di un bagaglio protettivo e difensivo intrinseco che è invece proprio di altri animali.

Non abbiamo pelo o pelliccia, corazza, artigli e la nostra pelle non è da sola sufficiente a difenderci dalle intemperie, dal freddo e dal caldo: l’uomo ha dunque compreso velocemente di avere bisogno di completare ed equipaggiare il proprio corpo con qualcosa di esterno.

Ben presto, però, l’abito ha assunto ulteriori e numerose connotazioni, andando a raccontare la posizione sociale piuttosto che un ruolo professionale, come per esempio avviene nel caso delle divise, da quelle militari fino a quelle del personale medico. Leggi tutto

WearMe30Times, quando un gioco è molto più di un gioco

L’etichetta del progetto WearMe30Times su una maglia

Da diverso tempo, ormai, mi interesso di moda (mia immensa passione da sempre) non solo dal punto di vista del processo creativo, ma anche e soprattutto per quanto riguarda le sue interazioni con ogni settore della nostra vita – e in particolare dal punto di vista della sostenibilità sociale e ambientale.

Desidero pertanto condividere con voi, cari amici, il racconto di un evento al quale ho partecipato recentemente e che si è tenuto presso il quartier generale di H-Farm qui a Milano per lanciare una innovativa campagna di sensibilizzazione contro gli sprechi nel settore moda: mi riferisco al progetto WearMe30Times.

L’evento – in formato fisico e digitale – ha visto presenti in sala i due partner promotori dell’iniziativa, ovvero Walfredo della Gherardesca, CEO di Genuine Way, e Aurora Chiste, CEO di Maakola; era inoltre presente in collegamento web Holly Syrett di Global Fashion Agenda.

L’evento si è aperto proprio con l’intervento di Holly che ci ha esposto uno studio – realizzato da Global Fashion Agenda insieme a McKinsey – che analizza nel dettaglio l’impatto ecologico globale dell’industria della moda, andando a identificare e dividere le varie voci di tale impatto, dalla produzione al consumo: da questa analisi deriva una riflessione importante, ovvero che una rilevante parte del problema non risiede solo nell’ambito produttivo, ma nelle abitudini di consumo, ovvero negli sprechi legati al poco utilizzo dei capi acquistati e della rapida sostituzione degli stessi. Leggi tutto

Bob Krieger, il grande fotografo che io ricorderò anche per la sua simpatia

«Stamattina ho avuto il piacere di conoscere e ascoltare Bob Krieger in occasione dell’anteprima stampa della mostra che Palazzo Morando gli dedica.
Ed è così che ho scoperto qualcosa che non sapevo: oltre a essere un grande fotografo, uno dei fotografi che più hanno influenzato moda e costume a partire dagli Anni Sessanta (e questa parte mi era nota), ho scoperto che Krieger è anche un uomo simpatico, brillante e appassionato, davvero piacevolissimo da ascoltare, generoso quanto ad aneddoti ed esperienze.
Sono felice ogni volta in cui scopro che una persona nota è umile e non arrogante come invece sono molti anche senza essere conosciuti a livello mondiale…
E così, la cartelletta stampa con l’autografo e la dedica di Bob Krieger resterà tra i miei ricordi più cari.»

Sono le parole che ho scritto il 7 marzo 2019 dopo la conferenza stampa grazie alla quale ho avuto l’immenso onore di conoscere Bob Krieger.

Quando giovedì sera ho appreso della sua scomparsa… ero incredula.
L’ennesima scomparsa, l’ennesimo vuoto, l’ennesimo lutto per il mondo e non per quello della cultura, ma per l’intera umanità.

Silenziosa e pensierosa, gli do allora il mio saluto condividendo le foto che avevo realizzato quella mattina in occasione della conferenza stampa e dell’anteprima nonché riportando parte dell’articolo che avevo scritto per ADL Mag per raccontare la bella mostra di Palazzo Morando… Leggi tutto

Creativi e innovatori a rapporto: sono aperte le iscrizioni al contest Road to Green

Imperterrita, determinata e quanto mai convinta, proseguo oggi il mio cammino verso la positività dando spazio a un’iniziativa che sposo per due motivi.

Il primo motivo è che si tratta di un’iniziativa di scouting, ovvero che mira a scoprire e a sostenere persone di talento: dare sostegno al talento è un’attività per me importante e alla quale mi dedico con passione ed entusiasmo.

