La scomparsa del grande Niki Lauda e le mie personali cicatrici…

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Subire un’ustione grave equivale a vivere un trauma che dura tutta la vita.
Non si guarisce mai del tutto, non passa mai del tutto, non se ne esce mai del tutto.
Si resta, per tutta la vita, dei sopravvissuti, feriti e segnati – irrimediabilmente – nel corpo e nella mente.

Sono stata vittima di un incidente gravissimo e che ha messo a serio rischio la mia vita: ero molto piccola all’epoca, eppure ho precisi ricordi nella mia mente, ricordi che mi piacerebbe non avere perché vedo una me in versione mini in un momento di quasi inenarrabile sofferenza…
Come quando mi tolsero il dolcevita di lana che indossavo: era inverno, purtroppo, e a me sembrò di andarmene via insieme alla lana intrisa di caffè bollente…
Come quando stavo in piedi nella vasca da bagno, impietrita dallo choc, mentre tentavano di darmi sollievo…
Come quando una notte ardevo di sete nella camera asettica dell’ospedale: nonostante l’estrema umanità del personale medico e infermieristico, nonostante l’immenso e disperato amore dei miei genitori, nonostante sforzi e tentativi… la mia gola bruciava, disidratata…
Non vado oltre e perdonatemi se ho condiviso dettagli tanto dolorosi.

Oggi, oltre ai ricordi, porto i segni permanenti, evidenti e indelebili delle ustioni di terzo grado, segni che – da adulta e dopo molte lotte interiori – non ho infine voluto cancellare: ho sempre pensato che, pur avendoli talvolta detestati profondamente, fanno parte di me e hanno contribuito a rendermi chi sono oggi.
Ho già scritto di tutto ciò in un’altra occasione (qui) e credevo di aver così detto quanto avessi da dire: in realtà, la vita ci sorprende sempre e, a volte, ci fa capire che cose che pensavamo di aver superato in realtà non lo sono – e forse non lo saranno mai del tutto.
La vita ci ricorda, insomma, ciò che ho affermato in principio: rimaniamo dei sopravvissuti rispetto ad alcuni eventi traumatici delle nostre vite.

Nel post che ho appena citato, ho scritto una frase che, a rileggerla oggi, mi colpisce profondamente, una frase riferita a mia mamma: «ha curato le cicatrici del mio corpo e ha impedito che si formassero sulla mia anima».
Mi riconosco profondamente in tali parole, le penso davvero ed è proprio così: intendevo dire che – grazie a mia mamma e a mio papà e a come mi hanno educata e cresciuta – non mi sono mai vergognata delle cicatrici, non sono diventate né un complesso né uno scoglio. A volte sono perfino riuscita a dimenticarle.
Ammetto però anche che il trauma, il dolore, la paura… beh, sono un’altra cosa. Sono tutta un’altra partita.

E ammetto che, in varie occasioni, ho appunto capito di avere conti in sospeso con le mie cicatrici esterne e con le paure.
Come quella volta in cui, guardando in tv un programma che ricostruiva un incidente simile al mio, sobbalzai indietreggiando e rannicchiandomi sulla sedia, con le ginocchia al petto, chiudendomi, lo stesso gesto istintivo fatto proprio quel giorno lontanissimo.
Come ogni volta in cui vedere un bambino vicino a un fornello e a una caffettiera (i colpevoli del mio incidente) mi provoca una sofferenza che posso definire fisica, a me che ho una soglia altissima di sopportazione del dolore…
E poi… c’è qualcosa che credo di aver confessato a pochissime persone: quando ero bambina, avevo il terrore di morire in un incendio, di notte. Non un terremoto o un incidente o un altro cataclisma: avevo paura di morire bruciata, il dolore più grande che avessi assaggiato su me stessa…

E ora, negli ultimi giorni, a riaprire le ferite è stata la scomparsa di Niki Lauda.

Com’è noto, Niki Lauda ha incarnato il ruolo di autentica leggenda della Formula 1 ed è stato tre volte campione del mondo.
Il 1° agosto 1976, al Gran Premio di Germania, sul pericoloso circuito del Nürburgring, ebbe il più grave incidente della sua carriera, incidente che gli ha lasciato gravi danni fisici e il volto sfigurato a vita.
Mostrando immenso coraggio, Lauda decise di tornare al volante dopo solo 42 giorni dall’incidente, al Gran Premio d’Italia: le sue condizioni erano ancora precarie e fu necessario modificargli il casco per cercare di limitare lo sfregamento sulle lesioni non ancora cicatrizzate.
Seppur martoriato da tali ferite e nonostante le palpebre danneggiate non gli offrissero una visione totalmente corretta, si classificò quarto dimostrando di che pasta fosse fatto – quella appunto di un immenso campione.

