Con Elisa Ajelli per un augurio ad artisti, poeti e navigatori

Quando, quasi sei anni fa, ho finalmente deciso di aprire il blog (e scrivo finalmente perché il progetto esisteva da molto prima), ho in prima istanza pensato di parlare essenzialmente di moda, raccontando la visione che ne ho e raccontando il talento dei designer e dei creativi che incontravo e incontro.
Ma, ben presto, mi sono accorta che parlare solo di moda non mi bastava, nonostante io affermi (e soprattutto pensi) di aver bisogno della moda esattamente come dell’aria che respiro, visto che la considero una forma di linguaggio e comunicazione.
Da persona onnivora in tutti i sensi, da persona curiosa di natura e innamorata della vita, non volevo avere paletti e, a maggior ragione, non volevo impormeli da sola: essendo interessata a tanti argomenti e avendo la fortuna di poter fare esperienze diversificate grazie al mio lavoro trasversale in ambito comunicazione, ho sentito forte e impellente il bisogno di ampliare il raggio d’azione del blog.
E, visto che ero in ballo e che sono sempre stata allergica ai pregiudizi e ai cliché, ho deciso di cercare di infrangere alcuni di quelli che circolano su chi si occupa di moda, per esempio che si tratti di persone superficiali.
E così, pian piano, il blog si è arricchito di post sui viaggi, sui libri, sulla fotografia, sul cibo; di qualche biografia e di racconti su sentimenti ed esperienze personali; di osservazioni sul costume e la società.
La mia non è presunzione o arroganza, ve lo giuro: non voglio essere una tuttologa, semplicemente sento dentro di me una passione immensa per tutto ciò che è crescita e arricchimento intellettuale e morale.
Il blog è diventato, insomma, una sorta di contenitore stratificato, un diario personale ma allo stesso tempo condiviso, il diario di una persona aperta, curiosa, onnivora – lo ribadisco – e che si reputerà sempre una studentessa con tanta voglia di imparare. Leggi tutto

Gender gap vs women empowerment: la moda non è un lavoro per donne?

È da un bel po’ (precisamente da qualche mese) che medito sul contenuto di un articolo di Pambianco.

Dovete sapere che detta rivista è una delle mie preferite e che non manca mai tra le letture quotidiane: dunque, se intitola un articolo ‘Allarme gender gap, la moda non è un lavoro per donne’, ecco che Pambianco attira immediatamente la mia attenzione anche perché si tratta di un argomento che mi sta particolarmente a cuore.

Cosa sostiene l’autorevole magazine nell’articolo datato 22 maggio?

Viene citato uno studio intitolato ‘The glass runway’, redatto dal Council of Fashion Designers of America (CFDA), Glamour e McKinsey & Company: in questo studio si afferma che, sebbene le donne rappresentino l’85% delle laureate presso i principali istituti di moda americani, i ruoli chiave ricoperti da nomi femminili sono ben pochi.

Il mondo della moda – rincara la dose Pambianco – ha recentemente mostrato interesse per le diversità di orientamento sessuale e di taglia, ma non abbastanza per il gender gap.

Con gender gap si intende l’insieme di tutte quelle differenze che si riscontrano a livello di condizioni economiche e sociali (dall’istruzione fino all’accesso al lavoro) e che influenzano la vita degli esseri umani in base al loro genere di appartenenza: in parole povere, parliamo di disparità di condizione tra uomini e donne.
E generalmente, quando si parla di gender gap, si tende (purtroppo) a osservare l’esistenza di maggiori penalizzazioni a sfavore delle donne rispetto agli uomini.

«Non ne parliamo molto perché c’è la sensazione che tutti ne siano già a conoscenza, ma a volte è necessario dire qualcosa affinché le persone non facciano finta sia un problema inesistente», ha dichiarato Diane von Fürstenberg, presidente dello stesso CFDA.

I dati contenuti nello studio ‘The glass runway’ sono alquanto desolanti. Leggi tutto

A proposito del mio compleanno e della reciprocità…

E siamo a quota sei.

Ebbene sì, con oggi, 26 novembre 2018, sono sei i miei compleanni festeggiati qui, attraverso A glittering woman, lo spazio web al quale tengo molto e che curo con grande passione.

Quindi, per prima cosa… me lo permettete? Ma sì, dai, tanti auguri a me 🙂 🙂 🙂

Di solito, A glittering woman non vede me come protagonista diretta o esclusiva: durante tutto l’anno, infatti, i protagonisti sono i talenti che sostengo, in ogni ambito, e fa eccezione solo il 26 novembre, giorno in cui il post che pubblico è dedicato a me stessa.

Da glittering woman a birthday woman… solo per un giorno… naturalmente 😉

È diventata una piccola tradizione, l’unica occasione in cui mi metto al centro: questi post sono un modo per raccontare qualcosa di me e della fase che sto vivendo e il tutto è accompagnato dalle foto di alcune delle esperienze che ho vissuto nel corso dell’anno. Leggi tutto

Francesca Agrati e il gioco delle apparenze in mostra a Milano

La Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne è stata istituita nel 1999 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite la quale ha designato il 25 novembre come data della ricorrenza, invitando i governi, le organizzazioni internazionali e le ONG a organizzare attività volte a sensibilizzare l’opinione pubblica riguardo una tematica che, purtroppo, continua a essere estremamente attuale.

In questi giorni che procedono il 25 novembre dell’anno 2018, ad attirare la mia attenzione sono state le parole di Bebe Vio impegnata in una campagna di sensibilizzazione in collaborazione con Sorgenia, azienda della quale la brava schermitrice italiana e campionessa paralimpica è testimonial.

Nello spot in questione, Bebe ricorda proprio che a giorni sarà il 25 novembre, ma che anche ieri era il 25 novembre e che domani e tra due mesi sarà ancora il 25 novembre.
Paradosso temporale? No, lo scopo è semplicemente quello di sottolineare che, ben oltre una singola giornata, l’emergenza resta per ora continua e ininterrotta, come ho già ricordato, e l’attenzione non deve dunque limitarsi a una sola ricorrenza, ma deve invece rimanere viva.

Lo spot ha attirato la mia attenzione perché la penso esattamente come Bebe: l’ho dimostrato tante volte, qui nel blog e attraverso le riviste con le quali ho collaborato o collaboro, parlando in molti modi di donne, di women empowerment e delle risposte che è necessario dare alla violenza.
Ho fatto tutto ciò non solo in occasione del 25 novembre, ma tutte le volte in cui ho avuto la possibilità di farlo.

Oggi continuo questo percorso intrapreso condividendo con voi il racconto di una mostra che verrà inaugurata domani, 22 novembre: si intitola Il gioco delle apparenze, ha come protagonista Francesca Agrati e sarà ospitata proprio fino al 25 novembre da Dream Factory in corso Garibaldi 117 a Milano.

Dopo la prima mostra Le normali follie ospitata presso lo Spazio Maimeri nel novembre 2016, Francesca Agrati torna con una mostra personale che verrà appunto inaugurata domani alle ore 18.30 per proseguire fino a domenica.

