La Boccardi, perché consiglio il libro con la sua biografia

Vivere nel presente, guardando verso il futuro e conoscendo il passato: è questa la filosofia con la quale cerco di vivere.
Mi piace godere appieno e fino in fondo di ciò che vivo, giorno per giorno, con una proiezione e un pensiero verso ciò che vorrei, programmandolo grazie alla forza che – a mio avviso – tutti noi possiamo trarre dalle lezioni insite in ciò che è stato.
Credo dunque fortemente nel futuro e nella necessità del progresso e, allo stesso tempo, amo la tradizione.
Penso infatti che esistano valori assoluti e senza tempo che nemmeno progresso ed evoluzione dovrebbero cambiare.
Credo, in generale, nel duro lavoro e nel talento che ognuno di noi possiede e che si esprime in tanti modi; credo nello studio e nella curiosità intellettuale.
Per quanto riguarda nello specifico la moda, sono convinta che essa sia un potente linguaggio e che debba veicolare bellezza autentica.
Credo, che, come ogni linguaggio, abbia i suoi codici e che per padroneggiarla – e non esserne invece posseduti – occorra conoscere quei codici, come creatori e stilisti, come comunicatori e giornalisti, come clienti e fruitori.
Credo in quegli stilisti che sono prima di tutto sarti e che sanno costruire abiti veri e non solo operazioni fatte di clamore.
Credo in quei comunicatori e giornalisti che non sono solo presenzialisti e che hanno la voglia di raccontare davvero la moda.
Credo che tutti noi dovremmo essere clienti e fruitori che non si accontentano di trend e diktat, ma che cercano ciò che davvero li rappresenta per costruire un codice e un linguaggio che siano autentici.

In questo periodo, ho scritto (ancora una volta) di quanto io detesti il vuoto clamore (qui) nonché di quanto il cosiddetto sistema moda si trovi oggi ad affrontare importanti problemi (qui).
Riassumo il mio pensiero in un’unica frase: produciamo troppi vestiti, realizzati da troppi marchi spesso in maniera non sostenibile né socialmente né ambientalmente, venduti nella stagione sbagliata, infine scontati per fare spazio alla collezione successiva.
Ho scritto che le settimane della moda in versione digitale difficilmente potranno sostituire del tutto le sfilate in presenza perché la moda si nutre di tante sensazioni: come editor e blogger, ho sempre preferito vedere una sfilata dal vivo, da vicino, proprio per poter godere della parte sensoriale, il movimento di un abito, la caduta, il fruscio del tessuto, la luce e le ombre.
Senza considerare il fattore umano: le settimane della moda non sono solo il momento della passerella, sono altrettanto importanti (se non di più…) le interazioni che si svolgono oltre la passerella, gli incontri con i designer e con tutta una serie di figure come giornalisti, fotografi, buyer, incontri che garantiscono confronti interessanti e costruttivi. E, proprio per questo, ho sempre amato anche press day e presentazioni stampa, per la possibilità di toccare un tessuto, accarezzarlo, parlare con uno stilista, ascoltare la sua voce, farmi trasportare mentre racconta la genesi di una collezione. Leggi tutto

DressYouCan ospita House of Mua Mua: a Milano, moda e charity per YPAC Bali

Quest’anno, per Natale, ho deciso di dare un taglio particolare ai miei consigli / non consigli per regali diversi: così, dopo aver parlato del progetto YOUth (qui) e di Una Culla per la Vita by Buzzi Onlus (qui) nonché de Il Mondo di Allegra (qui – via Instagram), oggi chiudo il cerchio tornando nuovamente a parlare di impegno sociale con l’iniziativa intrapresa da DressYouCan insieme a House of Mua Mua.

Fino al 24 dicembre, l’atelier milanese di DressYouCan, interessante realtà di fashion renting, ospita infatti una speciale vendita natalizia in collaborazione con House of Mua Mua, il brand fondato da Ludovica Virga: niente noleggio, stavolta, ma acquisti per una buona causa, ovvero sostenere l’associazione YPAC di Bali, scuola residenziale per bambini con disabilità fondata nel 1975.