Non oso paragonare nemmeno lontanamente le mie sofferenze a quelle di Niki Lauda, non oso nemmeno immaginare il dolore di bruciare imprigionato in un’auto.
So però che per lui ho sempre provato una stima e un’ammirazione sconfinate e una vicinanza e un’affinità per esperienze non paragonabili, lo ribadisco, ma che in qualche modo purtroppo mi appartengono.
E so che lui era anche le sue cicatrici e le sue sofferenze, come me. Molto più di me.
Si dice che fosse poco emotivo e fortemente determinato: agli occhi di chi lo conosceva appariva quasi come un computer, un nomignolo che si è portato dietro per tutta la vita proprio per la freddezza in pista e per la rara capacità di individuare in pochi istanti e con assoluta precisione i difetti di una macchina.

Sapere che non c’è più, che è scomparso a 70 anni dopo aver tanto lottato e dopo aver subito negli anni due trapianti di rene e uno di polmone, che è scomparso dopo aver continuato a inanellare successi e realizzazioni (ma comunque sempre troppo presto, 70 anni oggi non sono sinonimo di vecchiaia), è un fatto che mi rende molto triste.

Grazie per il tuo coraggio e per la tua tenacia, caro Niki Lauda, grazie per aver vissuto la vita al massimo, senza farti fermare né dai danni fisici né dalla paura.
Grazie per aver però saputo ascoltare la paura quando era sensato e intelligente farlo, come nell’ottobre del 1976 in Giappone, sul circuito del Fuji, quando ti ritirasti sotto un autentico diluvio e perdesti il mondiale. Grazie perché, quella volta, avesti il coraggio di avere paura, tu che eri sopravvissuto all’orribile rogo di pochi mesi prima.
Grazie per essere stato per me un esempio di resistenza, resilienza e coraggio – ripeto questo termine – e per avermi dato l’opportunità, osservandoti e seguendoti negli anni, di fare altri passi, dolorosi quanto necessari, nel superamento del mio incidente.
Perché io, proprio come te, ho sempre voluto vivere e non solo sopravvivere (tra l’altro anch’io, una volta, sono scesa in pista, letteralmente, al fianco di una giovane e valorosa campionessa che si chiama Michela Cerruti); dunque ho sempre preferito affrontare apertamente i miei fantasmi.
E capisco benissimo, sai, perché tu dovessi essere tanto freddo da apparire a qualcuno come un computer.

E ora, riposa in pace, Niki Lauda, mio amato campione: ti auguro davvero con tutta me stessa e con tutto il cuore che la terra ti sia lieve, ti auguro di volare libero e leggero come il soffione che desidero idealmente donarti…

Ho detto in altre occasioni come io creda che la scrittura sia talvolta anche una forma di autoterapia.
In questo post, la scrittura ha due declinazioni: la prima coincide con un atto di stima verso un uomo che è stato un simbolo per me e per moltissime persone; la seconda coincide con una seduta di autoanalisi, ebbene sì.
Torno a chiedere perdono a voi, miei cari lettori, per avervi coinvolti.

Manu

Lancia Ypsilon My Stories, i volti inediti delle città europee

Ci sono molte passioni nella mia vita e ne sono felice: sono convinta che sia l’intensità di sentimenti, amori e interessi a tenerci vivi.

Alcune delle mie passioni sono tanto forti da assomigliare a malattie, come per esempio quella per la moda e infatti affermo sempre, prendendomi un po’ in giro da sola, che la moda è una malattia con la quale sono nata. Anche i viaggi e il cinema sono amori di lungo corso.

I soldi che ho investito nei viaggi sono quelli che non mi sono mai pentita di aver speso e pensate che non posso fare un’affermazione simile nemmeno per quanto riguarda la moda: mi è infatti capitato di essermi pentita di qualche acquisto, un abito, un paio di scarpe, una borsa. Coi viaggi, invece, non mi è mai successo: non ho avuto nessun ripensamento o pentimento, mai.

Se chiudo gli occhi, centinaia di ricordi dei luoghi in cui sono stata si affollano dietro le mie palpebre sotto forma di immagini, esattamente come se stessi seduta nella sala di un cinema.

Alcune immagini riguardano le città che ho visitato e in cui mi piacerebbe vivere: penso subito a Parigi, Londra, Barcellona, Berlino, Stoccolma, New York, Sydney. Ci sono anche città che mi hanno lasciata perplessa, come Shanghai e Taipei, luoghi in cui ho amato qualcosa e detestato altro. Ci sono paesi cui sono stata moltissime volte e in cui mi sento a casa, come Spagna, Grecia, Francia. Sogno di tornare in Turchia e in Egitto: Istanbul mi rubò il cuore molti anni fa, altrettanto avvenne con Abu Simbel e coi templi di Luxor, Karnak e Philae. Per non parlare della luce all’ora del tramonto durante la navigazione sul Nilo. Leggi tutto

Se la Ypsilon ELLE mi fa riflettere ben oltre i motori

Talvolta, quando vado a un evento o a una presentazione, non riesco a metterli subito a fuoco pur trovandoli interessanti: si accende una spia luminosa e sento che c’è dell’altro, ma non riesco a trovare il bandolo della matassa, non riesco a capire cosa ci sia oltre il primo messaggio evidente. Credo capiti un po’ a tutti noi, magari dopo aver letto un libro, visto un film oppure dopo aver fatto un discorso con un amico.