Il secondo motivo è che a fare scouting è Accademia del Lusso, ovvero la scuola di formazione moda con la quale collaboro stabilmente, in qualità di docente (come racconto qui e attualmente in modalità di didattica a distanza) e in qualità di redattrice di ADL Mag, la nostra rivista online (qui i miei articoli).

Ciò che desidero raccontare è che sono ufficialmente aperte le iscrizioni per #roadtogreen, il contest annuale promosso da Road to Green 2020 in collaborazione con Accademia del Lusso.

Road to Green 2020 è un’associazione no-profit fondata nel 2016 da Dionisio Graziosi e Barbara Molinario con lo scopo preciso di promuovere l’educazione ambientale: ogni anno, con questa iniziativa, l’associazione si pone l’obiettivo di stimolare la creatività e il confronto di idee, alimentando il dibattito sulle tematiche green tra istituzioni, imprese, associazioni e privati cittadini, per arrivare a produrre innovazione e progresso.

«Quest’anno lanciamo il nostro contest in un momento molto particolare, in piena emergenza sanitaria da coronavirus. Abbiamo deciso di non lasciarci fermare da questi eventi, continuando a portare avanti i nostri progetti, con l’augurio che tutto questo possa finire il prima possibile. La chiamata è rivolta a tutti coloro che abbiano un’idea che possa rendere le nostre vite più sostenibili e il nostro futuro più green in qualsiasi settore, compreso quello della salute. Dunque, creativi, innovatori e tutti voi che avete un’idea che vi sembra geniale, mettete i vostri pensieri nero su bianco e diteci come possano migliorare le nostre vite.»

Così dichiara Barbara Molinario, presidente di Road to Green 2020, e io sono assolutamente d’accordo con lei e con lo spirito che la anima.

Per partecipare a #roadtogreen bisogna presentare ‘opere green’ inedite, ispirate ai valori della salvaguardia ambientale.

Le categorie previste sono cinque: food; culture & nature; health; fashion & beauty; city, mobility & technology.

Ognuno può partecipare con la propria arte, senza alcun vincolo, mediante pittura, scultura, installazioni, video, abiti (bozzetti o realizzati), plastici ecosostenibili, disegni, fotografie, progetti di eventi e altro.

Il contest è aperto a tutti, senza vincoli di età, nazionalità, titolo o professione (… potrebbe non piacermi questa libertà?) e il termine ultimo di presentazione delle opere è il 15 luglio 2020.

Il vincitore sarà proclamato durante ‘La città del futuro’, forum internazionale che si terrà il 24 settembre a Roma: in tale occasione, i finalisti presenteranno al pubblico in sala i propri lavori e il vincitore si aggiudicherà un voucher formativo (valore 3.450 euro) da utilizzare presso la sede di Roma di Accademia del Lusso.

Se volete saperne di più, vi invito a visitare il sito di Road to Green 2020 e in particolare la pagina dedicata al regolamento. dove troverete anche il modulo di partecipazione da scaricare. C’è anche una pagina Facebook che trovate qui.

Cosa posso aggiungere?

Aggiungo l’invito che, ormai, è diventato un’altra costante: non facciamoci trovare impreparati.

Partecipate numerosi e provate a aggiudicarvi una chance interessante per il futuro.

Manu

 

Stato di salute e futuro della moda in tempi di coronavirus

Da tempo, ormai, si parla di quanto sia necessario rivedere il sistema attraverso il quale la moda viene presentata, prodotta, distribuita.

Per quanto riguarda la presentazione e soprattutto le sfilate, si discute animatamente soprattutto circa tempistiche e modalità.
Continuare a sfilare mesi prima come accade ora oppure adottare la modalità cosiddetta ‘see now, buy now’ con la vendita immediata di ciò che sfila? Far sfilare le collezioni moda e uomo separatamente oppure adottare la modalità co-ed, ovvero congiunta?
E poi… quanto servono le sfilate-spettacolo? Si punta troppo sul clamore a discapito dei capi?
E ancora: chi è seduto in prima fila (e sono sempre più influencer e nuove celebrità) distoglie l’attenzione facendo parlare – anche in questo caso – di chi è ospite più di quanto si parli della collezione?

Per quanto riguarda la produzione, si discute invece di delocalizzazione a discapito di produzioni specializzate, di produzione in Paesi dove non vengono rispettati i diritti umani, di filiere fuori controllo e non più sostenibili per il nostro pianeta.