Nel negozio di via Gian Giacomo Mora, a due passi dalle Colonne di San Lorenzo, oltre alle irriverenti creazioni moda del brand di Ludovica, sarà possibile acquistare anche le sue Mua Mua Dolls (che vedete qui sopra), creazioni che nascono dalle mani di donne e anziani balinesi: sono simpatiche (e ironiche) bambole, fatte all’uncinetto e cucite a mano, che rappresentano volti noti e icone della moda come Coco Chanel, Anna Wintour, Franca Sozzani e Karl Lagerfeld.

Da sempre House of Mua Mua ha a cuore Bali ed è proprio lì che, nel 2006, è nato il marchio: Ludovica, designer e mente creativa, decide di produrre bamboline realizzate all’uncinetto dagli abitanti dell’isola rimasti senza lavoro a causa di un turismo sempre più in crisi dopo lo tsunami del 2004.

Oggi House of Mua Mua è diventato un brand di ready-to-wear e accessori donna rivenduto nei più importanti concept store ed e-commerce di tutto il mondo e ha conquistato anche numerose celebrità internazionali per il suo spirito ironico e irriverente e – non ultimo – per il risvolto umanitario.

È dunque un’ottima occasione per fare del bene e anche per scegliere un dono natalizio che farà sicuramente piacere a tutte le appassionate di moda: DressYouCan è l’unica realtà milanese a ospitare House of Mua Mua, proponendo sconti fino all’86% e parte del ricavato sarà devoluto a sostegno di YPAC.

Io ci faccio un salto…

Manu

 

Se volete approfondire…

Come vi ho già raccontato, House of Mua Mua nasce nel 2006: Ludovica Virga, designer e mente creativa, decide di produrre bamboline realizzate all’uncinetto dagli abitanti dell’isola rimasti senza lavoro a causa di un turismo sempre più in crisi dopo lo tsunami del 2004. La prima creazione di Ludovica, per tutti Luvilu, nasce come regalo per un caro amico.
Il successo arriva nel 2009 quando, durante una sfilata Chanel a Venezia, Ludovica incontra Karl Lagerfeld e gli fa dono di una Mua Mua doll con le fattezze del Kaiser della Moda il quale inizia poi una collaborazione con la designer italiana: nel 2012, le commissiona più di 500 bambole da vendere nei negozi Lagerfeld.
Il  successo è immediato e Mua Mua diventa un marchio conosciuto dagli addetti ai lavori: la famiglia di bamboline all’uncinetto si arricchisce di nuovi personaggi tra i quali Anna Wintour, Coco Chanel, Franca Sozzani, Lady Gaga.
Oggi, grazie alla creatività di Luvilu e alla sua visione ironica del mondo della moda, House of Mua Mua è diventato un marchio venduto nei concept store ed e-commerce di tutto il mondo: le creazioni spaziano dalle iconiche bambole a divertenti t-shirt oltre a una linea di accessori che ha conquistato celebrità e it-girl internazionali.
Ma House of Mua Mua continua a essere anche una realtà con uno spiccato aspetto umano: ogni bambola viene infatti realizzata a Bali in zone rurali dove abitano donne e anziani che vivono in condizioni difficili, mentre parte del ricavato della vendita della collezione viene donato a una scuola a Sumbawa per aiutare e sostenere l’istruzione femminile.
Qui trovate il sito e qui trovate l’account Instagram.

Lo showroom DressYouCan ha sede a Milano a due passi dal Duomo, davanti alle Colonne di San Lorenzo e precisamente in Corso di Porta Ticinese angolo Via Mora.
La fondatrice è Cristina che lo gestisce insieme a Priscilla e Gloria: il negozio, con ingresso libero, è aperto 6 giorni su 7 (lunedì 13.30-19.30; martedì-sabato 10.30-13-30; 14.30-19.30).
È come se fosse un armadio infinito poiché è possibile noleggiare abiti, scarpe e borse per comporre outfit per occasioni speciali, da un cocktail party a un matrimonio, inclusa la possibilità di noleggiare un abito da sposa!
Qui trovate il sito, qui trovate l’account Instagram.

YPAC è una scuola residenziale per bambini con disabilità: è stata fondata nel 1975 da Nyonya Sukarmen, moglie dell’allora governatore di Bali.
Nel 1981 la scuola è stata ufficialmente riconosciuta dal governo indonesiano: ospita bambini e ragazzi di entrambi i sessi, di età varia e con vari tipi di disabilità.
Qui trovate il gruppo Facebook che fa capo alla scuola e qui trovate l’account Instagram.

