Pillole di mondo: la borsa vintage e i francobolli Sperry and Hutchinson

Scorcio della mia borsa e dei francobolli Sperry and Hutchinson

Oggi voglio raccontarvi una piccola storia curiosa.

Da tanti anni, ormai, faccio i miei acquisti non solo offline (nei negozi fisici) ma anche online (via web): uno dei primi canali che ho utilizzato è stato per esempio Etsy, marketplace di articoli che spaziano dai prodotti fatti a mano fino ai tesori vintage.
Ho un account da più di 10 anni, i miei primi acquisti risalgono al 2009 e sono grata a Etsy per avermi dato una splendida possibilità, quella di entrare in contatto con creativi di tutto il mondo senza sentirmi limitata da distanze fisiche e geografiche.
Oggi – lo confesso – demando questo compito soprattutto a Instagram che offre un’immediatezza e una facilità di ricerca davvero straordinarie: noto con piacere che molti account rimandano comunque a Etsy e ad altri marketplace similari.

Recentemente, attraverso Instagram, ho trovato una borsa Anni Cinquanta ricamata ad ago con un motivo di frutta e fiori: abitualmente, tali borse hanno dimensioni medio-piccole mentre questa ha colpito la mia attenzione per essere piuttosto grande oltre che per le sue ottime condizioni di conservazione.
Al suo interno, specificava la venditrice, c’è ancora il set originale composto da pettinino, specchio e portamonete.
Insomma, è scattato il colpo di fulmine e, dopo una breve trattativa, ho deciso di adottarla: quando la borsa è arrivata si è confermata un ottimo acquisto in quanto perfettamente rispondente alla descrizione, alle foto pubblicate e alle mie aspettative.
Al suo interno c’era il set specificato nonché un altro minuscolo dettaglio che diventa l’oggetto di questo post: tre piccoli francobolli verdi con la scritta Sperry and Hutchinson e la dicitura ‘discount or cash’.

Lo ammetto, non avevo mai visto simili francobolli ed è scattata la mia curiosità intellettuale: ho digitato il nome Sperry and Hutchinson in Google e mi si è aperto un mondo, quello che desidero condividere con voi, cari amici.

Ho scoperto che la Sperry and Hutchinson (in acronimo S&H) era una società fondata negli Stati Uniti nel 1896 da Thomas Sperry e Shelley Byron Hutchinson: la società era specializzata in francobolli commerciali, ovvero piccoli francobolli di carta dati ai clienti dai commercianti per concretizzare programmi di fidelizzazione che hanno preceduto le moderne carte fedeltà.

Singolarmente, i francobolli avevano un valore minimo equivalente a pochi millesimi di dollaro ma, quando un cliente ne accumulava un certo numero, essi potevano essere scambiati con premi quali giocattoli, oggetti personali, articoli per la casa, mobili ed elettrodomestici.
La Sperry and Hutchinson iniziò a offrire francobolli ai rivenditori statunitensi già dall’anno della propria fondazione: le organizzazioni di vendita al dettaglio che distribuivano i francobolli erano principalmente supermercati, stazioni di rifornimento di benzina e negozi che compravano i francobolli dalla S&H e li davano come bonus agli acquirenti in base all’importo dei loro acquisti. Leggi tutto

Adalgisa De Angelis, i Sogni d’Arte di un’anima bella

Sono molto felice, oggi, di scrivere questo post.
Volete sapere perché?
Perché racconta di una persona che stimo: stimo molto Adalgisa De Angelis – questo è il suo nome – e sono incuriosita e attratta da lei, dai suoi progetti e dal suo lavoro.
Per me le persone sono più importanti di ogni cosa e sono il nucleo di tutto: sono inoltre fermamente convinta del fatto che i bei progetti si sviluppino attorno alle belle persone e Adalgisa lo è, è una bella persona
Avere l’opportunità di parlare di una persona interessante mi dà dunque gioia.

Tra l’altro, racchiudere Adalgisa De Angelis nello spazio di un post è un’impresa alquanto ardua (vedrete quanto sfaccettata sia la sua creatività), ma ci provo.

È un’impresa perché Adalgisa, fondatrice di un progetto artistico e creativo che si chiama Sogni d’Arte, è una persona davvero poliedrica che non ha mai avuto paura di sperimentare in ambiti che – al momento! – comprendono la moda, il gioiello, il design e l’arte.

Dopo studi artistici, Adalgisa ha iniziato la sua avventura nel 1994 aprendo uno spazio nel centro storico della sua città, Salerno, ridando nuova vita a tutto ciò che la ispirava (vecchi mobili inclusi), mentre da vecchi tessuti ha iniziato a creare borse, gioielli e cappelli.
Poco tempo dopo, ha iniziato a portare le sue creazioni in varie fiere tra cui il Macef di Milano, vendendo in tutto il mondo: i suoi accessori sono stati immortalati su tante riviste di moda tra le quali Elle, Glamour, Vogue, Gioia, Donna Moderna, Grazia.
Ha anche iniziato a creare accessori e costumi per vari spot, film, spettacoli teatrali, programmi e serie televisive; alcune sue creazioni sono in vendita anche presso i book shop di vari musei.

Nel 2013 è diventata Maestro Artigiano e dal 2016 ha ripreso la sua grande passione: l’arte.
Ha già esposto le sue opere – quadri, arazzi, installazioni – in varie mostre ed eventi tra cui la Biennale di Venezia e Paratissima a Torino: ha esposto a Milano, Padova, Parma, Modena e anche a Siviglia, in Spagna.