Per quanto infine riguarda la distribuzione, si discute della crisi profonda dei negozi fisici, della crisi delle grandi catene storiche, dell’esasperazione che vuole che merce nuova sia messa in vendita a ciclo continuo senza durare nemmeno una stagione secondo il modello fast fashion che, ormai, influenza fortemente tutto il sistema e tutte le fasce della moda, indistintamente.
Senza parlare poi del discorso delle rimanenze di stagione, problema oneroso non solo economicamente ma anche dal punto di vista ambientale (leggere stock distrutti o meglio bruciati e anche in questo caso da tutti, brand del lusso inclusi).

Insomma, riassumendo: il sistema moda era in crisi da tempo. Tutto il sistema.
Stilisti costretti a sfornare una nuova collezione dietro l’altra (per soddisfare la smania di soldi delle holding finanziarie dalle quali sempre più spesso vengono inglobati) mentre modelle, giornalisti, compratori, fotografi girano il mondo senza sosta, vanificando gli appelli a una moda ecosostenibile; merce che approda nei negozi a ciclo continuo, tra sovrapproduzione di capi e mancato allineamento tra stagione commerciale e stagione climatica, con il risultato di restare spesso invenduta e generare pericolosi scarti da gestire.

Non è un mistero come molti (Giorgio Armani in testa) condannino da tempo tutto ciò, un sistema che fagocita ogni cosa, con ritmi sempre più serrati e insostenibili e nuova merce da dare in pasto a un mercato sempre più saturo.
Perfino lusso, alto di gamma e alta moda hanno spesso dimenticato i propri valori (qualità, durabilità, esclusività) per avvicinarsi – come ho detto – a un modello fast fashion nella speranza (o meglio nell’illusione) di vendere di più.

Io stessa, naturalmente nel mio piccolo, ho parlato varie volte di dette questioni, dalla delocalizzazione (qui) alla crisi di catene e negozi storici (qui) passando per l’illusione che alto di gamma sia sempre meglio di fast fashion (qui), dalle condizioni socialmente e ambientalmente insostenibili (qui) al gender gap (qui) passando per le sfilate-clamore che vanno oltre ogni limite di decenza (qui), giusto per citare alcuni argomenti dei quali ho provato a parlare negli anni.

Il problema, dunque, esisteva: il coronavirus ha spinto sull’acceleratore, facendo definitivamente esplodere le varie questioni in tutta la loro evidenza e gravità.

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Mario Dice FW 2020-21: bellezza ed emozione nella “Lettera a me stesso”

Qualche tempo fa, per un paio di stagioni consecutive, sono stata invitata alle sfilate di Mario Dice, designer di grande talento e fondatore dell’omonimo brand.

Mi sono innamorata del suo lavoro poi, lo scorso ottobre, in occasione dell’inaugurazione dell’Anno Accademico 2019/20, Accademia del Lusso – scuola nella quale insegno – ha invitato e ospitato Mario anche perché, prima di dare vita alla sua Maison, lo stilista ha fatto un percorso di tutto rispetto basato su collaborazioni di alto profilo; risultava dunque perfetto per testimoniare come e quanto sia importante mantenere costantemente viva la fame di conoscenza, la curiosità intellettuale, la voglia di crescere e di migliorare – e io, quel giorno, mi sono innamorata di lui anche come persona.

Visto che, oltre a insegnare, in Accademia ho il piacere di essere anche collaboratrice di ADL Mag, il nostro magazine online, mi è stato chiesto di scrivere un articolo su di lui: con piacere, ho dunque cercato informazioni su di lui anche attraverso una piacevolissima chiacchierata che abbiamo intrattenuto a seguito dell’incontro con gli studenti.

E così che ho scoperto che, fin da giovanissimo, Mario ha manifestato una forte passione e inclinazione per la moda: l’occasione di entrare in questo mondo gli è arrivata grazie all’incontro con Kevin Carrigan, affermato professionista allora in carica presso Calvin Klein a New York.

A soli 14 anni, Dice si è in questo modo ritrovato a lavorare per un marchio celebre in tutto il mondo: questa esperienza ha segnato profondamente il suo percorso formativo, dandogli l’opportunità di sperimentarsi in diversi ambiti creativi e artistici. Leggi tutto

Louis Vuitton e NBA, la partnership e il baule per il Larry O’Brien Trophy

Louis Vuitton e la National Basketball Association (NBA) hanno annunciato una collaborazione pluriennale e la creazione del primo cofanetto rigido per contenere il Larry O’Brien Trophy, ovvero il trofeo assegnato dalla NBA.