Gender gap vs women empowerment: la moda non è un lavoro per donne?

È da un bel po’ (precisamente da qualche mese) che medito sul contenuto di un articolo di Pambianco.

Dovete sapere che detta rivista è una delle mie preferite e che non manca mai tra le letture quotidiane: dunque, se intitola un articolo ‘Allarme gender gap, la moda non è un lavoro per donne’, ecco che Pambianco attira immediatamente la mia attenzione anche perché si tratta di un argomento che mi sta particolarmente a cuore.

Cosa sostiene l’autorevole magazine nell’articolo datato 22 maggio?

Viene citato uno studio intitolato ‘The glass runway’, redatto dal Council of Fashion Designers of America (CFDA), Glamour e McKinsey & Company: in questo studio si afferma che, sebbene le donne rappresentino l’85% delle laureate presso i principali istituti di moda americani, i ruoli chiave ricoperti da nomi femminili sono ben pochi.

Il mondo della moda – rincara la dose Pambianco – ha recentemente mostrato interesse per le diversità di orientamento sessuale e di taglia, ma non abbastanza per il gender gap.

Con gender gap si intende l’insieme di tutte quelle differenze che si riscontrano a livello di condizioni economiche e sociali (dall’istruzione fino all’accesso al lavoro) e che influenzano la vita degli esseri umani in base al loro genere di appartenenza: in parole povere, parliamo di disparità di condizione tra uomini e donne.
E generalmente, quando si parla di gender gap, si tende (purtroppo) a osservare l’esistenza di maggiori penalizzazioni a sfavore delle donne rispetto agli uomini.

«Non ne parliamo molto perché c’è la sensazione che tutti ne siano già a conoscenza, ma a volte è necessario dire qualcosa affinché le persone non facciano finta sia un problema inesistente», ha dichiarato Diane von Fürstenberg, presidente dello stesso CFDA.

I dati contenuti nello studio ‘The glass runway’ sono alquanto desolanti. Leggi tutto

Felice di piacervi e non, parola di Franca Sozzani

Non so mentire: provavo una simpatia alquanto tiepida nei confronti di Franca Sozzani.

A non farmi sentire a mio agio – io eternamente scomposta e con infinite imperfezioni – era in parte la sua aria eterea, il suo aspetto quasi serafico: sembrava sempre essere appena uscita da un quadro, i capelli (lunghissimi e ondulati) e lo sguardo mi ricordavano immancabilmente la perfezione della Venere di Botticelli.

Insultatemi pure, pensate pure che io sia poco delicata a scrivere tali pensieri a pochi giorni dalla sua dipartita: non posso darvi torto, eppure preferisco essere sincera.
D’altro canto, mi sembra altrettanto sconveniente l’atteggiamento di chi oggi la osanna quando alcune di quelle stesse persone si sono scatenate giusto poco tempo fa in una ridda di commenti caustici a proposito del docu-film Franca: Chaos and Creation girato dal figlio Francesco Carrozzini.
Ciò avveniva quando pochissimi sapevano della malattia che l’ha portata via il 22 dicembre: oggi quel lavoro appare come un omaggio e un saluto, eppure ricordo bene Facebook pieno di battutine sarcastiche perché purtroppo (purtroppo, sì) godo di buona memoria.

Credo che di questo stridente contrasto tra il prima e il dopo sorriderebbe lei per prima, visto che non teneva affatto né a piacere a tutti né a essere simpatica a tutti, come scrisse molto chiaramente in un post datato 22 luglio 2010 dal quale è presa la foto qui sopra e che è apparso nel suo frequentatissimo Blog del Direttore.
«Non si può sempre piacere a tutti e soprattutto non si deve»: così scrisse in tale occasione e dunque sono certa che sorriderebbe anche della mia tiepida simpatia per poi infischiarsene.
Giustamente e senza perdere la sua solita classe, naturalmente.

Franca Sozzani ha fatto tanto per la moda e questo è un dato inconfutabile che va ben oltre qualsiasi simpatia, antipatia o sarcasmo.