Nel lavoro di Adalgisa De Angelis identifico l’utilizzo di diversi materiali (tra i quali la carta e il tessuto), diverse tecniche (tra le quali gli arazzi e le lavorazioni con la 3D pen) e diverse tematiche (tra le quali il viaggio in ogni sua sfumatura): cercherò di raccontarvi tutto (o quasi) procedendo con ordine.

Partiamo dai materiali, ovvero la carta e il tessuto.
Con la carta, Adalgisa costruisce delle barchette, quelle a origami che tutti noi abbiamo probabilmente fatto o provato a fare da bambini.
Quella adoperata da Adalgisa è carta alla quale lei dona una seconda vita: fumetti vintage e libri antichi oppure biglietti del tram, da Salerno (la sua città di nascita) fino a Milano (la sua città d’adozione).

Perché la carta? Leggi tutto

Shine bright like… Deyemond??? Allora scegliete Eilish di Alice Canapa!

Ammiro chi, oggi come oggi, ha l’ardire di lasciare il certo per l’incerto.
Ammiro chi, oggi come oggi, rinuncia a un mestiere diciamo prestigioso (tipo medico, avvocato, commercialista, ingegnere..) per inseguire i propri sogni (tipo aprire un piccolo brand artigianale).
Ammiro chi ha questo ardire o questa follia, lascio a voi decidere di quale delle due cose si tratti.

Anche per esperienza personale, vi dico che ci vuole una dose di entrambi quasi nella stessa misura: ebbene sì, ammetto che bisogna essere un po’ pazzerelli per rinunciare, oggigiorno, a un posto fisso con stipendio certo, per esempio, eppure non è detto che la sicurezza economica sia tutto o che ci garantisca felicità.
Io, nel posto fisso, stavo rischiando di impazzire e di consumarmi, giorno dopo giorno e anno dopo anno, e ho fatto una scelta folle eppure coraggiosa, composta per una metà di rinunce e per l’altra metà di riconquista della mia vita.
Tornerei indietro? No, mai. Sono più felice oggi? Sì e posso dirlo dopo aver provato entrambe le situazioni.
Ho fatto la scelta giusta? Sì, ho fatto la scelta giusta per me (non pretendo che lo sia in assoluto) e lo dimostra il fatto che, nonostante nessuno sia libero al 100% da un qualche fardello (nel mio caso l’eterna incertezza economica da lavoro autonomo), affermo con decisione e sicurezza che non tornerei indietro e che sono più felice ora (e non di poco) rispetto a quando prendevo 14 mensilità da stipendio fisso pagato con puntualità ogni 27 del mese.

Con questo, non pretendo di dare lezioni di vita a nessuno, lo voglio dire molto chiaramente: ogni caso è a sé e, se qualcuno mi chiedesse consiglio, non suggerirei mai né l’una né l’altra scelta, ma suggerirei piuttosto di essere molto onesti, sinceri e obiettivi per quanto riguarda le proprie personali esigenze e i propri personali obiettivi.
Per questo dico di aver fatto la scelta giusta ma giusta per me.

Detto tutto ciò, ammetto di avere un debole e un’attrazione verso tutti coloro che hanno avuto il coraggio e la follia necessari per fare il grande salto cambiando il corso di una vita che poteva sembrare già tracciata: mi piace raccontare le loro storie e, stavolta, desidero raccontarvi quella di Alice Canapa, la fondatrice del brand Eilish.

Ancora una volta, le nostre strade, la mia e quella di Alice, si sono incrociate grazie al web e, precisamente, grazie a Instagram: conducendo le solite ricerche di oggetti e persone che siano capaci di catturare il mio immaginario, sono capitata sul suo account e sono stata colpita da tre sue affermazioni.

La prima – «Creo gioielli per portare nel mondo un po’ di autoironia», argomentazione che mi piace moltissimo perché considero l’autoironia come un ingrediente fondamentale in ogni impresa.
La seconda – «Credo fermamente negli unicorni», dimostrazione che Alice crede – come me – che ciò che spesso viene considerato impossibile possa invece diventare possibile.
La terza – «Glitter addicted»… e vuoi dirlo, cara Alice, a una che ha chiamato il suo spazio web A glittering woman? 😀

Detto fatto, in cinque minuti, dopo aver curiosato tra le foto di Instagram, ho cliccato sul link del negozio virtuale di Eilish su Etsy, il portale dedicato ad artigianato e vintage: lì ho scoperto un bel po’ di cose.

Alice racconta di essere nata nel luglio del 1987 a Osimo, uno splendido paesino nelle campagne marchigiane, vicino ad Ancona: è un’artigiana orafa ed è la fondatrice – appunto – del brand Eilish.

La sua passione per l’arte orafa nasce in parte grazie alla mamma che è amante dei gioielli e in parte per un grande amore di Alice stessa per tutto ciò che è a artigianato.
Accantonata la laurea in ingegneria (vedete che il mio citare gli ingeneri in principio non era poi del tutto casuale..), la nostra Alice ha capito che il suo lavoro doveva essere quello di orafa: si è rimessa a studiare e, dopo un diploma in oreficeria, ha cominciato pian piano a costruire il suo laboratorio.

Per Eilish, fa tutto da sola: disegna e crea i gioielli che sono principalmente in argento e ottone, gestisce i negozi online, spedisce, cura i social (l’account Facebook oltre al già citato Instagram) e i contatti con i clienti.
Il tutto avviene nel suo studio, «accanto al caminetto, al primo piano della mia casa».

I suoi gioielli rigorosamente artigianali parlano (molto) di lei: la sua follia (e lo dice lei!), la sua autoironia, il suo amore per il glitter e per il colore rosa…tutto si mescola aiutandola a creare accessori particolari e che non passano certo inosservati, perché i pezzi Eilish nascono con lo scopo di far sentire unica ogni donna grazie a un design moderno pensato per brillare in ogni occasione.