L’annuncio è importante perché la collaborazione rappresenta il primo accordo che Louis Vuitton, Maison francese fondata nel lontano 1854, stringe con una lega sportiva nord-americana, anch’essa con un cammino storico iniziato nel 1946.

Realizzato a mano nel laboratorio LV di Asnières alle porte di Parigi, il cofanetto (che porta avanti la celeberrima expertise della Maison nell’ambito dei bauli) è rivestito dall’ormai iconica tela Monogram ed è decorato con le tradizionali rifiniture in ottone.

Il cofanetto, naturalmente realizzato su misura, ospiterà il Larry O’Brien Trophy con cui sarà premiata a giugno la squadra vincitrice del campionato NBA.

A raccontare la partnership è Michael Burke, Presidente e CEO di Louis Vuitton.

«Louis Vuitton e NBA sono icone e leader nel loro settore, dunque l’unione delle due promette momenti che daranno vita a ricordi storici. Louis Vuitton è stata a lungo associata ai trofei più ambiti del mondo e con questa collaborazione la tradizione continua: la vittoria viaggia in Louis Vuitton.»

Letteralmente, direi, e a fargli eco è Mark Tatum, Deputy Commissioner e Chief Operating Officer di NBA.

«Le finali NBA sono ricordate per giocatori iconici e performance memorabili che culminano con la presentazione del Larry O’Brien Trophy. La tradizione, il patrimonio e l’identità di Louis Vuitton creano una sinergia naturale con NBA e questa collaborazione è un modo speciale e unico per mostrare il nostro trofeo a tutti i fan del mondo.»

La partnership è stata annunciata in vista della NBA Paris Game 2020: presentata da beIN SPORTS, network globale di canali sportivi, la competizione si è tenuta venerdì 24 gennaio presso l’AccorHotels Arena di Parigi e ha visto le squadre degli Charlotte Hornets e dei Milwaukee Bucks giocare per la prima volta una partita di regular season in Francia, patria di Louis Vuitton.

NBA e Louis Vuitton scriveranno dunque insieme nuove storie legate a uno dei più simbolici trofei dello sport.

Inoltre, come parte della collaborazione con NBA, Louis Vuitton creerà un’annuale capsule collection in edizione limitata. Leggi tutto

Giambattista Valli x H&M, la designer collection 2019 è servita

Dalla collezione Giambattista Valli x H&M (ph. credit pagina Fb H&M)

Durante i miei corsi in Accademia del Lusso, parlo spesso agli studenti dei neologismi collegati all’evoluzione della moda.

Uno di tali neologismi è per esempio masstige: ancora una volta, è la lingua inglese a rivelarsi perfetta allo scopo di raccontare efficacemente e sinteticamente un fenomeno oggi particolarmente diffuso proprio in ambito moda.

Di cosa si tratta?

Il termine nasce dalla contrazione di mass market e prestige: descrive una particolare strategia di co-branding (ovvero l’unione di due o più marchi per lanciare un nuovo prodotto) che riprende le leve del marketing di lusso (tra cui valore estetico e qualitativo) abbassando però la leva del prezzo e spingendo piuttosto sul valore della percezione simbolica, ovvero sul richiamo e sul fascino esercitato da una determinata maison o da un determinato brand.

È quello che fa – e lo fa da parecchi anni, precisamente quindici – il colosso svedese H&M, proponendo una serie di collaborazioni con grandi nomi della moda: nata in Svezia nel lontano 1947 e specializzata in quel settore universalmente conosciuto come fast fashion, la catena si è specializzata nel portare il dream factor nel mass market attraverso una serie di limited edition presentate solitamente con cadenza annuale.

Fin dal 2004, H&M ha concretizzato la propria idea di masstige in una serie di collaborazioni con brand e stilisti del calibro di Karl Lagerfeld (2004), Stella McCartney (2005), Viktor & Rolf (2006), Roberto Cavalli (2007), Comme des Garçons (2008), Matthew Williamson (aprile 2009), Jimmy Choo (novembre 2009), Sonia Rykiel (dicembre 2009), Lanvin (novembre 2010), Versace (2011), Marni (marzo 2012), Maison Martin Margiela (novembre 2012), Isabel Marant (2013), Alexander Wang (2014), Balmain (2015), Kenzo (2016), Erdem (2017), Moschino (2018).