Non si mette minimamente in discussione e non servono certo le mie parole a ricordare tutto ciò che ha fatto. Anzi, a tal proposito, vi invito a leggere l’articolo di Antonio Mancinelli per Marie Claire, decisamente quanto di meglio io abbia letto, oppure il ricordo firmato da Anna Wintour, inossidabile direttrice di Vogue USA.
Quindi, pur non avendo alcuna intenzione di esibirmi in dichiarazioni di simpatia postuma (che nel mio caso sarebbero ipocrite considerando ciò che ho confessato), scrivo queste righe di stima e commiato con slancio spontaneo e sincero, per dire grazie a Franca Sozzani per almeno quattro buoni motivi.

Il primo motivo è, signora Sozzani, proprio ciò che lei ha fatto.
Vogue ha un grande peso nella formazione di ogni appassionato e/o professionista di moda che si rispetti e lei ha dedicato a Vogue Italia – una delle edizioni più belle a livello mondiale – ben 28 dei suoi 66 anni di vita. Dal 1988 a oggi, con coraggio e passione. E con successo.
Questo è qualcosa che solo un’ingrata o una stupida o una folle potrebbe non riconoscerle. Sarebbe una pessima dimostrazione di ignoranza e arroganza.
Dunque, ecco il mio primo grazie.

Il secondo motivo è l’importanza che lei ha dato al talento, parola, idea, concetto che tanto amo a mia volta.
Lei, signora Sozzani, ha supportato molti professionisti della moda decretandone il successo; dicono che abbia allo stesso modo decretato l’insuccesso di altri e di questo qualcuno gliene fa una colpa.
Non sono d’accordo con accuse di questo tipo: dire di a tutti sarebbe insensato quanto sbagliato e dire dei no comporta un prezzo da pagare. Lei ha accettato di pagarlo e anche per questo le dico un altro grazie, perché la sincerità e la fedeltà a noi stessi e alle nostre idee è fondamentale e irrinunciabile.

Il terzo motivo è che, oltre al talento, lei credeva nell’impegno e nel duro lavoro.
Una come me che crede ciecamente che impegno, studio e lavoro siano valori assoluti non può che dirle un ennesimo grazie.

Il quarto motivo è proprio quel suo coraggio di non voler piacere a tutti.
Viviamo in un’epoca in cui molti (troppi) vogliono piacere a più persone possibili raccogliendo qualunque consenso; vivo in un ambiente – lo stesso, quello della moda – in cui tutto ciò è ancor più enfatizzato e nel quale molti (troppi) giocano ancor di più a fare i piacioni (ma sì, uso questa espressione). In una simile epoca e in un simile ambiente, il suo atteggiamento assumeva ancora più importanza. Era quasi rivoluzionario.
E allora le dico l’ultimo grazie, signora Sozzani, a titolo estremamente personale, perché l’esempio di una persona così importante come lei dà forza a me – nel mio piccolo e con le dovute proporzioni – per continuare a pensare che non sbaglio nel portare avanti a mia volta lo stesso atteggiamento.

Ho iniziato il post scrivendo di non nutrire simpatia particolare per lei: arrivata a questo punto, mi rendo conto che provavo e provo per lei un grande rispetto.
Chino la testa davanti al fatto che se ne sia andata con discrezione e in silenzio, senza rendere pubblico il male che la stava consumando.
E sono sinceramente colpita dai ricordi di molte persone che l’hanno conosciuta e che testimoniano come lei non facesse mai mancare qualche parola gentile alle sfilate o come non mancasse di spronare a coltivare il talento e a inseguire i sogni, in qualunque campo essi fossero: sono racconti che la dipingono come persona di buona carica umana, in barba all’impressione di distacco che suggeriva invece a me.

Chissà, se avessi avuto l’opportunità di intrattenermi con lei, forse avrei superato l’imbarazzo che la sua figura mi incuteva: mi rimarrà il rammarico che tale opportunità non ci sia stata.

E allora, con grande sincerità, le auguro buon viaggio, cara Franca.

Manu

Donne e politica: Hillary Clinton & Co… la moda è una cosa seria?

Donne.

Donne, politica.

Donne, politica, potere.

Donne, politica, potere, moda.

È così che, molto spesso, mi metto in testa certe idee. Parto da una parola, ne aggiungo un’altra e poi un’altra ancora. Nasce una fila (quasi) ordinata e, infine, metto a fuoco un pensiero.