In questa mostra, che vedrà esposte opere inedite, la Agrati prosegue la sua ricerca artistica approfondendo la tecnica dell’addizione pittorica attraverso le lezioni di Valeria Oliva, maestra d’arte che la segue sin dagli albori del suo percorso artistico.
Il processo creativo di Francesca, saldamente ancorato all’ambito figurativo, parte dallo sviluppo di un innato spirito di osservazione che spinge l’artista nella selezione delle immagini più adatte alle sue elaborazioni, estrapolandole dai mass media (pubblicità e riviste) come anche dal suo ambito familiare e amicale e che lei assimila, metabolizza e reinterpreta con fervida fantasia.
Il tema del ritratto è sempre centrale nella sua poetica: esaltando le caratteristiche dei suoi soggetti principalmente femminili, sdrammatizza la routine quotidiana attraverso ironia e positività, in un continuo dialogo tra bidimensionale e tridimensionale, facendo sì che materia e colore si fondano armoniosamente con le immagini e le superfici.

Il gioco di Francesca Agrati sta nello stravolgere le apparenze andando ben oltre la forma che – spesso – differisce dalla sostanza; il riferimento all’una, nessuna e centomila identità pirandelliane, con tutte le sfaccettature che caratterizzano l’essenza umana, appare così immediato.

Influenzata dalla Pop Art, Francesca Agrati parte da una base fotografica e si serve del collage e dell’assemblaggio di materiali, trasformando e sconvolgendo le sembianze dei suoi soggetti con l’inserimento di elementi materici provenienti dal quotidiano (piccoli oggetti, siliconi e materiali vari).
Sceglie, infine, semplici nomi propri per intitolare le sue opere, non aggiungendo descrizioni né indicazioni particolari allo scopo di influenzare nel minor modo possibile lo spettatore che si sente così libero di interpretare l’opera a seconda delle proprie sensazioni.

Trovo questa sua operazione così interessante da indurmi a scegliere lei come evento da segnalare quest’anno in occasione del 25 novembre: una donna racconta le donne e lo fa con energia, fantasia, positività e colta ironia perché la cultura in ogni sua forma e manifestazione resta sempre la miglior risposta (e la migliore cura) alla violenza che è spesso figlia, purtroppo, anche dell’ignoranza.

Se siete a Milano, vi consiglio di non perdere la mostra: in galleria troverete lei, Francesca Agrati, e non voglio rovinarvi la sorpresa ma vi anticipo che troverete anche un quadro parlante…

Curiosi?

Passate in corso Garibaldi 117 domani sera, oppure venerdì – sabato – domenica dalle 11 alle 19.

Manu

 

Vi regalo alcune anticipazioni delle opere in mostra (ph. courtesy ufficio stampa)…
Per visualizzare la gallery da pc, cliccate sulla prima foto
e poi scorrete con le frecce laterali.

Se volete seguire Francesca Agrati, qui trovate la sua pagina Facebook.

Azzedine Alaïa, «Non sono un designer, sono un couturier»

Quando un anno fa, il 18 novembre 2017, il grande couturier Azzedine Alaïa si è spento, non ce l’ho fatta a dedicargli un articolo così come ho invece fatto spesso da quando ho inaugurato A glittering woman, rendendo omaggio a grandi personalità che hanno avuto un ruolo importante nella mia formazione, dalla moda alla musica passando per la letteratura.

E se non ce l’ho fatta è perché in quel momento non ho proprio avuto cuore, lo confesso, in quanto mi sono resa conto che sempre meno sono i couturier e gli stilisti ancora in vita e dei quali si possa dire che abbiano dato un loro forte e indimenticabile contributo alla moda, un’impronta senza la quale, oggi, non solo lo stile, ma anche (e soprattutto) il costume e la società sarebbero diversi.
E questa consapevolezza mi lascia attonita, mi atterrisce…

Quando la scorsa estate ho saputo che, durante la Milano Fashion Week, la mia città avrebbe reso omaggio ad Alaïa ospitando dopo Parigi la tappa italiana di una splendida mostra, non ho avuto alcun dubbio: è così che avrei chiuso l’edizione settembrina della settimana dedicata alla moda.

Lunedì 24 settembre, in una mattinata quieta, nella calma assoluta di Palazzo Clerici (uno dei luoghi che preferisco a Milano, in particolare la Sala degli Arazzi con gli affreschi di Giambattista Tiepolo), mi sono dunque goduta un impareggiabile momento di bellezza assoluta, visitando la mostra Azzedine Alaïa Couture Sculpture. Leggi tutto

Serena Fumaria: perché il progetto Guarire dal narcisista patologico

Non sopporto la violenza e le sue manifestazioni – mai e in nessun caso.
Non la sopporto qualunque sia la (pseudo)giustificazione o la (pseudo)motivazione perché – in realtà – non ne esiste nessuna che possa essere anche lontanamente valida.
Non la sopporto chiunque ne sia vittima: bambino, donna, uomo, animale.
Non riesco a fare graduatorie di gravità, poiché la violenza è sempre ignobile e disgustosa, con aggravanti ulteriori quando la vittima è in posizione di particolare debolezza, come accade con i bambini – e mi vengono i brividi di orrore solo a pensarci.
E non riesco nemmeno a fare graduatorie di gravità tra violenza fisica e psicologica: sia le botte sia le parole lasciano segni indelebili nel corpo e nell’anima.

Come essere umano e come donna, sono naturalmente preoccupata dal crescendo di violenza che sempre più spesso donne di ogni età, di ogni provenienza e di ogni estrazione sociale si trovano a subire dentro le pareti domestiche e fuori, a partire dagli ambienti di lavoro.
Mi sono schierata moltissime volte contro la violenza sulle donne, dal body shaming (qui e qui due esempi) fino a casi estremi come quello dolorosissimo di Sara Di Pietrantonio (qui), una tragedia che mi impressionò profondamente.

E allora oggi voglio proseguire su questa strada di impegno in prima persona parlandovi di un progetto che è stato portato alla mia attenzione da una persona che conosco da anni e che stimo. Leggi tutto

Pensieri (in questo caso quasi ordinati) da Kokkari…

Stavolta Kokkari mi ha tirato un bel colpo basso…
Camminavo per raggiungere Calma Beach e, svoltato l’angolo in cui la vista si apre completamente, mi si è parata davanti la piccola baia in una calma assoluta.
Perfettamente immobile.
Perfettamente cristallina e trasparente.
Per un istante, il mio cuore si è fermato – lo giuro.
Ancora pochi passi e sono arrivata in spiaggia, mi sono spogliata in un attimo e sono entrata in acqua.
L’acqua era fresca e ho iniziato a nuotare pianissimo, senza quasi muovere la superficie liquida attorno. Dopo pochi lentissimi movimenti, avevo metri d’acqua sotto di me, acqua così trasparente che potevo vedere ogni dettaglio sul fondo, le pietre e la vegetazione e i pesci, a occhio nudo e senza nemmeno mettere la testa sotto la superficie.
Poi, a un certo punto, l’acqua mi ha come ipnotizzata: non galleggiavo, ero semplicemente sospesa nel vuoto. Come se non fossi più in acqua ma a mezz’aria. Non c’era più nulla, nemmeno il mio corpo e i suoi naturali confini fisici.
Avevo provato questa sensazione tanto intensa e assoluta una volta soltanto, dieci anni fa, in Polinesia. Solo lì avevo visto un’acqua così quieta e trasparente da sparire, lasciando me e i pesci in uno spazio rarefatto, fuori dal tempo e dallo spazio.
Ho immerso la testa sott’acqua per fondere in una sola cosa il mare e le lacrime che mi rigavano il volto già da un po’. Sale con sale, così che nessuno potesse vederle più, anche se le lacrime continuavano a sgorgare senza che io potessi fare nulla per fermarle.
Mi sono lasciata andare e ho allineato il corpo con la superficie: così sospesa, mi sono fatta cullare…
Te lo ridico: che colpo basso mi hai tirato, Kokkari.
Mi hai aperto il cuore in quattro quando non me lo aspettavo, quando ero senza difese. Senza aculei come il riccio di ieri a Mykali.
Ora prenditi pure quel che resta del mio cuore, tanto era comunque già tuo.