Seguo il fenomeno da vicino da anni, come cliente (lo ammetto) e come editor (qui nel blog trovate per esempio il mio articolo sulla collezione Balmain, con un risvolto imprevisto, e qui quello sulla collezione Moschino scritto invece per ADL Mag): attualmente sono in attesa della nuova collaborazione di H&M che sarà con il celeberrimo stilista Giambattista Valli.

Giambattista Valli ha lanciato il suo brand nel 2005 e ha tenuto la sua prima sfilata di prêt-à-porter a Parigi, la città in cui si è trasferito (da Roma) per realizzare il suo sogno: nel 2011 ha presentato la sua prima collezione di alta moda ed è diventato membro ufficiale della Chambre Syndicale de la Haute Couture, un privilegio riservato a pochissime maison con nomi del calibro di Chanel, Dior, Givenchy.

Il suo sogno si è così avverato: Giambattista Valli è diventato uno dei nomi più in vista del mondo della moda, meritatamente.

Lo stilista riesce infatti a proporre lusso e bellezza con un approccio nuovo: le sue creazioni raccontano una storia d’amore senza tempo, senza età, senza ostacoli. Leggi tutto

Belle (ri)scoperte che amo condividere: Musée Christian Dior a Granville

Durante il mese di agosto, in occasione delle vacanze, sono tornata in Bretagna e Normandia, due regioni francesi che amo immensamente e che, anche stavolta, sono state molto generose nei miei confronti regalandomi moltissimi spunti quanto a bellezza, conoscenza e cultura.

Attraverso un post recente ho condiviso la scoperta di un posto splendido che si chiama Petit Écho de la Mode e che si trova a Châtelaudren, cittadina situata nel dipartimento della Côtes-d’Armor in Bretagna: un tempo era la sede di un giornale dal titolo omonimo e oggi, grazie a un’opera di ristrutturazione molto intelligente e molto ben condotta, è un centro culturale polivalente che ruota attorno alla storia e alla tradizione di quella rivista.

Stavolta, desidero condividere la scoperta – o meglio la riscoperta – di un altro luogo di grande ispirazione in Normandia: si tratta della casa di infanzia di uno dei più grandi couturier di tutti i tempi e che ospita ora un museo proprio a lui dedicato.

Mi riferisco a Christian Dior che nacque a Granville il 21 gennaio 1905: la villa di famiglia in cui Monsieur Dior ha trascorso anni felici ospita oggi un museo nel quale io non tornavo dal 2012 e che quest’anno ho voluto nuovamente visitare.

Granville si affaccia sullo splendido golfo di Saint-Malo: la villa in cui si trova il Musée Christian Dior è costruita sul promontorio roccioso, con una vista mozzafiato, ed è circondata da un giardino incantevole.
È sempre bello tornare in questo luogo colmo di grazia e di pace: stagione dopo stagione, ospita tra l’altro mostre sempre diverse e che mirano a tenere costantemente vivo il ricordo nonché la straordinaria eredità del grande couturier. Leggi tutto

Quando la moda incontra la televisione: la nuova campagna di Moschino

Il web è in costante e continuo fermento e sono tanti i cambiamenti che stanno investendo la dimensione digitale e, conseguentemente, le nostre vite reali.
Un cambiamento, per esempio, riguarda Instagram: dopo l’esperimento in Canada, il social nasconde il numero dei ‘like’ anche in Italia per quanto il test, iniziato il 17 luglio, non è una decisione definitiva bensì una prova.
Lo scopo? «Vogliamo aiutare le persone a porre l’attenzione su foto e video condivisi e non su quanti ‘like’ ricevono»: così dice Tara Hopkins, Head of Public Policy EMEA di Instagram.
Da tempo, poi, si parla di bitcoin e criptovalute: pare che, nel 2020, Facebook lancerà la sua che si chiama Libra.
Si parla anche di blockchain nonché di maggior consapevolezza di noi consumatori circa sostenibilità ambientale e sociale, tutto spinto proprio dai maggiori strumenti offerti dal digitale.
Probabilmente, i pessimisti metterebbero invece sul piatto della bilancia argomenti come hater, stalker, cyber bullismo, hacker: tutto vero, per carità, tutto esistente.
Eppure, da eterna ottimista quale sono, da buona immigrata digitale nata nell’era dell’analogico ma oggi a tutti gli effetti residente digitale (quasi al pari dei nativi digitali ovvero Millennials e Generazione Z), nel web io vedo da sempre un’immensa opportunità; dunque, il mio piatto propende inesorabilmente dalla parte dell’ottimismo.
Non credo che il mio ottimismo mi porti a essere ingenua: proprio in questi giorni leggevo che, per la prima volta nella storia, nel 2021 la pubblicità via Internet rappresenterà oltre la metà di quella totale.
A dirlo è lo studio Advertising Expenditure Forecasts di Zenith (fonte illustre) secondo cui gli adv sul web, entro due anni, rappresenteranno il 52% della spesa pubblicitaria globale, contro il 44% del 2018 e il 47% previsto per il 2019.
Da anni spiego ai miei studenti come proprio pubblicità e comunicazione si stiano progressivamente e sempre più velocemente spostando, passando da offline (stampa, radio, tv, affissioni) a online (tutto il sistema del web).
La moda è tra i settori all’avanguardia in tale migrazione: per sua stessa essenza, quella di interpretare e raccontare i tempi strizzando l’occhio al futuro, la moda è sempre stata capace di cavalcare e spesso anticipare cambiamenti ed evoluzioni. Leggi tutto