In genere, c’è qualcosa che, in principio, cattura la mia attenzione, magari un fatto che sembra piccolo e isolato. Poi ne metto vicino un altro. Un altro ancora. Ed ecco che nasce un post per il blog, uno di quelli che di solito chiamo pensieri in ordine (quasi) sparso.

Credo che la suggestione alla base della sequenza donne, politica, potere, moda sia iniziata quando ho scritto il post sulla Brexit e sul referendum dello scorso 23 giugno, quello che sta conducendo all’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea.

Tra i tanti personaggi presenti in quel post, ho citato Margaret Thatcher e il primo referendum che ci fu nel 1975 nel Regno Unito per decidere se continuare a far parte dell’UE: il 67,2% per cento dei partecipanti votò per restare. Quell’anno, la Lady di Ferro, che divenne poi primo ministro nel 1979, sostenne la campagna per la permanenza della Comunità Europea: per correttezza e completezza d’informazione, occorre precisare che le sue posizioni europeiste cambiarono nel corso dei suoi mandati.

L’episodio che mi ha fatto pensare al suo rapporto con la moda accadde proprio in quel periodo.

A una manifestazione a favore del sì, la Thatcher indossò infatti un maglione diventato famoso come la maglia “9 bandiere”: di lana e a maniche lunghe, nero sulle maniche e sulla schiena, recava sul davanti le bandiere dei Paesi che facevano parte della Comunità Europea nel ’75, ovvero Belgio, Danimarca, Francia, Irlanda, Italia, Germania Ovest, Lussemburgo, Paesi Bassi e Regno Unito. Leggi tutto

A loving tribute to the great photographer Bill Cunningham

Bill Cunningham alla sua scrivania nella redazione del New York Times

Ho saputo della morte di Bill Cunningham navigando su Instagram: era circa l’una di notte di sabato scorso, la notizia era appena trapelata e il social network si è rapidamente riempito di foto in suo ricordo.
Mi si è gelato il sangue perché quest’uomo di 87 ani era uno dei miei miti. Non solo per quanto riguarda la moda, ma molto più in generale.
Quella notte, ho spento la luce attorno alle tre: non mi davo pace e forse speravo fosse uno scherzo di pessimo gusto.
Non lo era e oggi, a distanza di una settimana, desidero rendere omaggio a questo grande uomo, un piccolo tributo un po’ più organizzato delle prime parole da me pubblicate su Instagram quella notte.

Sebbene non abbia bisogno di presentazioni – e tanto meno della mia – desidero raccontare alcune cose a proposito di Bill Cunningham.
Era nato nel 1929 ed è stato uno dei più famosi fotografi di moda americani: per 40 anni ha realizzato fotografie e ha commentato le nuove tendenze sia delle passerelle sia delle strade dalle pagine del New York Times.
Aveva iniziato la sua carriera disegnando e realizzando cappelli, una passione nutrita fin da bambino, poi iniziò a lavorare come giornalista di moda per Women’s Wear Daily (WWD) dove però litigò con il direttore John Fairchild su chi fosse il migliore stilista tra Yves Saint Laurent e André Courrèges. Fairchild propendeva per Saint Laurent e Mr. Cunningham volle mantenere la sua libertà: non accettò che gli fosse impedito di scrivere di Courrèges e dunque lasciò WWD.
In seguito, collaborò con il Chicago Tribune e con la rivista Details: nel 1966, il fotografo David Montgomery gli portò una macchina fotografica da pochi dollari dicendogli di usarla come se fosse un taccuino per appunti. Bill Cunningham lo prese in parola.
La collaborazione con il New York Times iniziò negli anni ’70 e nel 1978 ottenne una rubrica tutta sua: senza sapere chi fosse, fotografò una donna in strada. La donna aveva attirato la sua attenzione per una stola di pelliccia di nutria: era l’attrice Greta Garbo, allora 73enne, e quello scatto fu il punto di partenza della rubrica On the street.
Bill Cunningham era anche considerato un simbolo della città di New York: poteva infatti capitare di vederlo scattare foto ai passanti perché frequentava sì le sfilate e le cene di gala (alle quali si recava solo per lavorare e mai per prenderne parte, come racconta anche Jacob Bernstein in un bellissimo articolo per il New York Times) ma frequentava anche e soprattutto le strade cittadine dove fotografava chiunque indossasse qualcosa di bello.
Nel mondo della moda – un mondo bizzarro, occorre ammetterlo, e spesso con leggi tutte sue – era noto a tutti ed era molto apprezzato nonostante avesse un carattere schivo e vivesse in modo isolato, caratteristica che di solito non aiuta chi voglia lavorare in tale ambito.
Pensate che Anna Wintour, direttrice di Vogue, ha più volte detto “We all get dressed for Bill”, ovvero “Ci vestiamo pensando a Bill”. Lei, la temutissima imperatrice della moda.