Manu

{Sono appena rientrata da Samos e ho voluto condividere con voi questi pensieri, scritti qualche giorno fa e pubblicati nel mio profilo Instagram insieme alla foto che ho scattato in tale occasione.
Non so, volevo condividere il tutto anche qui

Samos (con il piccolo paese di Kokkari) è il luogo che io chiamo la mia isola felice, metaforicamente (visto che è un modo di dire) ma anche concretamente (visto che è un’isola e che lì mi sento sempre, sempre, sempre felice).
È la quarta volta che Enrico e io ci torniamo e lo scorso anno, rientrando, avevo pubblicato due post, il primo spiegando perché trascorro le vacanze in Grecia e il secondo dando qualche dritta proprio per Samos.
Ai consigli e ai nomi già dati in tali occasioni, aggiungo la pensione di Kokkari in cui abbiamo dormito quest’anno (si chiama Blue Sky, è semplice ma pulitissima e con un prezzo davvero vantaggioso) e le meravigliose spiagge di Kedros e di Kaladakia con la sua incantevole caverna blu.
Trovate tantissime foto di questi e di tutti gli altri luoghi nel mio profilo Instagram.
Concludo con una promessa: settimana prossima, A glittering woman torna con la programmazione abituale.
Parleremo di donne, attraverso un’iniziativa che unisce vari settori e attraverso un importante progetto anti-violenza…}

A glittering woman chiude per ferie ma prima di salutarvi…

Cara web-family (posso chiamarvi così?)… ci siamo!
Anche quest’anno è arrivato il momento più atteso (non solo per me, credo), ovvero quello delle tanto sospirate, agognate e meritate ferie estive.

Qualunque cosa sceglieremo di fare – restare a casa, spostarci di pochi chilometri o dall’altra parte del mondo, andare nel posto che frequentiamo fin da quando eravamo bambini o esplorarne uno dove non siamo mai stati…
Ovunque decideremo di andare – mare o montagna, campagna o lago, città d’arte…
Qualunque sarà la compagnia della quale godremo – famiglia, amici e se vivete con cani, gatti & co. pensate a loro, mi raccomando, perché sono per la tolleranza zero verso coloro che li abbandonano, persone inqualificabili e indefinibili
Insomma, ben oltre le nostre personali scelte, ciò che vale per tutti è fare qualcosa di diverso dal solito, spezzare la routine quotidiana.

Ne abbiamo bisogno, abbiamo bisogno di rilassare cuore, mente e fisico, di distoglierli da pensieri diventati faticosi a causa della stanchezza accumulata in un lungo anno di studio o di lavoro (e la stanchezza c’è anche se abbiamo la fortuna di fare un lavoro che amiamo) nonché di impegni personali e familiari.

Staccare consente di fare il pieno di energie da destinare alle nuove attività che intraprenderemo a partire da settembre: l’anno inizia a gennaio, formalmente e sul calendario, ma in realtà è dopo le vacanze estive che fissiamo un nuovo punto di partenza.

Io sono tra coloro che considerano le ferie estive come un’esigenza quasi fisiologica.
Credo di averlo scritto un milione di volte… amo l’estate: amo i suoi profumi (da quello della salsedine fino a quello dei solari al cocco…), i suoi colori (la sinfonia di bianco e blu…), i suoi rumori (penso per esempio al frinire delle cicale…), i suoi sapori (soprattutto quelli della frutta).
Amo l’aria tiepida (anche se non apprezzo la canicola…) e le giornate lunghissime che sembrano non finire mai.
Amo i vestiti leggeri e i sandali, i cappelli e le borse di paglia.
Amo mangiare all’aperto.
Amo i ritmi che diventano più pigri.
Ho dunque bisogno di assecondare tutti questi amori per qualche settimana e allora anche A glittering woman chiude per ferie 🙂

Prima di farvi i miei auguri di buone ferie, però, mi permetto di suggerirvi qualche lettura: sempre che ne abbiate voglia, mi piace l’idea di poter in qualche modo venire con voi, di farvi compagnia nei momenti di relax, magari sotto l’ombrellone davanti al mare oppure sotto una veranda davanti a una cima.

Se le vostre uniche parole d’ordine sono estate e vacanze (e come potrei darvi torto), vi propongo tre miei post risalenti alla scorsa estate ma sempre attuali, ovvero quello sulle valigie, quello sulla prova costume (sapete già come la penso, per me è un’autentica scempiaggine e per dirla con le parole di una persona che mi piace – Cristina Fogazzi alias L’Estetista Cinica«La prova costume? Già il fatto che “costume” e “prova” convivano in una frase in cui non c’è “camerino” mi fa ridere») e infine quello sul ventaglio.
Più estivi e vacanzieri di così non si può 🙂

Sempre per restare in tema estate, vi propongo anche un post su una app particolarmente a tema, Playaya, e un post su un gioco interamente dedicato… al gelato!

Libri da mettere in valigia?
Vi suggerisco tre titoli particolarissimi: Carta preziosa di Bianca Cappello (non solo libro ma anche scrigno…), Mario Valentino di Ornella Cirillo (una storia bella e importante di un grande stilista italiano), Mirror Mirror di Cara Delevingne (quando una modella diventa scrittrice).

Se invece siete incuriositi dalle tendenze moda estive, vi ripropongo un post dedicato a quello che prende il nome di arm party (insomma, il mix & match di bracciali), tendenza ormai in voga da diverse stagioni.
Altra tendenza di cui ho parlato recentemente è quella del marsupio, non solo tendenza ma anche grande ritorno.

Se, oltre a estate e vacanze, la vostra terza parola magica è viaggi, concordo anche in questo caso 🙂 e allora condivido tre racconti di altrettanti viaggi e luoghi che mi stanno a cuore, Vietnam (dove sono stata nel 2005), Polinesia (il mio viaggio di nozze datato 2008) e infine Bretagna, regione nel nord della Francia, luogo che amo e che ho visitato varie volte (nel caso del post nel 2014).