Millennials, Generation Z e la mostra sui Preraffaelliti a Milano

Nelle ultime settimane ho avuto la bella opportunità di partecipare a parecchie anteprime stampa per il lancio di una serie di mostre: Milano sta offrendo una scelta davvero ampia quanto ad arte, moda e costume e chiedo venia a voi, miei amati lettori, se riesco solo ora a scrivere di una delle esposizioni più belle, inaugurata lo scorso 19 giugno nella splendida cornice di Palazzo Reale.

Mi riferisco a Preraffaelliti – Amore e Desiderio che vede in mostra i capolavori della collezione preraffaellita della Tate di Londra, inclusa la celeberrima Ofelia di John Everett Millais.

La mostra, promossa e prodotta dal Comune di Milano-Cultura, Palazzo Reale, 24 ORE Cultura-Gruppo 24 ORE, è appunto organizzata in collaborazione con la Tate ed è curata da Carol Jacobi, responsabile della sezione British Art 1850 – 1915 della celebre istituzione britannica; in relazione al rapporto dei Preraffaelliti con l’Italia, la mostra si avvale inoltre del prezioso contributo scientifico della storica Maria Teresa Benedetti.

Preraffaelliti – Amore e Desiderio rende così possibile ammirare nel capoluogo meneghino circa 80 opere tra le quali alcuni dipinti iconici che difficilmente escono dal Regno Unito per essere prestati, come appunto la già citata Ofelia e poi Amore d’aprile di Arthur Hughes e Lady of Shalott di John William Waterhouse.

L’esposizione di Palazzo Reale, aperta al pubblico fino al 6 ottobre 2019, rivela a noi spettatori l’universo d’arte e di valori dei 18 artisti preraffaelliti rappresentati, raccontando tutta la poetica del movimento attraverso i capolavori della collezione Tate: dall’amore e dal desiderio citati già nel titolo fino alla natura e alla sua fedele riproduzione, per poi passare dalle storie medievali, la poesia, il mito e la bellezza in tutte le sue forme.

Avrete forse fatto caso al titolo che ho dato a questo post, ovvero Millennials, Generation Z e la mostra sui Preraffaelliti a Milano: sono molto felice se vi siete chiesti il perché di tale scelta.

A prescindere dal fatto che non mi piacciono i compartimenti stagni e che sono fermamente convinta del fatto che un evento culturale debba essere inclusivo e debba parlare a un pubblico il più possibile ampio, perché sostengo che proprio i più giovani dovrebbero essere particolarmente interessati a questa mostra? Leggi tutto

La moda proibita, Roberto Capucci e il futuro dell’Alta Moda – film da amare

Un mio scatto alla proiezione del docu-film ‘La moda proibita, Roberto Capucci’ alla Galleria Campari, 26 giugno 2019

Grazie alle mie diverse attività in ambito moda, ho avuto negli anni il grande onore di incontrare di persona diverse figure (soprattutto stilisti e poi alcuni studiosi e giornalisti) che considero icone e modelli.
Tra queste figure c’è Roberto Capucci e ricordo che quando mi ritrovai davanti a lui, a sorpresa e in maniera del tutto inaspettata, ebbi una reazione per me strana: ammutolii, perdendo letteralmente la parola. Sì, io che sono una gran chiacchierona non fui capace di dirgli o chiedergli nulla.
Questo perché ero (e sono) conscia di essermi trovata al cospetto non solo di una autentica icona, ma anche di uno stilista assolutamente unico e che non ha alcun paragone.