Negli ultimi anni, Alice ha anche cominciato a tenere dei workshop attraverso i quali insegna tecniche base di oreficeria: la sua idea è far capire che ogni persona è in grado di creare qualcosa con le proprie mani, anche chi si definisce negato (devo andare a trovarla…).
Dato il successo di questi workshop, all’inizio del 2014 e sempre a Osimo, è stata tra le fondatrici dell’associazione culturale Il Canapaio, un luogo in cui vengono organizzati laboratori in cui i creativi, locali e non, insegnano la loro arte.
Insomma, Il Canapaio (vi lascio anche l’account Instagram) è uno splendido esempio di vero spirito di condivisione, proprio come piace a me.

Forse, qualche lettore particolarmente attento (grazie ) ricorderà quando ho raccontato della mia malattia (ehm…) mania per gli occhi: infatti, tra le creazioni di Alice, ho scelto e acquistato (per ora…) un pezzo della linea Deyemond, ironico gioco di parole tra diamond e eye.
Nella foto in apertura, vedete pertanto la sottoscritta che indossa la collana con occhio in argento 925 disegnato da Alice: la nappina si può scegliere in cinque diverse varianti colore, mentre l’occhio è disponibile anche nella versione ottone placcato oro giallo.

Se vi piace la collana, la trovate qui e potrete apprezzare anche il motto scelto da Alice per questa sua linea, giocando un po’ con il ritornello di un celebre brano della cantante Rihanna: Shine bright like a diamond è diventato Shine bright like Deyemond.

Lo confesso: adoro Alice nonché la bravura e l’ironia che ha riversato in Eilish.

Meno male che non ha fatto l’ingegnere anche se, magari, sarebbe stata bravissima anche a fare quello.

Manu

Elogio del micro: Giovanna Checchi e i suoi Little Bit Bijoux

Come si evince facilmente dalle foto che condivido attraverso il mio account Instagram e come ammetto molto apertamente, ho una gran passione per gli anelli dalle dimensioni importanti, come li definisco io, o vistosi, come li definiscono (peraltro giustamente) altre persone.
Li amo talmente tanto da averne ricavato anche due post pubblicati nel blog (qui e qui) e, sebbene la mia ormai vastissima collezione (portata avanti con entusiasmo da quando avevo 15 anni) sia estremamente eterogenea quanto a forme, materiali e dimensioni, in effetti a prevalere sono proprio quelli che molti chiamano statement ring oppure cocktail ring – anche se le due tipologie non sono esattamente la stessa cosa.

Statement significa dichiarazione oppure affermazione e, abbinato all’ambito gioiello, va a indicare quei pezzi che, in effetti, sono una sorta di affermazione di importanza o affermazione di visibilità: statement ring indica dunque tutti quei pezzi che si fanno notare e che attraggono lo sguardo, non necessariamente o non esclusivamente per un valore economico, tanto da essere diventato anche un hashtag molto utilizzato proprio in Instagram.

Il discorso è un po’ diverso – e secondo me più affascinante – per quanto riguarda i cocktail ring e soprattutto le loro origini.
Anch’essi grandi, sfacciati ed eccentrici, in origine i cocktail ring erano permessi solo dopo l’ora del tè, da portare rigorosamente alla mano destra.
Cocktail ring, letteralmente anello da cocktail, è la definizione che ha sempre accompagnato il monile dall’epoca del proibizionismo americano, ovvero quel periodo fra il 1919 e il 1933 in cui negli Stati Uniti venne sancito il bando sulla fabbricazione, la vendita, l’importazione e il trasporto di alcool: furono anni in cui divenne estremamente seducente e affascinante l’idea di indossare tali anelli esagerati per partecipare a feste clandestine.
In queste occasioni, in ambienti estremamente selezionati, si poteva esporre tutto ciò che era considerato illegale: per quanto riguarda l’anello, più era prezioso e originale maggiore era il fascino di chi lo sfoggiava, in modo direttamente proporzionale.
I tempi cambiarono, il proibizionismo finì, ma il cocktail ring mantenne il suo fascino e continuò a essere presente nelle feste dell’alta società degli Anni Cinquanta – Sessanta.
Oggi non ci sono più veti assoluti, il galateo non è più vincolante come un tempo e prevale l’espressione della nostra singola personalità: capita che tutti gli anelli grandi vengano definiti cocktail ring in nome di queste intriganti origini e delle dimensioni importanti, ma in realtà, dal punto di vista tecnico, non è proprio così.
Inizialmente, per essere definito da cocktail, un anello doveva infatti essere non solo oltremodo grande ma anche essere dotato di una pietra preziosa incastonata a griffe, quel tipo di montatura che prevede che la gemma venga inserita all’interno di una corona costituita da un numero variabile (in genere da tre a sei) di punte equidistanti che formano una base a forma di cestino: inoltre, andava portato assolutamente a destra, ripeto, all’anulare o al dito medio.
Pian piano, sebbene la rigidità dell’etichetta sia andata scemando, è rimasto proibito portarlo all’anulare sinistro, dito dedicato esclusivamente agli anelli del cuore, ovvero la fede e l’anello di fidanzamento.
Attualmente non è necessario che il cocktail ring sia costoso: rimarrebbe invece valido, per godere dell’appellativo, che conservasse le caratteristiche della grande pietra (che siano gemme oppure pietre semi-preziose oppure cristalli) e della montatura a griffe.
Dunque, sarebbe forse meglio definire i grandi anelli moderni semplicemente come statement ring.