Sul New York Times, Bill Cunningham aveva due rubriche, quella che ho già citato, ovvero On the Street, e Evening Hours.
La prima raccoglieva fotografie scattate per le strade di New York e assemblate in modo tale da mostrare le ultime tendenze da lui individuate; l’altra rubrica era invece dedicata alla vita mondana newyorkese. Leggi tutto

Brexit, i miei pensieri tra sogni europeisti e british icon

Brexit… Leave or Remain? That is the question! (credit NextQuotidiano)

Non sono un’esperta né di politica né di economia: cerco di seguire entrambe perché mi interessano, ma la verità è che le notizie connesse spesso mi lasciano perplessa o disorientata.
Sulle questioni sociali sono molto decisa: se si tratta di condannare tragedie come gli omicidi di genere o di schierarmi per garantire uguaglianza di diritti a tutti, sono determinata e inflessibile, mentre su tante questioni politiche ed economiche sono dubbiosa e mi è più difficile farmi un’opinione definitiva e prendere una posizione assoluta.

Tutti sanno che il 23 giugno il Regno Unito ha votato sulla Brexit, ovvero l’uscita dall’Unione Europea.
Tutti sanno anche quale sia stato l’esito del referendum: il Leave ha prevalso con il 51,9% dei voti. I britannici che hanno votato Leave sono stati 17.410.742; il fronte Remain ha ottenuto 16.141.241 voti.
La Scozia, l’Irlanda del Nord e Londra hanno votato largamente per il Remain; il Leave ha prevalso nel resto d’Inghilterra e in Galles. Insomma, altro che… regno unito!

In parole povere, sarà Brexit, ovvero il Regno Unito lascerà l’UE.
E, intanto, gli effetti – tutti negativi, al momento – si fanno sentire.
La sterlina è andata a picco, Borse e mercati finanziari sono andati in rosso in tutto il mondo. Da giovedì scorso, regna una sensazione di incertezza per il futuro, soprattutto in campo economico.
David Cameron, il primo ministro britannico, si è dimesso.
L’Europa sta rispondendo a muso duro: Jean-Claude Juncker, presidente della Commissione Europea, seguita a ribadire la volontà di iniziare immediatamente i negoziati con Londra (che temporeggia) in vista della Brexit.
Pare che Scozia e Irlanda del Nord siano decise a non seguire la maggioranza inglese nel divorzio da Bruxelles e si parla di referendum (in Scozia) per sancire il divorzio.
Intanto, i pentiti del Leave aumentano e qualcuno chiede che il referendum venga ripetuto.
È un bel disastro, insomma, un autentico terremoto che scuote non solo il Regno Unito e non solo l’Europa.

Ecco, questa è una di quelle questioni politiche ed economiche molto ingarbugliate e nella quale ci sono infinite variabili: lascio le analisi profonde a chi se ne intende, tuttavia vorrei esprimere tre pensieri abbastanza precisi, soprattutto dal punto di vista sociale e culturale. Leggi tutto

Stella Jean SS 2016 batte Kanye West mille a zero

Mi ero ripromessa di stare zitta, di tenere la mia boccaccia chiusa, ma non ce la faccio: oggi mi sono seduta qui alla scrivania con l’intenzione di scrivere un post a proposito della bellissima collezione Stella Jean SS 2016 e, mentre rinfrescavo la memoria rileggendo il comunicato stampa e mentre annuivo convinta davanti alla dichiarazione d’intenti della brava stilista, mi è tornato in mente l’episodio incriminato e, d’un tratto, mi sono resa conto che i margini cedevano rendendomi impossibile tacere.

A quale episodio mi riferisco? All’assai infelice espessione “migrant chic” pronunciata da Anna Wintour (temibile e temuta direttrice di Vogue, ovvero quella che è considerata la più autorevole rivista di moda statunitense e mondiale) per definire la collezione Yeezy Season 3 presentata dal rapper Kanye West.