L’incontro avvenne in febbraio 2015, precisamente il 26 febbraio: unendo passato, presente e futuro e accostandosi, a 85 anni (!), al prêt-à-porter con un progetto 100% Made in Italy, il Maestro aveva designato Cinzia Minghetti alla direzione di una squadra di giovani creativi chiamati a interpretare in chiave contemporanea lo spirito e l’estetica delle sue opere.

L’inestimabile valore dell’archivio Capucci (che comprende circa 22.000 schizzi originali) e il desiderio di rendere il tutto fruibile e, ripeto, contemporaneo: sono questi i due elementi che avevano condotto la maison a decidere di presentare una collezione prêt-à-porter per l’autunno / inverno 2015-2016.

Ero andata alla presentazione colma di curiosità ma non pensando – chissà poi perché – di trovarmi davanti il Maestro in persona: che stupidina, pensavo forse che lui avrebbe rinunciato a essere presente a un evento tanto particolare?

La risposta è no, naturalmente, ma io mi ritrovai tanto emozionata davanti ai capi e davanti a lui da non riuscire nemmeno a rivolgergli la parola, come ho già confessato, limitandomi poi a scrivere un post entusiasta per il blog (e mangiandomi tuttora le mani per l’occasione persa).

E se mi mangio ancora le mani è perché Roberto Capucci, classe 1930 (il 2 dicembre compirà 89 anni), non è uno stilista come gli altri: è un artista prestato all’alta moda o haute couture, precisamente uno scultore e in particolare uno scultore della seta, ovvero la materia che preferisce.

Capucci è l’inventore degli abiti-scultura, quei capolavori in tessuto modellati come opere d’arte che continuano a essere esposti nei musei di tutto il mondo perché sono il trionfo del talento e della capacità in ogni loro singolo risvolto, anche letteralmente: nella scelta dei tessuti, nello studio delle forme scultoree, nella maniacale cura delle lavorazioni (dal plissé alle sovrapposizioni), nella ricerca unica dei colori, usati in gradazione o a contrasto con un gusto cosmopolita, spesso più orientale (e nello specifico indiano) piuttosto che italiano ed europeo. Leggi tutto

The Fashion Experience Milano, conoscere la verità su ciò che indossiamo

Recentemente, dopo aver visto “Fashion Victims”, il docu-film girato da Chiara K. Cattaneo e Alessandro Brasile e proiettato a Milano grazie all’organizzazione Fashion Revolution, ho deciso di farmi carico di un impegno ben preciso.

Il documentario è ambientato nel Tamil Nadu, ovvero uno dei 29 stati che compongono l’India: questo stato si trova nel sud del Paese e qui milioni di adolescenti e di giovani donne lavorano nell’industria tessile, dalla filatura alla tessitura del cotone fino alla confezione di capi di abbigliamento, per il mercato locale e internazionale.

Mentre guardavo quelle giovanissime donne che vivono in condizioni di quasi schiavitù (in realtà poco più che bambine e alcune della stessa età di mia nipote, 11 anni), ho sentito che il torrente che cercavo da tempo e in qualche modo di arginare si è trasformato in un fiume in piena: purtroppo, nella moda che tanto amo (e nel sistema moda del quale sono membro in qualità di editor e docente di editoria) c’è un evidente problema che fa diventare incubo ciò che dovrebbe essere sogno.
Ed è un incubo per quelle ragazze, certo, ma anche per tutti coloro che – come me – credono nella moda come in qualcosa che va o che dovrebbe andare oltre il profitto e che invece causa sofferenza e, in alcuni casi, addirittura morte.

Dalla dolorosa esperienza della visione di “Fashion Victims” è nato un lungo post pubblicato qui nel blog (non il mio primo su tale argomento ma sicuramente il più deciso finora): visto che è un argomento al quale tengo molto e sul quale non ho alcuna intenzione di arrendermi, ho preso l’impegno con me stessa e con chi mi fa il dono di leggere ciò che scrivo di continuare a parlare di etica e sostenibilità in ambito moda.

Ringrazio pertanto ADL Mag (il magazine della scuola in cui insegno) e soprattutto Barbara Sordi, la nostra direttrice, per avermi dato l’opportunità di parlare nuovamente del documentario e di Fashion Revolution in un secondo articolo, con una sfaccettatura diversa rispetto a quanto avessi appunto già fatto qui nel blog e un taglio meno emozionale ma spero altrettanto deciso e incisivo.