Se in questo periodo resterete (o verrete) a Milano, la mia amata città, ho alcuni spunti per voi: che ne dite di una visita alla mostra Leonardo da Vinci Parade, alla mostra multimediale Modigliani Art Experience, alla mostra dedicata a Valentina Cortese oppure allo splendido Armani/Silos, luogo in cui la moda diventa arte?
O ancora, poco fuori Milano e precisamente a Lainate, recentemente ho scoperto – e amato – la splendida Villa Litta con l’incantevole Ninfeo e i sorprendenti giochi d’acqua.

Se anche voi siete affascinati dalle interazioni tra moda e società, vi propongo una mia disquisizione attorno al potere di immagini e loghi partendo dal caso Ikea – Balenciaga dello scorso anno.
Perché rispolvero questo argomento ora? Perché sembrerebbe che sia vero che il lupo perde il pelo ma non il vizio: dopo il plagio o presunto tale della borsa Ikea, ora tocca a City Merchandise subire le attenzioni della celebre maison (come racconta Pambianco qui)…

Se siete sempre un passo avanti e pensate già alla moda per la prossima stagione, potete dare un occhio alla mia piccola sezione dedicata alle prime anticipazioni autunno – inverno 2018 / 2019.

Se siete in cerca di curiosità, vi propongo il post sugli Amigurumi (li conoscete?) oppure quello sui Bonpon511, una coppia giapponese irresistibile: cosa fanno? Vestono sempre in coordinato!

Altra curiosità: il maneki neko, storiellina divertente soprattutto se, in vacanza, pensate magari di fare incetta di amuleti (io continuerò la mia collezione di evil eye…).

Passiamo ai gioielli: se siete creativi, artisti o designer in tale campo, avete tempo fino al 14 ottobre per partecipare al nuovo bando di Ridefinire il Gioiello, progetto-concorso del quale sono orgogliosa media partner dal 2014.
In questo mio post trovate tutti i dettagli.

Se invece i gioielli li collezionate – come me! – vi ripropongo le mia due scoperte più recenti: Little Bit Bijoux di Giovanna Checchi ed Eilish di Alice Canapa.

Insomma… spero ci siano argomenti per tutti i gusti!
E scusate se mi sono un po’ fatta prendere la mano: è la passione verso tutto ciò che faccio

Come scrivevo in principio, il blog sarà chiuso per ferie per qualche settimana.

Lunedì parto per la Grecia, finalmente, e torno a Samos, uno dei miei luoghi del cuore (ne ho parlato l’anno scorso qui e qui) e, oltre alle letture che vi ho indicato, non sparisco o almeno ci provo 🙂
Sarò dunque attiva sui social, attraverso la mia pagina Facebook e l’account Twitter e soprattutto attraverso Instagram, il mio social preferito, lo ammetto.
Se vi va di interagire, io sono sempre felice di rispondervi, lo sapete già ma lo ribadisco.

A questo punto, non mi resta che augurarvi buone vacanze secondo quella che è sempre e costantemente la mia visione, in qualsiasi momento dell’anno.

Il mio augurio (o invito) è infatti quello di lasciare aperti il cuore e la mente: siate liberi di spirito e indipendenti nel pensiero, siate curiosi e affamati di bellezza e conoscenza.

Sinceramente,
La vostra Manu

P.S.: Ho già in mente un post per la riapertura del blog dopo il periodo di ferie… vedrete, è un’iniziativa interessante dedicata alla contaminazione tra arti visive, musica e pratiche psico-fisiche, un’esplorazione del femminile attraverso quattro giorni di incontri, workshop, concerti, proiezioni, installazioni e performance… ed è interessante sia per chi vorrà partecipare al concorso collegato in qualità di artista emergente sia per chi invece vorrà partecipare alle varie iniziative dei quattro giorni…

Villa Litta di Lainate, quando paradiso e stupore sono vicino casa

Ha proprio ragione chi sostiene che, per fare grandi viaggi, non sia affatto necessario affrontare grandi spostamenti.
Così come ha ragione chi sostiene che, talvolta, possa capitare di conoscere meglio luoghi lontanissimi rispetto a luoghi che abbiamo a pochi chilometri da casa.

Della prima teoria, sono io stessa una convinta sostenitrice – le belle scoperte non dipendono dalla distanza, lo credo fermamente – mentre, per quanto riguarda la seconda teoria, ho un pensiero che non pretendo essere verità assoluta ma che è vero per quanto mi riguarda: il fatto che a volte io non riesca a visitare luoghi vicini e facilmente raggiungibili non è questione di alterigia o superbia, bensì un po’ di semplice quanto banale stupidità.

Come tanti, tendo talvolta anch’io a rimandare visite a luoghi vicini nella sciocca illusione che tanto avrò sempre tempo o modo di farlo: sbaglio, invece, poiché il tempo passa impietoso e intanto perdo occasioni preziose.

È esattamente ciò che è accaduto con la splendida Villa Visconti Borromeo Litta di Lainate: da molto tempo ne sentivo parlare e da altrettanto ne rimandavo la visita.
Per fortuna, è arrivato un graditissimo invito (grazie M.T.) e così, grazie a una piccola e comoda trasferta organizzata per giornalisti e blogger da Milano, ho finalmente colmato questa mia imperdonabile mancanza, pentendomi abbondantemente per il ritardo, vista la meraviglia assoluta del luogo nonché la sua particolarità e unicità.

Non solo: giovedì 19 luglio, in occasione di tale visita, ho potuto assistere alla proiezione di un interessantissimo docu-film su Villa Litta, scritto e diretto da Francesco Vitali con la collaborazione di Claudia Botta. Leggi tutto

Quando Rolling Stone ci invita a fare la nostra scelta…

Quella che vedete qui sopra è la copertina di luglio 2018 di Rolling Stone Italia, in edicola da oggi.
E io vorrei dire qualcosa in merito, soprattutto a chi sostiene che tale copertina sia esagerata, fuori luogo, populista, demagogica, sinistroide. Che si tratti di sciacallaggio, come ho letto da qualche parte.
Quel qualcosa che desidero dire non sono parole mie: le prendo in prestito dal tedesco Martin Niemöller (1892 – 1984), teologo, pastore protestante e oppositore del nazismo.
Le parole – che mi fanno pensare ogni volta in cui le rileggo – sono queste.

«Quando i nazisti presero i comunisti,
io non dissi nulla perché non ero comunista.
Quando rinchiusero i socialdemocratici,
io non dissi nulla perché non ero socialdemocratico.
Quando presero i sindacalisti,
io non dissi nulla perché non ero sindacalista.
Poi presero gli ebrei,
e io non dissi nulla perché non ero ebreo.
Poi vennero a prendere me.
E non era rimasto più nessuno che potesse dire qualcosa.»

Ho scelto i versi originari e originali di Martin Niemöller, ma esistono diverse versioni e anche interpretazioni e reinterpretazioni.
Le sue parole risultano così forti da aver avuto influenza su molte opere venute in seguito, come la canzone Yellow Triangle del cantante di musica folk irlandese Christy Moore; anche il duo musicale scozzese Hue and Cry ha parafrasato la poesia in una propria canzone e i versi hanno avuto un peso anche per la canzone Emigre del gruppo punk statunitense Anti-Flag.