Chiudo qui la divagazione storico-sociale che spero abbia affascinato e incuriosito anche voi, miei cari amici che leggete, e torno a noi …
Scherzando (ma non troppo) affermo spesso che, prima o poi e appena metto da parte un gruzzoletto, consulterò uno psicologo allo scopo di dare un perché alla mia mania per gli anelli enormi… poi, invece, spendo (quasi) tutto quanto in bijou (enormi!) e allora volete sapere una cosa? Mi sono fatta una diagnosi da sola…
Perché mi piacciono gli anelli esagerati?
Ma perché sono esagerata in tutto ciò che mi riguarda: sono fedele a persone, cause e ideali fino allo spasmo, amo con ogni centimetro e ogni grammo della mia persona, sono logorroica, gesticolo troppo, faccio un sacco di smorfie con il viso, sono una collezionista seriale e, quando faccio shopping, a volte compro non una ma due cose… volete mettere il gusto di avere una maglia che mi piace in due colori?
Insomma, sono un vero disastro…
(Ditemi però che non sono l’unica, vi prego, ad avere la mania del doppio colore…)

Non solo, oltre a essere (un tantino) esagerata in ogni mia manifestazione, ho un altro significativo difetto: non ho mezze misure.
Passo da un estremo all’altro e dunque passo dalla passione per i bijou fuori misura alla passione per quelli piccoli, leggeri, delicati, poetici, ovvero quelli che riescono, in pochi centimetri e in maniera inversamente proporzionale alle loro dimensioni micro, a contenere e sussurrare milioni di suggestioni.

E così, stavolta, un’amante del macro si innamora del micro e ne fa un sincero elogio per un motivo ben preciso: Giovanna Checchi, l’anima di Little Bit Bijoux, il marchio che vi presento, è capace di miniaturizzare mondi interi – soprattutto fiori e origami – racchiudendoli in piccole sfere, semisfere, boccette da portare al dito, al collo, al lobo.

Classe 1981, stilista freelance di abbigliamento per bambini, Giovanna vive a Milano con il suo compagno e i loro bimbi.
Si definisce curiosa e sognatrice, appassionata di viaggi, disegno, musica e DIY (l’acronimo di do it yourself, equivalente dell’italiano fai da te).
Creatività e fantasia sono eterne costanti della sua vita.

Quello da stilista di abbigliamento bimbo è un lavoro che Giovanna ama, ma desiderio e bisogno di creare direttamente con le mani l’hanno portata a dar vita a Little Bit Bijoux.
Nel suo negozio su Etsy, il grande portale particolarmente dedicato al fai da te, si possono trovare i suoi bijou interamente fatti a mano, realizzati con passione, amore e cura per il dettaglio (letteralmente!): l’intento è offrire un prodotto bello, originale e ben rifinito, pezzi unici come unica è l’ispirazione da cui nascono e unica è la personalità di ogni donna che sceglierà di indossarli.

I fiori utilizzati sono tutti veri, pressati, essiccati e trattati in modo tale che rimangano invariati nel tempo.
Alcuni sono raccolti e lavorati direttamente da Giovanna, altri vengono da lei acquistati da fornitori di sua fiducia, esperti e competenti.
Anche i piccolissimi origami – soprattutto gru e barchette – racchiusi sotto le campane di vetro sono opera delle sue pazienti manine e sono realizzati con carte di riso esclusivamente di origine giapponese.
Non solo: Little Bit Bijoux nasce per soddisfare sogni e desideri, quindi le richieste dei clienti sono ben accette e Giovanna fa fronte anche a ordini personalizzati.

Chi mi conosce sa che, monili a parte, il mare è forse la mia più grande passione: nonostante sia nata in una grande città, mi trasferirei volentieri in un posto di mare e dico di avere l’acqua salata nelle vene insieme al sangue.
Amo il mare in ogni stagione e a qualsiasi latitudine: amo tutto ciò che me lo ricorda, la sabbia, le conchiglie, le barche – e non solo quelle vere.
Quand’ero bambina mi hanno insegnato a fare le barchette di carta e ne ero tremendamente affascinata: credo di averne fatte a centinaia, forse a migliaia, di ogni dimensione e colore.
Quando ho visto quelle in miniatura di Little Bit Bijoux… non ho potuto resistere.
Ho contattato Giovanna e le ho chiesto, oltre al pendente, se fosse possibile avere un anello poiché adoro combinare questi due monili: lei ha accettato e ha creato un anello che ha fatto decisamente capitolare una fan sfegatata degli statement ring.

Vi lascio con piacere il link di Little Bit Bijoux su Etsy (il negozio, tra l’altro, è aperto dal 2014) nonché il link del relativo account Facebook e il link di quello Instagram che è il luogo virtuale in cui prediligo fare ricerche e che – come in tanti altri casi – mi ha fatto trovare Giovanna: poi, siccome lei è di Milano come me, sono andata a trovarla di persona e lì, trovando una persona appassionata, entusiasta e capace, è scattata la seconda scintilla che ha fatto sì che io abbia deciso di scrivere di lei.
Se volete i miei stessi monili, quelli che vi mostro nella foto che apre il post, qui trovate la collana con la sabbia e la barchetta e qui l’anello.

Ah, a proposito di acquisti doppi…
Ma se, visto che amo gli origami, dopo la barchetta, io acquistassi anche la collana con la gru?
(Non c’è nulla da fare, sono proprio incorreggibile…)

Manu

Agnese Taverna e la forza dei suoi gioielli dal sapore tribale

A volte è necessario avere pazienza.