Oggi torno nuovamente a parlare di moda etica e sostenibile grazie a Mani Tese: dal 21 al 30 giugno a Milano, la ONG (organizzazione non governativa) che da oltre 50 anni si batte per la giustizia nel mondo offre a noi tutti l’opportunità di partecipare a THE FASHION EXPERIENCE, un’esperienza interattiva che ci permette di scoprire ciò che si nasconde dietro gli indumenti che indossiamo tutti i giorni.

«L’obiettivo di THE FASHION EXPERIENCE è quello di diffondere la consapevolezza sui rischi sociali e ambientali della cosiddetta Fast Fashion – dichiara Giosuè De Salvo, Responsabile Advocacy, Educazione e Campagne di Mani Tese – promuovendo modelli o processi d’impresa che siano in grado di assicurare, da una parte, il rispetto dei diritti delle persone che lavorano lungo la filiera globale dell’abbigliamento e, dall’altra, di proteggere risorse naturali fondamentali quali fiumi, mari e terre fertili.» Leggi tutto

Perché dico sì alla mostra su Banksy al Mudec di Milano

Quando lo scorso 20 novembre sono stata al MUDEC per la conferenza stampa e l’anteprima della mostra dedicata a Banksy, mi sono bastati pochi istanti per innamorarmi del progetto messo in piedi dal Museo delle Culture di Milano.

Artista e writer britannico la cui identità rimane tuttora nascosta, Banksy è considerato uno dei maggiori esponenti della street art contemporanea: la sua protesta visiva riesce a coinvolgere un vastissimo ed eterogeneo pubblico e ne fa uno degli artisti più amati dalle giovani generazioni – e non solo.

Le sue opere sono infatti spesso connotate da uno sfondo satirico e trattano argomenti come la politica, la cultura e l’etica: l’alone di mistero che, per scelta e per necessità, si autoalimenta quando si parla della sua figura lo fa diventare un vero e proprio mito dei nostri tempi.

Su di lui sono già state organizzate diverse mostre presso gallerie d’arte e spazi espositivi, ma mai un museo pubblico italiano – o estero – ha finora ospitato una sua monografica, con la sola eccezione di quella organizzata dall’artista stesso al Bristol Museum nel 2009.

Con l’evento che resterà in cartellone fino al 14 aprile 2019, il MUDEC ospita un’importante retrospettiva: è corretto segnalare che si tratta di una mostra non autorizzata dall’artista, come tutte quelle a lui dedicate, in quanto Banksy continua a difendere non solo il proprio anonimato, ma anche la propria indipendenza dal cosiddetto sistema. Leggi tutto

Gender gap vs women empowerment: la moda non è un lavoro per donne?

È da un bel po’ (precisamente da qualche mese) che medito sul contenuto di un articolo di Pambianco.

Dovete sapere che detta rivista è una delle mie preferite e che non manca mai tra le letture quotidiane: dunque, se intitola un articolo ‘Allarme gender gap, la moda non è un lavoro per donne’, ecco che Pambianco attira immediatamente la mia attenzione anche perché si tratta di un argomento che mi sta particolarmente a cuore.

Cosa sostiene l’autorevole magazine nell’articolo datato 22 maggio?

Viene citato uno studio intitolato ‘The glass runway’, redatto dal Council of Fashion Designers of America (CFDA), Glamour e McKinsey & Company: in questo studio si afferma che, sebbene le donne rappresentino l’85% delle laureate presso i principali istituti di moda americani, i ruoli chiave ricoperti da nomi femminili sono ben pochi.

Il mondo della moda – rincara la dose Pambianco – ha recentemente mostrato interesse per le diversità di orientamento sessuale e di taglia, ma non abbastanza per il gender gap.

Con gender gap si intende l’insieme di tutte quelle differenze che si riscontrano a livello di condizioni economiche e sociali (dall’istruzione fino all’accesso al lavoro) e che influenzano la vita degli esseri umani in base al loro genere di appartenenza: in parole povere, parliamo di disparità di condizione tra uomini e donne.
E generalmente, quando si parla di gender gap, si tende (purtroppo) a osservare l’esistenza di maggiori penalizzazioni a sfavore delle donne rispetto agli uomini.

«Non ne parliamo molto perché c’è la sensazione che tutti ne siano già a conoscenza, ma a volte è necessario dire qualcosa affinché le persone non facciano finta sia un problema inesistente», ha dichiarato Diane von Fürstenberg, presidente dello stesso CFDA.

I dati contenuti nello studio ‘The glass runway’ sono alquanto desolanti. Leggi tutto

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