In questi casi, mi regalo tempo. Rifiuto di scrivere fino a quando non riesco a catturare quella sensazione, fino a quando non riesco a comprenderla, a farla mia, a darle un nome. Il tempo aiuta perché fa depositare il pulviscolo e, quando ciò finalmente accade, rimane in evidenza quanto mi era sfuggito in un primo momento.

Mi è capitato di nuovo giovedì scorso, quando sono stata invitata alla presentazione della nuova Lancia Ypsilon ELLE, una serie speciale che nasce dalla rinnovata partnership con il magazine Elle, testata del gruppo Hearst. È un’autovettura che ha immediatamente colpito il mio senso estetico, espressamente progettata per catturare l’attenzione del pubblico femminile.

Ho ascoltato la presentazione con interesse: la macchina è nata da scelte accurate, attenzione alla qualità e amore per i dettagli con vernici, materiali, tessuti e finiture studiate ad hoc. Tuttavia, mentre ascoltavo i dettagli tecnici, ero sicura che ci fosse un ulteriore piano di lettura, qualcosa di più ampio che in quel momento mi sfuggiva. Leggi tutto

The Bridge incontra Pininfarina tra artigianalità e tecnologia

Cosa succede quando due gloriose case italiane, The Bridge e Pininfarina, si incontrano e decidono di fondere il loro saper fare? Nasce una capsule collection ispirata al viaggio e al movimento.

Era il 1969 quando a Scandicci cinque artigiani decisero di associarsi e di fondare un’azienda alla quale fu dato nome II Ponte Pelletteria: da subito si distinsero per la produzione di borse e accessori di alta qualità, realizzati con materiali pregiati e dotati di un’eleganza non soggetta alle mode. Nel 1975 l’azienda lanciò il marchio The Bridge, termine inglese per ponte, a simboleggiare Ponte a Greve che collegava Scandicci a Firenze: il nome rappresenta dunque un omaggio alle origini geografiche dell’azienda. Ancora oggi, dopo più di 40 anni dalla sua fondazione, il brand resta fortemente legato alle proprie origini toscane.

La storia di Pininfarina ha avuto origine nel 1930 quando fu fondata da Battista Pinin-Farina che divenne il più celebre car designer della sua epoca: ho appreso con stupore e orgoglio che la Cisitalia 202 (datata 1947, la bellissima vettura rossa che vedete nelle foto qui sotto) è stata la prima e unica auto ad entrare nella collezione permanente del MoMA di New York. E a oggi, più di 100 Ferrari che sono andate in produzione sono state disegnate da Pininfarina. Nel 1986, la terza generazione della famiglia ha fondato Pininfarina Extra per estendere le competenze dell’azienda al di fuori del settore automobilistico. Leggi tutto

Io, fifona, in pista con Michela Cerruti (e sono sopravvissuta)

Prevedono da giorni che nevicherà abbondantemente su tutto il nord Italia e ieri, in effetti, qui da me c’è stato un primo assaggio. Per fortuna, la neve all’inizio intensa si è presto trasformata in pioggia.
Se pensate che mi lanci in un’ode romantica, siete fuori strada: non amo l’inverno e non amo la neve, soprattutto in città.
Al limite, è bella in montagna, sempre che si ami sciare o sempre che si abbia l’opportunità di starsene davanti a un caminetto acceso, in buona compagnia e con qualcosa di caldo da sorseggiare.
Proprio l’inverno, tra l’altro, è una delle cause dell’incidente che ho avuto qualche anno fa: persi il controllo dell’auto su una lastra di ghiaccio. Capite, dunque, perché io non gioisca nel vedere la neve fuori dalla finestra.
Forse la mia paura verso neve e ghiaccio dipende anche dal fatto che io sia una guidatrice per necessità e non per passione. Mi colloco infatti tra coloro che guidano per essere liberi e per non dipendere da nessuno, ma non per inclinazione naturale.
Ho preso la patente tardi, a 22 anni: abitando in centro a Milano, non ho sentito l’esigenza di guidare e avere l’auto fino al momento in cui i miei hanno invece deciso di prendere casa fuori città.

Queste riflessioni in ordine più o meno sparso mi hanno portato alla mente un’esperienza della quale non ho mai parlato qui nel blog. La scorsa estate ho avuto l’opportunità di conoscere Michela Cerruti, grande campionessa automobilistica, e di salire al suo fianco, in pista, su un’auto da corsa.

Avete voglia di sentire una storia che, per una volta, non parla nemmeno lontanamente di moda? Leggi tutto

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