Pazienza affinché certe cose seguano il loro corso, affinché una conoscenza abbia tempo e modo di essere approfondita, affinché un cerchio o un percorso si completino.

L’ho imparato negli anni e cerco di tenerlo a mente, fatto importante per una persona come me, impaziente e impulsiva di natura.
Una persona che vorrebbe riuscire a fare tutto subito, ma che – naturalmente – non potrebbe riuscirci nemmeno se le giornate fossero fare di 48 ore.

Esordisco così, oggi, perché quando ho incontrato Agnese Taverna e il suo lavoro, ero certa che avremmo avuto modo di conoscerci meglio, sebbene quel primo istante non fosse forse il momento giusto.

L’incontro con Agnese è avvenuto grazie a uno dei miei progetti preferiti, ovvero Ridefinire il Gioiello, e grazie a Sonia Catena, ideatrice, curatrice e vera anima di tale progetto.

Ridefinire il Gioiello è nato nel 2010 e negli anni è diventato un importante punto di riferimento nella sperimentazione materica sul gioiello contemporaneo e d’arte nonché un’interessante vetrina per artisti e designer.

È un progetto itinerante che promuove creazioni esclusive, selezionate dalla giuria e dai partner per aderenza a un tema (sempre diverso) nonché per ricerca, innovazione, originalità ideativa ed esecutiva: gioielli tra loro molto diversi per materiali impiegati vengono dunque uniti di volta in volta grazie a una tematica comune, sempre interessante e stimolante. Leggi tutto

Le mie scelte in pillole: Baulhaus e la bellezza dell’ironia intelligente

Adoro l’ironia.
Quella intelligente, però.
Quella sana.
Quella ben fatta, l’ironia che mira a costruire divertendo e non a distruggere per pura cattiveria.

Dunque, quando mi sono imbattuta nei gioielli in ceramica di Laura Bosso alias Atelier Baulhaus, ho sentito che era nato un amore a prima vista.
Prendete la collana con pendente qui sopra: è perfetta per me, grazie al suo messaggio ironico.
«Non MOLARE mai»
Già.

Baulhaus è un progetto nato nel 2015 e dà vita a gioielli irriverenti e originali, con un design che spazia da suggestioni pop al rockabilly Anni Cinquanta, creando anche un punto di incontro tra scultura e illustrazione.
Rigorosa e tradizionale qualità Made in Italy, bon-ton francese, humour inglese: sono gli ingredienti principali delle ceramiche artigianali di Laura, fatte a mano, capaci di mostrare e dimostrare come un materiale da molti ritenuto fragile e pesante possa in realtà essere estremamente versatile, divertente e divertito.

Il design irriverente ma allo stesso tempo sofisticato delle creazioni Baulhaus sfida infatti il luogo comune che vuole che la ceramica sia prettamente legata alle suppellettili per la tavola e ai complementi d’arredo, ricollocandola invece nell’universo dell’accessorio per la persona.

«I Baulhaus – racconta Laura – non sono semplici oggetti da indossare: sono dotati di una forte base concettuale e auto-ironica. Così, i possessori possono vestirsi di eleganza e originalità, divertendosi allo stesso tempo.»

La sua creatività propone un viaggio tra peperoncini, limoni, medaglioni anti-buonismo, rivisitazioni di cuori ex voto e ispirazioni provenienti dalla cultura del Novecento, come per esempio i riferimenti alla (grande) Frida Kahlo.

Io che sono allergica a cliché, pregiudizi e omologazione, penso da tanto tempo che la ceramica sia anche meglio quando è applicata al gioiello, soprattutto se con l’aggiunta di un tocco ironico, e così Atelier Baulhaus è entrato a pieno titolo nella mia collezione e tra i miei pezzi preferiti.

Sto già dunque meditando sul mio prossimo acquisto: un medaglione I’m not anti-social, I’m anti-idiots oppure le spille Les Filles ispirate alle note di Jacques Brel oppure la collana con crudité varie?
E, intanto, non mi separo più dal mio molare.

Non ci credete?
Guardate qui, qui e qui, perché l’ironia (intelligente, lo ribadisco) si abbina bene a ogni outfit, senza controindicazioni.
Come il cacio sui maccheroni, insomma 😉

E se anche voi avete voglia di un’iniezione di leggerezza (da non confondersi con la superficialità), condivido con piacere tutti i modi per contattare Laura: qui trovate il sito Baulhaus, qui la pagina Facebook, qui l’account Instagram (e attraverso entrambi noterete che per Laura l’ironia è uno stile di vita, evviva) e qui il suo negozio online su Etsy (proprio dove io ho comprato il molare).

E vi segnalo anche che, per tutto il mese di agosto, Laura ha attivato una promozione speciale proprio su Etsy: utilizzando il codice Summerblh al check out, si potrà godere dello sconto 20%.
E poi non dite che non sono un’amica, condivido con voi chicche delle quali dovrei essere gelosa: la voglia di condividere, però, prevale sempre.

E allora, in quest’ottica di condivisione, vi do appuntamento alla mia prossima scelta in pillola 🙂

Manu

Le mie scelte in pillole: Officine Gualandi e le dipendenze positive

Ci sono cose che creano dipendenza, a volte in negativo e altre – per fortuna! – in positivo.
Officine Gualandi, il marchio 100% Made in Italy del quale vi parlo oggi, rientra decisamente e ampiamente nel secondo caso, quello delle dipendenze positive.