Vi riassumo brevemente i fatti: la regina di Vogue, intervistata per un programma della televisione americana, si è lasciata scappare (o forse sono io che spero che le siano scappate…) quelle parole mentre raccontava la sua esperienza risalente allo scorso febbraio in occasione della sfilata-spettacolo del rapper (marito di Kim Kardashian) al Madison Square Garden di New York.

Inutile sottolineare che il web si è riempito di commenti al vetriolo e richieste di scuse a profughi e migranti che, a stento, riescono ad avere un cappotto per difendersi dal freddo; inutile dire come in molti abbiano definito vuoto e superficiale il mondo della moda (ma grazie Mrs. Wintour, ottimo lavoro).

La cosa peggiore è il fatto che lo show che ha presentato la collezione (una collaborazione tra Mr. West e l’artista Vanessa Beecroft con centinaia di persone tra comparse e modelli) era in effetti volutamente (!) ispirato a un campo profughi: come ha commentato qualcuno su Twitter “perdonare la collezione di Kanye e descriverla ‘migrant chic’ è totalmente inappropriato”.

Sapete una cosa? Sono d’accordo, completamente. Leggi tutto

Arrivano i Fashion Minions e vogliono conquistarci

Sicuramente è bastata l’immagine qui sopra per far sì che li abbiate riconosciuti: sono i Minions!
Ve lo confesso, io sto aspettando il 27 agosto, data nella quale uscirà in Italia il film che svelerà origini e futuro del gruppo di deliziosi e occhialuti esserini gialli che parlano una lingua tutta loro e in linea di massima incomprensibile se non per la chiarissima esclamazione “bananaaa!!!”.
Goffi, buffi e un filino cialtroni (sebbene simpaticamente), si fanno comunque capire perché tutto in loro è straordinariamente espressivo: i Minions hanno stregato grandi e piccini tanto che, quando mi regalano un pupazzo con le loro sembianze, sono felice (se non mi credete cliccate qui) e anche il fashion system strizza loro l’occhio (cliccate qui per vedere la notizia che avevo pubblicato mesi fa sulla pagina Facebook del blog).
Forse, vi state chiedendo cosa sia l’immagine qui sopra, una veste un po’ insolita anche se scommetto che facce e atteggiamenti sono familiari e vi ricordano qualcuno… Qualcuno che ha uno stretto rapporto con la moda…
L’idea è del sito Stylight e si basa sul fatto che i Minions hanno un sogno, ovvero lavorare per un cattivo: e se questo cattivo fosse la temutissima e potentissima Anna Wintour, direttrice dell’edizione statunitense di Vogue?
Sono nati così i Fashion Minions (o Minionistas dall’unione di Minions e fashionista): dalla già citata Anna Wintour alla top model Cara Delevingne con una delle sue smorfie dispettose, dalla it-girl Alexa Chung in versione bon ton, con tracolla Chanel, a vari stilisti tra i quali Karl Lagerfeld (con la sua ormai celeberrima gattina Choupette), Vivienne Westwood e Jean-Paul Gaultier. Non mancano alcuni blogger di fama internazionale.
Insomma, è amore tra la moda e le piccole creature: “Detesto il giallo, ma i Minions mi hanno fatto amare questo colore”, dichiara Alber Elbaz, direttore artistico della maison Lanvin, in un video (scherzoso) pubblicato su British Vogue. A proposito, amici di Stylight, noto che nella combriccola dei Fashion Minions manca proprio lo stilista: io rimedierei, anche perché, secondo me, Mr. Elbaz sarebbe irresistibile e strepitoso in tale versione 😉
Io, comunque, ho già scelto i miei preferiti: sono Jean-Paul Gautier, in marinière ovvero t-shirt a righe blu, e l’iconica Iris Apfel, con l’inconfondibile chioma bianca e i suoi immancabili gioielli.
La butto lì: a quando i pupazzi da stringere davvero? Vi immaginate poter stropicciare un po’ la sempre perfetta Anna Wintour?

Manu

I Fashion Minions su Stylight: qui. Il video Are The Minions Finally Gracing The Vogue Cover? di British Vogue: qui.

Visto che ho nominato la banane, qui trovate un mio post che le rapporta alla moda 😉

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