Quando le scrisse, Niemöller si riferiva all’inattività degli intellettuali tedeschi in seguito all’ascesa al potere dei nazisti e agli obiettivi da loro scelti, gruppo dopo gruppo; la poesia è in seguito diventata un monito contro il pericolo dell’apatia sociale e politica, per sottolineare come essa possa trasformarsi in qualcosa che si ritorce proprio contro chi pensa di non essere toccato da certi fenomeni.
Contro chi è indifferente, apatico, chiuso nel proprio guscio che crede sia una protezione.

Io non desidero affatto dirvi cosa dovete pensare, amici che state leggendo.
Cerco di non farlo mai, in nessun ambito e su nessun argomento: mi limito a esporre il mio punto di vista e a esporre quante più possibilità mi vengono in mente.

Non sono dunque qui per dirvi se abbia ragione Matteo Salvini, Rolling Stone Italia o chi si schiera contro la rivista.
Non vi sto dicendo da quale parte stare, vi dirò semplicemente cosa farò io.

Io che credo nella libertà (a partire da quella di parola e di stampa) e che amo i diritti, io che i diritti li voglio per tutti (come ho scritto nel 2015 qui e nel 2016 qui), io che credo nelle persone di buona volontà e di pensiero indipendente, che siano di destra o di sinistra, bianche o nere, omosessuali o eterosessuali, italiane o straniere, io che amo il mio Paese e che lo vorrei vedere progredire veramente; domani, io che ho tutto ciò nella testa e nel cuore, andrò in edicola, comprerò Rolling Stone Italia e lo leggerò (qui trovate un’anticipazione, se volete).
Non solo: continuerò sempre a informarmi e continuerò sempre a tenere testa e cuore aperti.
Darò sempre a me stessa una, dieci, cento possibilità.

E vi dirò anche cosa non farò.

Io non mi farò rinchiudere in un recinto, anzi, non mi ci rinchiuderò da sola, non resterò indifferente, non farò finta che vi siano categorie umane alle quali non appartengo.
O che non mi interessano o che mi infastidiscono o che disturbano i miei interessi.
Io non penserò di essere protetta dal fatto di essere cittadina italiana figlia di cittadini italiani e discendente di cittadini italiani, non mi sentirò protetta dal fatto di essere bianca, di religione cattolica anche se non praticante, eterosessuale e coniugata.
Io non crederò che esista guscio che possa proteggermi.

Rolling Stone è stato fondato negli Stati Uniti 51 anni fa come periodico di musica, politica e cultura di massa.
Dal 1967 porta avanti i concetti di intrattenimento e di impegno sociale: è fallibile, come qualsiasi opera e associazione umana, ma ha tanta passione da darsi lo slogan «Sulla pietra che rotola non cresce il muschio».

Ovvero chi rifiuta di stare fermo sulle proprie posizioni, chi continua a muoversi… chi fa tutto ciò impedisce che il cervello si atrofizzi imprigionato dal muschio dell’indifferenza, dell’inattività, dell’apatia, della pigrizia, dell’indolenza, della paura.

E io chiedo questo, a me e a voi: diamo a noi stessi una chance, non aspettiamo di voltarci e di non trovare anima viva attorno a noi.
Io vedo in tutto ciò, nella copertina di Rolling Stone, un’occasione, una possibilità.
L’importante è non tacere, perché non prendere posizione e non avere un’opinione è cosa che mi terrorizza più di qualsiasi scelta, sicuramente molto più di una persona che la pensi in maniera diametralmente opposta alla mia.

Manu

Chez Blanchette: la moda artigianale, Made in Italy, familiare, responsabile

Era il 24 aprile 2013 quando il Rana Plaza, edificio commerciale di otto piani, crollò a Savar, sub-distretto di Dacca, la capitale del Bangladesh.
Le operazioni di soccorso e ricerca si conclusero con un bilancio dolorosissimo: 1.134 vittime e circa 2.515 feriti per quello che è considerato il più grave incidente mortale avvenuto in una fabbrica tessile nonché il più letale cedimento strutturale accidentale nella storia umana moderna.

Com’è tragicamente noto, il Rana Plaza ospitava alcune fabbriche di abbigliamento, una banca, appartamenti e numerosi negozi: nel momento in cui furono notate delle crepe, i negozi e la banca furono chiusi, mentre l’avviso di evitare di utilizzare l’edificio fu ignorato dai proprietari delle fabbriche tessili.
Ai lavoratori venne addirittura ordinato di tornare il giorno successivo, quello in cui l’edificio ha ceduto collassando durante le ore di punta della mattina.
Lo voglio ripetere: nel crollo, persero la vita 1.134 persone e ci furono oltre 2.500 feriti.

Molte delle fabbriche di abbigliamento del Rana Plaza lavoravano per i grandi committenti internazionali e questo orribile sacrificio di vite umane ha squarciato il velo di omertà che copriva, a mala pena, pratiche che moltissimi, in realtà, conoscevano da tempo e fingevano di non vedere.

Dopo la strage, oltre 200 imprese del settore abbigliamento – così dicono le cronache – hanno siglato un accordo sulla sicurezza in Bangladesh; da un recente simposio alla Ford Foundation di New York è emerso che, da allora, sono state corrette una media di 60 violazioni per impianto e sono stati organizzati corsi sulla sicurezza per 2 milioni di addetti.
Sono passi verso una maggiore responsabilità, ma è solo l’inizio: le paghe sono ancora (troppo) basse, gli orari sono spesso senza regole e la strada verso una sicurezza totale, dunque, è ancora lunga.

A chi pensa che la colpa di tutto ciò vada esclusivamente al fast fashion, alla sua nascita e alla sua diffusione, dico di non farsi trarre in inganno.
Sul banco degli imputati non ci sono solo i ben noti marchi di moda low cost, bensì anche nomi blasonati fino ad arrivare alle maison di Alta Moda, in alcuni casi accusate di poca chiarezza a proposito delle risorse e delle materie prime utilizzate, spesso con riferimento a quelle di origine animale.

Volete un esempio circa il fatto che anche i brand blasonati non siano sempre innocenti? Leggi tutto

Comunicare – ovvero 5 anni di A glittering woman :-)

Credo che comunicare – e soprattutto comunicare noi stessi, i nostri pensieri, i nostri sentimenti, la nostra visione del mondo – sia un’esigenza che accomuna la maggior parte degli esseri umani.
E credo anche che ognuno di noi trovi il proprio modo, la propria modalità di espressione, la propria voce.
C’è chi la trova nella scrittura, chi nella musica, chi nella pittura, chi nella scultura, chi nella fotografia, chi nel calcare un palcoscenico ballando, recitando, cantando.
C’è chi comunica attraverso un pezzo di legno, costruendo un mobile o una barca, trasformandolo in un violino.
C’è chi parla con i mattoni, costruendo case o ponti.
C’è chi ama comunicare progettando giardini.
C’è chi lo fa cucinando pietanze.
C’è chi lo fa creando un abito, una borsa, un gioiello, un paio di scarpe, un profumo.
Ognuno trova il proprio modo e ciò è bello, è ricchezza.

Non solo: il bello è che molte di quelle opere di ingegno potranno essere scelte da altre persone che, a loro volta, le useranno per raccontare nuove storie.
Potranno essere fatte proprie, mixate, rielaborate in nuove e ulteriori forme di comunicazione, in nuovi linguaggi.