Dopo aver acquistato da loro un primo anello-bottone in ceramica smaltata (lo vedete qui e qui), ho capito che non sarebbe rimasto… solo a lungo: infatti, appena ho visto un secondo anello a righe (quello della foto qui sopra e che potete vedere anche qui e qui), non ho potuto resistere!
Colori vivaci e brillanti, forme accattivanti, prodotti ben fatti: questi sono alcuni degli elementi del lavoro di Officine Gualandi, elementi che vanno a creare un capitale di positività enorme la quale, a sua volta, dà luogo a dipendenza.
Anche perché, ora che sono al secondo acquisto, so di poter contare sulla qualità del loro lavoro così come sulla loro professionalità e gentilezza.

Renato Di Tommaso (disegnatore, scultore, designer), Simone Vetromile (graphic designer e social media manager) e Tania Vetromile (storica dell’arte con esperienza in comunicazione e organizzazione di eventi) vivono a Roma e insieme hanno creato Officine Gualandi, progetto che mette insieme le loro passioni, gli interessi, le abilità e le esperienze eterogenee.

Nato nel 2012, il loro laboratorio creativo progetta e realizza complementi di arredo e accessori di design che comprendono anche bijou.
Il trio dedica una speciale attenzione ad alcune lavorazioni artigianali e ad alcuni materiali: in particolare, la ceramica è protagonista di creazioni non solo 100% Made in Italy, come scrivevo in principio, ma anche 100% frutto dell’ingegno e delle scelte Made in Officine Gualandi.

«Serialità e unicità del manufatto, per noi, non sono estremi che si escludono, ma strategie produttive che si intersecano, in una continua vocazione alla ricerca e alla sperimentazione»: così raccontano e trovo che il loro punto di vista sia molto interessante.
È vero, non è detto che serialità e unicità siano estremi che si escludono, non se a fare da trait d’union sono qualità e cura.

«Il lavoro procede accorciando le distanze fra i diversi ambiti di produzione e relazione – continuano – e manteniamo vicine le idee alle mani e alle macchine. Crediamo nella nuova fioritura artigianale, in cui la manualità non è altro rispetto alla preparazione e formazione intellettuale.»
Bravi ragazzi, questa è musica per le mie orecchie!

Insomma, cari amici che mi fate il dono di leggere ciò che scrivo, la conclusione è che Officine Gualandi è consigliatissimo e rientra a pieno titolo tra le scelte in pillole che vi sto più o meno scherzosamente somministrando in questa calda estate.
Se anche voi – come me – credete che la bellezza sia una delle poche dipendenze che valga la pena di coltivare, allora avete trovato l’azienda e i prodotti giusti!

Come sempre, però, mi piace che siate voi che state leggendo a verificare in prima persona e ad avere l’ultima parola: io mi limito a condividere e a suggerire ciò che amo e per questo vi lascio volentieri tutti gli estremi di Officine Gualandi, perché possiate farvi la vostra opinione.

Qui trovate il loro sito (nel quale peraltro trova posto anche un interessante blog); qui trovate la pagina Facebook, qui l’account Instagram, qui quello Twitter.
E se anche voi amate lo shopping via web, vi lascio anche il link del negozio virtuale Officine Gualandi nel marketplace Etsy, proprio dove ho comprato i miei due anelli.

A me non resta che darvi appuntamento alla mia prossima scelta in pillola 🙂

Manu

Curiosità dal mondo: l’invasione (pacifica) degli Amigurumi

Uncinetto.
Lo so, basta leggere questa parola e tante persone pensano immediatamente a qualcosa di datato.
Ad alcuni tornano in mente le immagini della nonna impegnata a sfornare centrini di ogni tipo, colore e dimensione. Quelli che, negli anni, sono poi spesso finiti in cassetti dimenticati.
Nulla è però più lontano dallo scenario attuale: l’uncinetto vive infatti evoluzioni del tutto inaspettate.

Avete mai sentito parlare, per esempio, degli Amigurumi?
Il termine è composto dalle parole giapponesi ami, che significa lavorare a maglia o all’uncinetto, e nuigurumi, che significa peluche: è pertanto traducibile come giocattoli lavorati all’uncinetto.

Amigurumi descrive quindi l’arte giapponese di creare all’uncinetto o a maglia sia animali sia piccole creature dall’aspetto generalmente antropomorfo (ovvero con sembianze umane): fondamentalmente, le creazioni non hanno un uso pratico e vengono collezionate più che altro per ragioni estetiche.

Caratteristica comune a tutti gli Amigurumi è infatti quella di essere kawaii: è un’altra espressione giapponese e indica un concetto assimilabile all’equivalente inglese cute. Significa letteralmente carino, amabile, adorabile.
Ciò che è kawaii è piccolo, buffo, dall’aspetto innocente, con fattezze minute e deliziose ed è ricco di dettagli e particolari.

Mi sono informata in rete e ho scoperto che gli Amigurumi sono solitamente realizzati all’uncinetto con la tecnica della lavorazione in tondo: possono essere lavorati ai ferri anche in questo caso lavorando circolarmente.
Gli uncinetti e i ferri utilizzati sono leggermente più piccoli della norma poiché è necessario costruire una struttura che tenga ben stretta al suo interno l’imbottitura (simile a quella dei cuscini).
Sono inoltre in genere lavorati suddivisi in parti che successivamente vengono unite: quelli che hanno soltanto testa e busto senza altri arti possono essere trattati come un unico pezzo.

Da qualche anno, la pratica degli Amigurumi sta ormai spopolando ben oltre i confini giapponesi.

Per avere la prova è sufficiente fare un piccolo esperimento con Google: provate a digitare Amigurumi e il motore di ricerca vi proporrà circa 36 milioni di risultati.

Stessa cosa su Etsy, il marketplace nel quale persone di tutto il mondo si incontrano per vendere e comprare articoli fatti a mano e oggetti vintage: qui siamo a quota 64 mila risultati (1200 circa restringendo la ricerca ai venditori italiani).

Instagram non fa eccezione, naturalmente: basta digitare #amigurumi perché il social della comunicazione visiva proponga risultati molto interessanti.
Quanti? Oltre un milione e 700 mila.

Volete qualche esempio pratico?

Io mi sono innamorata di Mei, una ragazza giapponese che non solo realizza Amigurumi deliziosi ma li fotografa anche in modo estremamente accattivante.
Dal suo account @amigurumei si può accedere anche al sito; Mei ha inoltre scritto un libro che si chiama Hello Kitty Crochet.

Visto che io ADORO letteralmente i Minions, per illustrare questo post ho scelto una creazione di Olka, un altro splendido talento proveniente dall’Ucraina: vi segnalo il suo account che si chiama @aradiyatoys e dal quale si vede la sua grande passione per il colore e per i personaggi di fantasia come appunto i miei piccoli amici gialli.
Da Instagram accedete anche al negozio Etsy di Olka che tra l’altro vende gli schemi per realizzare i suoi Amigurumi, schemi che costano davvero pochissimo.

Volete anche qualche nome italiano?

Tornando a Etsy, provate a dare un occhio a Mary’s Amiland (da Verona, Veneto), a Brama Crochet (da Firenze, Toscana), a Amy Mamy Creations (da Castelluccio Inferiore, Basilicata) e a Creo Ergo Sum Design (da Ragusa, Sicilia).
Come vedete, è rappresentata tutta l’Italia da nord a sud: ve l’ho detto che la passione è ormai sparsa ovunque a macchia d’olio.

Su Instagram, sto tenendo d’occhio anche @ohioja alias Ylenia Tagliafraschi (da Prato, Toscana).
Ho visto alcune sue creazioni trasformate in spille e la cosa mi stuzzica non poco.

La combinazione di due cose che mi incuriosiscono e mi piacciono (Amigurumi + monili) potrebbe essere mooolto pericolosa, in effetti.

Dunque, parafrasando una frase famosa, potrei dire «posate gli uncinetti e nessuno qui si farà male!» 😀 😀 😀

Mie stupide battute a parte: spero che queste creature vi siano piaciute e vi do appuntamento al prossimo post con qualche altra curiosità dal mondo scovata per arricchire sempre più la nostra wunderkammer virtuale.

Manu

P.S.: Mi sono ricordata di una cosa. Quand’ero bambina, osservavo mia nonna intenta a lavorare non solo i centrini citati in principio, ma anche delle bamboline: testa e corpo erano fatti con fili di lana intrecciati tra loro, mentre abiti e cappelli venivano pazientemente tricottati a uncinetto. Cosa dite, posso considerare mia nonna come una pioniera degli Amigurumi? 😀

 

Paolin SS 2017, il viaggio continua tra sogno e realtà

Era gennaio 2015, dunque esattamente due anni fa, quando ho conosciuto Francesca Paolin e ho ospitato il suo lavoro parlandone in un post per il blog.
Visto che amo continuare a seguire – e a sostenere – il percorso dei designer nei quali credo, oggi inizio questo nuovo post indossando e presentando un’altra delle sue leggiadre creazioni ottenute con la tecnica della stampa 3D. Scommetto che non è poi così difficile immaginare il nome dell’anello (… Butterfly!): direi che la forma è piuttosto suggestiva e intuitiva.
Mi fa piacere sottolineare un’altra cosa: la busta con le coloratissime sferette di polistirolo è il packaging dell’anello, a riprova del fatto che alcune persone sprizzano originalità e creatività da ogni poro, a 360 gradi e in tutto ciò che fanno.

Come ho già avuto modo di raccontare, Francesca è cresciuta tra la moda degli eccessi degli anni ’80 e il conseguente minimalismo di reazione degli anni ’90: ha coltivato la sua passione osservando la madre intenta a confezionare abiti, a lavorare a maglia, a realizzare a mano ricami raffinati così come aveva imparato dalle signore della nobiltà veneziana.
Allo stesso tempo, però, Francesca era affascinata dalla figura del padre e dai suoi abbinamenti di capi moderni e vecchi: senza dubbio, suo padre era un antesignano e aveva capito con un certo anticipo che il mix & match tra nostalgia e personalità sarebbe diventato un certo modo di essere, pensare e vivere. Oggi, quel certo modo si chiama vintage.

Grazie al suo talento, lo IED – Istituto Europeo di Design le ha offerto una borsa di studio per il diploma in Fashion and Textile Design: in seguito, ha ricevuto un’altra borsa di studio per il master in Fashion Design dalla Domus Academy.
Le sue esperienze professionali comprendono collaborazioni con designer e marchi di moda in tutto il mondo, dal Regno Unito all’Ecuador: nel 2011, ha vinto il premio Levi’s Womenswear Award al Mittelmoda, uno dei più accreditati concorsi internazionali per stilisti emergenti e studenti in fashion design.