Io non so né dipingere né scolpire.
Non so cantare, anzi, sono proprio stonata da far paura.
Non so cucinare né cucire. Non so erigere un ponte né so costruire uno scafo.
Me la cavo con le parole.
E questo, anno dopo anno, è diventato il mio canale comunicativo preferito, il modo in cui cerco di esprimere creatività, tanto da diventare anche un lavoro.

Non so dirvi se l’abbia trovato io o se sia il modo ad aver trovato me: so solo che mi appartiene, da sempre, so che da sempre mi viene naturale e spontaneo.
Se ho un pensiero, bello o brutto, istintivamente penso a metterlo in parole; se cullo un sentimento, bello o brutto, sento che ha bisogno di uscire e lo fa magari con una risata o una lacrima, prima, ma poi esce sotto forma di parole.

So che, con il tempo, ho imparato a governare questo modo.
Quand’ero molto giovane, mi ha procurato non pochi guai, ve lo confesso: ricordo parole disordinate e scomposte, uscite nel momento sbagliato o inopportuno, parole capaci di fare male come un proiettile o capaci di mettermi in posizioni parecchio scomode.
Crescendo, ho imparato a domare le parole: non a censurarle, questo mai, ma almeno a placarle.
Ho imparato a cercare di addomesticare il groviglio che spesso ho in me, a volte nella testa e altre nel cuore e altre volte in entrambi, ho imparato a mettere in fila (spero) ordinata le parole.
Ho voluto impararlo perché, oggi, il mio scopo non è quello di usare le parole come armi: desidero esprimere i miei pensieri per condividerli, per raccontarmi, per confrontarmi, per creare contatti e ponti.
Per comunicare, appunto.

Ciò che mi piace è che le parole – proprio come la musica, l’arte, gli abiti – possono uscire da noi ed essere poi fatte proprie da altre persone.
Quando qualcuno mi dice di riconoscersi e ritrovarsi in ciò che scrivo, quando qualcuno dice che con le mie parole l’ho emozionato o colpito o fatto riflettere, quando qualcuno mi dice che le mie parole hanno ben raccontato il suo progetto o il suo lavoro, io sono indicibilmente felice esattamente come chi ha scritto una canzone che sente canticchiare per strada o come chi vede il proprio abito calzare a pennello su un’altra persona.
È la felicità di essere riusciti a comunicare e a condividere.

A glittering woman, questa mia creatura, è il simbolo di tutto ciò, è il simbolo del mio amore per la parola e per la comunicazione verbale.
E, oggi, la mia creatura compie cinque anni.

Cinque anni non sono pochi.
Pensavo che, nello stesso numero di anni, un bambino finisce la scuola materna ed è pronto per la scuola elementare: per un essere umano, i primi cinque anni di vita sono importantissimi, sono quelli che ci portano dalla primissima infanzia all’ingresso in un mondo che ci vede sempre più protagonisti consapevoli.
E infatti, se rileggo oggi il mio primissimo post (nel quale continuo a ritrovarmi e a riconoscermi) e se ripenso a tutti i 619 (con questo) post che ci sono stati da allora, provo un’infinita tenerezza, poiché mi sento proprio come un bimbo che abbia finito la scuola materna per fare capolino in un mondo che lo vede (spero) più consapevole giorno dopo giorno.
Proprio come quel bambino, io guardo avanti, aperta e curiosa verso i prossimi cinque anni che verranno. E verso tutti quelli che verranno dopo ancora.

Ma prima mi fermo e dico un immenso grazie, grazie a chi è stato e sarà protagonista dei miei racconti, grazie a tutti voi che avete la pazienza e – a vostra volta – la curiosità di leggere.

Manu

40anni di tesori MF1 svelati da un archivio ora digitale, una mostra, un libro

Lo racconto sempre agli studenti dei miei corsi in Accademia del Lusso: siamo così abituati a pensare alla moda italiana come a un elemento costitutivo dell’identità del nostro Paese da dimenticarci spesso che essa è, al contrario, una realtà abbastanza recente.

La verità è che, fino all’Ottocento, a dettare legge in ambito moda è stata la Francia e gli stessi creatori di casa nostra hanno guardato i cugini d’Oltralpe cercando esempi e ispirazione.
Pensate alla celebrità della quale ha goduto Maria Antonietta d’Asburgo Lorena, moglie di Luigi XVI e nota semplicemente come Maria Antonietta (1755-1793): tutto ciò che la sovrana fece creare o scelse e poi indossò divenne moda non solo in Francia, bensì presso tutte le corti europee dell’epoca.
E pensate che, proprio per quanto riguarda il nostro Paese, ho scoperto che la stessa parola «moda» apparve per la prima volta solo nell’edizione del 1691 del dizionario italiano: la definizione era quella che fotografa tuttora la caratteristica fondamentale della moda, ovvero «ciò che riguarda le abitudini mutevoli».
Già, perché la moda indica comportamenti collettivi con criteri mutevoli: non solo, anche se usiamo spesso questo termine in relazione al modo di abbigliarci, dobbiamo ricordare che in realtà la moda non è solo nei vestiti.
Così come è utile ricordare che la moda nasce solo in parte dalla nostra necessità di sopravvivere, coprendoci prima con pelli e poi con materiali e tessuti lavorati per essere indossati; gli abiti assunsero infatti ben presto anche precise funzioni sociali, atte per esempio a distinguere le varie classi e le mansioni – e questo occorrerebbe ricordarlo soprattutto a chi continua a considerare la moda come cosa futile e sciocca.

Ma torniamo alla moda italiana. Leggi tutto

E anche Monsieur Hubert de Givenchy ci lascia in un mondo ora più triste

Hubert de Givenchy e Audrey Hepburn, 1983, foto © Joe Gaffney (sito e account Instagram)

Una settimana: tanto è passato da quando, pranzando con una persona che stimo, si parlava di quanto risulti difficile per chi lavora nella moda rassegnarsi davanti al tempo che passa, mettendosi da parte e andando in pensione.

Sabato scorso, seduti al tavolino di un posticino accogliente, io e A. citavamo vari esempi, tra stilisti e giornalisti, e io gli esponevo una mia teoria: il motivo per cui in questo settore non ci si rassegna facilmente all’idea della pensione è che la moda è un lavoro fatto di una passione che spesso finisce per diventare totalizzante, sia che si crei concretamente (abiti) sia che si crei virtualmente (attraverso le parole).
E gli ho confessato come immagini già me stessa 70enne ancora intenta a girare – ahimè – per sfilate, presentazioni e press day in cerca di bellezza, creatività e genialità…

Seduti a quel tavolo, nessuno di noi due poteva immaginare come in quello stesso giorno – il 10 marzo – si stesse spegnendo uno dei più grandi couturier di tutto il Novecento, Hubert James Marcel Taffin de Givenchy, aristocratico di nascita ma soprattutto di modi, classe 1927, fondatore nel 1952 e a soli 25 anni della nota e prestigiosa casa di moda che porta il suo nome, Givenchy.
E con Hubert de Givenchy scompare purtroppo uno degli ultimi testimoni dell’epoca d’oro della Haute Couture francese; scompare un autentico gentiluomo che ha vestito donne bellissime e che sono state elegantissime anche grazie a lui.
Alto oltre due metri e slanciato, molte di quelle donne l’hanno descritto come uno degli uomini più seducenti mai incontrati.