A seguito di questo intenso vissuto tra figure per lei importanti e percorsi di studio e lavoro, Francesca ha sentito che era giunto il momento di creare il suo marchio ed è nata l’etichetta Paolin che riflette i suoi viaggi, i suoi sogni e le gioiose reminiscenze di famiglia. Leggi tutto

A me gli occhi, dal National Geographic agli anelli di Alysha Laurene

Dovete sapere che, tra le mie tante e diverse passioni, nutro da sempre interesse e curiosità nei confronti della scienza e della divulgazione scientifica. Quando nel 1998 nacque la versione italiana di National Geographic, fui una dei primissimi abbonati.
Tra le numerose declinazioni della scienza, mi attrae fortemente la biologia e, in particolare, sono affascinata dal funzionamento del corpo, umano e animale: recentemente, proprio il National Geographic ha catturato il mio interesse grazie a uno splendido articolo firmato da Ed Yong a proposito di occhi e vista.
I cinque sensi sono gli strumenti attraverso i quali esploriamo il mondo e, tra di essi, la vista è per me fondamentale, è il senso su cui faccio più affidamento: sono letteralmente ossessionata dagli occhi e da qualsiasi cosa li riguardi, così ho divorato l’articolo scoprendo moltissime cose, per esempio che, d’istinto, siamo portati a pensare che gli animali vedano come noi.
In realtà, se si va a studiare la loro visione, si scopre che non è così. E d’altra parte, pur avendo tutti quanti lo stesso sistema visivo, noi esseri umani vediamo in modi diversi a causa di fattori che vanno dalla densità di coni e bastoncelli nella retina fino all’integrazione sensoriale del nostro cervello.
Si può insomma affermare che gli occhi siano tra gli organi più diversificati esistenti in natura: il perché di tanta diversità è da ricercare nell’evoluzione nonché nelle più disparate esigenze di ogni singola specie.
Vi faccio qualche esempio tratto dall’articolo.
La sfinge della vite (Deilephila elpenor) ha occhi eccellenti per raccogliere le minime tracce di luce e fanno sì che l’animale possa distinguere i colori dei fiori carichi di nettare anche solo al tenue bagliore delle stelle.
Gli occhi dell’aquila di mare testabianca (Haliaeetus leucocephalus) hanno un potere di risoluzione eccezionale: due volte e mezzo quello degli occhi umani. Hanno retine con due regioni ad alta densità di fotorecettori (noi ne abbiamo una sola) e vedono davanti e di lato contemporaneamente.
La cubomedusa (Tripedalia cystophora) è larga solo 10 millimetri ma ha ben 24 occhi, alcuni semplici sensori di luce, altri dotati di lenti in grado di mettere a fuoco: un contrappeso mantiene l’occhio superiore puntato sempre in alto per individuare cibo e rifugio.
L’occhio sinistro del calamaro Histioteuthis heteropsis è grande il doppio del destro, guarda verso l’alto ed è ideale per individuare prede con la luce che viene da quella direzione: l’occhio più piccolo punta invece in basso, verso l’oscurità, per individuare prede e predatori bioluminescenti.
Il mantello della capasanta Argopecten irradians è cosparso di un centinaio di occhi di uno straordinario azzurro brillante, mentre il record quanto a dimensioni appartiene al calamaro gigante: gli occhi di un Architeuthis dux possono essere grandi fino a 30 centimetri. Leggi tutto

Quando moda e cibo se ne vanno a braccetto

Forse, leggendo il titolo di questo post, avete pensato all’eccessiva magrezza di alcune modelle e magari avete pensato che l’accostamento tra moda e cibo sia un paradosso evidente e una stridente contraddizione.

Forse, se un pochino mi conoscete e se avete letto qualche mio precedente post, sapete che ho preso posizione altre volte su quella magrezza e quindi ora temete di sorbirvi l’ennesima filippica.

Nulla di tutto ciò: stavolta desidero trattare il lato più ludico, creativo e divertente di questo rapporto perché stilisti e brand si sono spesso ispirati al cibo e non solo oggi, sull’onda di Expo 2015.

Le ispirazioni gastronomiche si sono spesso intrecciate non solo con l’abbigliamento ma anche col gioiello e tutto ciò per un motivo molto semplice: il cibo è sempre stato sinonimo di vita e molti alimenti (mi viene in mente il melograno) hanno assunto significato di buon auspicio, diventando portafortuna in grado di augurare salute e ricchezza.

Nel ‘900, il secolo che ci siamo lasciati alle spalle, molti stilisti e designer hanno creato abiti e bijou divertenti portando avanti il connubio moda e cibo: penso per esempio a Moschino e poi a Ken Scott, Sharra Pagano, Ornella Bijoux (ricordate, ho parlato di tutti e tre qui sul blog). Leggi tutto

Vi racconto la mia shopping experience DaWanda

Lo confesso: sono un’appassionata di Internet.

Utilizzo il web quale fonte inesauribile di idee, ispirazioni, studio, esplorazione: mi piace vederlo come un mezzo efficace per abbattere limiti fisici e distanze geografiche e lo uso spesso, infatti, per conoscere realtà per me nuove e anche per acquistare le creazioni di designer italiani e stranieri.
Sì, sono tra coloro ai quali capita di fare shopping in rete e da tempo tenevo d’occhio DaWanda: ero incuriosita da questo vivace marketplace e recentemente ho avuto modo di concretizzare la mia prima esperienza d’acquisto con loro.

La formula DaWanda è nata a Berlino nel 2006 e da due anni è presente anche in Italia: è una piattaforma dedicata ai creativi, a coloro che supportano l’auto-produzione e agli amanti del fatto a mano.
È un ottimo punto d’incontro per tutti colori che offrono e cercano innovazione in materia di moda e design.

Partita come una start-up, oggi ha uno staff composto da 160 persone provenienti da 16 paesi diversi: il network europeo accoglie oltre 280.000 venditori e ogni mese conta 18 milioni di visite.

Se siete in cerca di un regalo particolare per il compleanno di una persona che vi sta a cuore o se state cercando qualcosa di speciale per voi stessi, questa è la vetrina giusta: troverete prodotti fatti da designer di talento e da artisti del fai da te.
Molti di loro offrono articoli che si possono anche personalizzare. Leggi tutto

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