A dare la triste notizia al mondo è stato Philippe Venet, il compagno dello stilista: il fatto che sia morto nel sonno, a 91 anni e dopo averci lasciato creazioni indimenticabili, non mi consola affatto.
Anzi, al contrario, mi addolora e mi fa sentire irrimediabilmente defraudata perché, insieme a uomini come Givenchy, scompare sempre più un mondo, scompare un modo di fare e intendere la moda, sebbene mi piace pensare (o sperare…) che quel certo concetto di eleganza che lui ha contribuito a creare sopravvivrà nel tempo.

Vi chiederete però perché io stia legando Givenchy all’aneddoto personale raccontato in principio: perché, nel 1988, il couturier aveva venduto la sua maison alla holding francese LVMH continuando a firmare le collezioni fino al 1995, anno del suo definitivo ritiro.
Lui, dunque, aveva saputo farsi da parte, senza clamore e senza chiasso, e in questa capacità – occorre ammetterlo – ha dimostrato ancora una volta un’eleganza sottile e suprema.
«Ho smesso di fare vestiti ma non di fare scoperte», aveva dichiarato, e credo non vi sia nulla da aggiungere.

Mettersi da parte non deve essere stato facile per un uomo del suo calibro, ma volete sapere una cosa?
Due anni prima, nel 1993, Hubert de Givenchy aveva vissuto un dolore davvero immenso e tangibile: il 20 gennaio di quell’anno era infatti scomparsa Audrey Hepburn, sua musa e amica per lunghissimi anni, quaranta, per l’esattezza. Leggi tutto

Che la terra le sia infine lieve, cara Marina Ripa di Meana

Marina Ripa di Meana mi era simpatica.
Mi era simpatica in quel modo istintivo (e a volte ingovernabile) in cui apprezzo le persone che hanno un carattere forte, deciso, indomabile.
Mi era simpatica perché la consideravo una persona fuori dagli schemi: molto spesso era sopra le righe risultando perfino eccessiva, è vero, ma era dotata di un’intelligenza vivace che mi piaceva.
Era una persona caratterizzata dai forti contrasti, esuberante quanto controversa. Il carattere a volte diventava caratteraccio, come capita a tutti coloro che vivono di estremi, ma credo non abbia mai peccato di una cosa: essere banale.
Non riuscivo a provare antipatia nei suoi confronti nemmeno quando si esibiva in quei suoi eccessi: come mi aveva fatto arrabbiare con le sue esternazioni a proposito della legge per i matrimoni delle coppie omosessuali, eppure la simpatia superava infine i contenuti delle sue tante battaglie che a volte condividevo e altre volte no.
Perché sto imparando – faticosamente – che per apprezzare una persona non è necessario approvare le sue azioni in toto: si può essere in disaccordo, parziale o perfino quasi totale, eppure stimarne e rispettarne l’audacia, la passione, la dedizione, la convinzione.
Ed ecco quindi che stimavo Marina Ripa di Meana esattamente come stimavo Cayetana de Alba, con luci e ombre (che tutti, peraltro, abbiamo), senza la necessità di approvare ogni parola e ogni gesto, con quella ammirazione che sento per le menti e le persone libere. Quelle che sono libere di essere sé stesse, un’audacia che agli occhi di molti appare talvolta come arroganza.
Provocatrice – l’hanno spesso definita; combattiva e battagliera – preferisco dire io, pur dubitando che un paio di parole possano descriverla, racchiuderla, raccontarla.
Guerriera – l’ha definita la figlia Lucrezia Lante della Rovere in un post affettuoso nel suo account Instagram, con una foto tanto bella, tenera e rappresentativa che mi sono permessa di prenderla in prestito.
In fondo, avevamo alcune cose in comune, la signora Marina Ripa di Meana e io.
Avevamo in comune l’allergia verso l’omologazione e – cosa buffa – abbiamo avuto modi comuni di manifestare tale allergia nelle piccole cose: l’amore per la moda un po’ alternativa e l’amore per cappellini, gioielli e bijou oltre misura e stravaganti.
Avevamo in comune l’anticonformismo e il desiderio di abbattere quel finto perbenismo, quel falso moralismo e quell’ipocrisia spesso imperanti – ahimè: lei è stata una donna che ha sfidato le convenzioni, che ha anticipato i tempi con scelte e comportamenti molto criticati e che oggi, invece, sono diventati normali. Si è goduta la vita e penso che abbia anche sofferto.
Ed è proprio per il suo saper essere tanto audace che non compresi le esternazioni sui matrimoni gay: forse, la spiegazione è da ricercare proprio nel fatto che fosse talmente sincera e talmente sé stessa da non temere né le critiche né le antipatie. Di sicuro, non le interessava essere politically correct e non aveva paura di essere contro.
A ogni modo ho affermato che occorre accettare una persona con luci e ombre e dunque confesso che se ero in dubbio circa il fatto di scrivere o meno questo post non è stato certo per quello o per altri episodi, bensì semplicemente perché non ero certa di riuscire a trovare la chiave giusta.
L’ho trovata invece ieri, guardando un frammento del video che Marina Ripa di Meana ha voluto lasciare come sua ultima testimonianza.
«Fatelo sapere» dice in quel video, con la voce rotta dalla fatica e dal dolore eppure con un ardore che è stato vivo fino in fondo.
E allora io accolgo il suo invito, fatelo sapere, e lo faccio con slancio, con passione, con ardore e con sincerità.
E le faccio volentieri spazio in questo mio umile luogo virtuale.
E dunque facciamolo sapere che la speranza di salvarsi dal cancro è data dalla medicina e dalle cure.
Riporto da una sua intervista al Corriere della Sera:
«Non ne ho mai fatto mistero. Non c’è nulla di cui vergognarsi. Se posso essere utile con la mia testimonianza, racconto la mia storia. Mi curo da anni e non sempre è stato semplice. La chemioterapia non è stata una passeggiata, ho passato momenti difficili, ma sono terrorizzata da chi dice che la chemioterapia fa male: ciarlatani, gente senza scrupoli che propone cure alternative e peraltro a scopo di lucro, perché costano e anche tanto. La mia nuova battaglia è questa, a favore della prevenzione dei tumori, che può salvare la vita: per questo è importante “vivere bene” e fare i controlli previsti. E a favore delle terapie ufficiali, contro i “venditori di bufale”.»
E facciamolo sapere che oggi, in Italia, si può scegliere la sedazione profonda, in ospedale o a casa, così come ha scelto lei dopo 16 anni di lotta contro il tumore.
«Fate sapere ai malati terminali che c’è un’alternativa al suicidio assistito in Svizzera» dice Marina Ripa di Meana nel video del quale ho accennato e del quale vi lascio il link.
Devo avvisarvi, è un video forte dal punto di vista emotivo. Eppure, secondo me, va visto.
Perché credo nel progresso, nella scienza, nella medicina.
Perché credo nella libera informazione che dà la possibilità più grande di tutte, quella di scegliere ciò che è più giusto per noi stessi.
Ecco, Marina cara, grazie per avermi suggerito lei stessa il modo giusto per darle un ultimo saluto e ora importa solo che lei e io condividessimo ciò che più conta: l’amore per la vita e l’amore per una vita che sia degna di essere vissuta.
Fino in fondo, fino all’ultimo respiro.
Che la terra le sia davvero e infine lieve.

Manu

Prima di salutare il 2017 ed entrare nel 2018, parliamo un po’ di felicità?

Giovedì scorso, prima di dare il via ai festeggiamenti per il Natale, ho stretto un importante accordo lavorativo per l’anno a venire.
La sera stessa, ero a cena con il mio amore e lui ha proposto un brindisi per quella che in effetti è un’ottima prospettiva per il 2018.
Me l’ha dovuto far notare lui, ha dovuto sottolinearlo lui e, in quel momento, ho realizzato che io non avevo considerato tale accordo come un successo, che non mi ero fermata nemmeno un istante, che non mi ero goduta il momento, che ero andata avanti a testa bassa, come al mio solito, come un bravo soldatino.
Ci sono rimasta male.

Sedersi sugli allori è sciocco, a mio avviso, nonché pericoloso, e vantarsi è ancora più insensato, ma mi rendo conto che non accorgersi quando si incassa una vittoria è altrettanto brutto.
Significa che ci si è troppo abituati alla fatica e ai ritmi folli e che si è un po’ persa la capacità di fermarsi a gioire lungo la strada.
E io non voglio essere così.

È vero, ho sempre la tendenza a mantenere un basso profilo per quanto riguarda i miei progetti, soprattutto quelli lavorativi: lo faccio un po’ per scaramanzia e un po’ perché mi piacciono le cose concrete fatte con discrezione.
E d’accordo, in fondo va bene così, però ciò che è accaduto giovedì scorso non mi è piaciuto: non voglio perdere la capacità di essere felice.
E visto che ho appena detto che mi piacciono le cose concrete, visto che mi piace agire e che non è mia abitudine nascondere la testa sotto la sabbia, visto che preferisco cercare di affrontare i miei limiti, visto che a volte sono un po’ sciocca, è vero, ma che non sono stupida del tutto (o almeno così spero!), ho deciso che l’ultimo post del 2017 doveva essere una prima, piccola risposta a quel mio problemino, parlando di una cosa molto importante: la felicità.

Che cos’è la felicità?

È una domanda che l’essere umano si pone da secoli: dai filosofi dell’antichità fino ad arrivare ai motivatori contemporanei, questo è stato – ed è tuttora – uno dei grandi quesiti della nostra esistenza.
Non preoccupatevi, non ho alcuna intenzione di cimentarmi nel dare una risposta: al limite, potrei offrirvi la mia idea di felicità (tempo fa avevo anche partecipato al giochetto 100 happy days..), ma non è questo che mi interessa, non è la mia opinione ciò che desidero condividere.

In realtà, desidero invece mostrarvi un video con l’invito a prendervi 5 minuti di tempo, per l’esattezza 4 minuti e 16 secondi.
E vi chiedo di non fare altro mentre lo guardate, di concentrarvi e di guardare bene le immagini che si susseguono prestando attenzione ai particolari: io l’ho fatto e per una volta ho evitato la mia solita attitudine multitasking (che, per inciso, uno studio recentissimo dice essere estremamente dannosa…).

È un filmato volutamente esagerato con un finale in grado di far nascere più di una domanda.
L’autore si chiama Steve Cutts e magari vi è già capitato di vedere suoi video condivisi attraverso Facebook o gli altri social network (qui ne trovate una raccolta sul suo sito): è un illustratore e animatore britannico che, attraverso i suoi disegni, punta a evidenziare vizi e paradossi della società moderna.

Ansia da produttività, consumismo, omologazione, inseguimento di falsi miti: secondo Cutts, queste sono solo alcune delle dinamiche che, come gabbie, ci imprigionano e gravano attorno al nucleo della nostra esistenza, ovvero la felicità e la possibilità di raggiungerla diventando persone veramente realizzate.

Non è casuale che il titolo del cortometraggio che ho scelto di condividere con voi sia proprio Happiness, ovvero Felicità.
Eppure, il video non parla affatto di felicità; rappresenta invece comportamenti diventati ormai di massa e che non portano certo né allegria né benessere – ciò che invece ci illudiamo di possedere.

Tutti (o quasi) abbiamo bisogno di lavorare, in primo luogo per ragioni economiche: avere un reddito è una condizione necessaria.
C’è poi chi lavora anche perché crede in un progetto e lo persegue con passione (io, per esempio, credo di potermi posizionare in questo gruppo).
E c’è chi lo fa perché altrimenti si annoierebbe oppure perché si sentirebbe privato di un ruolo preciso, quasi di un’identità.
Non voglio esprimere giudizi a riguardo: tutte le motivazioni sono lecite se portate avanti con onestà.

C’è però una domanda che, guardandoci allo specchio, tutti noi dovremmo porci.

«Sono felice? Sono una persona realizzata?»

Ci vuole coraggio a chiederselo, lo so.
E occorre prendersi del tempo, per riflettere e per darsi una risposta sincera.
Occorre fermarsi almeno un attimo, ciò che non ho saputo fare io giovedì scorso.

Però so almeno un paio di cose.
So che non è il mio lavoro a definirmi, a dire chi sono.
E so che la felicità non è una cosa o un prodotto che si possa comprare.
Spero siano buoni punti di inizio sui quali iniziare a lavorare per non ricadere negli stessi errori.

E, a questo punto, desidero fare un augurio a tutti noi e per farlo vi racconto un’ultima cosa.

Dovete sapere che, secondo il World Happiness Report 2017, la Norvegia si è aggiudicata quest’anno il titolo di Paese più felice del mondo: l’indagine, presentata in seno all’Organizzazione delle Nazioni Unite, indaga lo stato del benessere e della felicità in 155 Paesi in base a criteri quali libertà, generosità, onestà, salute, reddito, supporto sociale e buon governo.
Dopo la Norvegia, nelle prime dieci posizioni, si possono trovare Danimarca, Islanda, Svizzera, Finlandia, Olanda, Canada, Nuova Zelanda, Australia, Svezia.

(Se ve lo state chiedendo, l’Italia è al 48esimo posto…)

Avete fatto caso che, nell’ambito di questa indagine, il reddito (e dunque il lavoro) è solo uno dei tanti criteri che concorrono a determinare il grado di felicità e che altri – libertà, generosità, onestà – riguardano piuttosto la sfera dei rapporti interpersonali?

E allora il mio augurio per il 2018, a voi e a me stessa, è questo.
Circondarci di persone che vogliano sinceramente il nostro bene e che rispettino le nostre scelte.
Riuscire a ritagliarci tempo.
Avere consapevolezza di noi e di ciò che desideriamo davvero.
E lo auguro a tutti noi sperando che ciò ci metta sulla strada di benessere, realizzazione e felicità.

La vostra Manu

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