Parma 360 è il festival che offre 5 ottimi motivi per essere a Parma ora

HOMO DEUS. Sono le parole chiave dell’ottava edizione di PARMA 360 Festival della creatività contemporanea, la manifestazione a cura di Chiara Canali e Camilla Mineo che si tiene a Parma dal 6 aprile al 19 maggio 2024.

Sono stata all’anteprima stampa e, carica di entusiasmo, vorrei condividere il racconto di un’esperienza che – secondo me – è assolutamente da vivere.

Parto proprio dalle parole chiave. Perché vorrei spiegare da dove arrivano visto che simboleggiano anche il tema del festival.

In un’epoca in cui grande prosperità e recenti instabilità si alternano continuamente, l’umanità di oggi e del futuro deve e dovrà affrontare problematiche legate al cambiamento climatico, al mutamento dell’habitat, alla gestione delle risorse. Yuval Noah Harari è uno storico, filosofo e divulgatore (classe 1976) che ha preannunciato alcune delle sfide che daranno forma all’umanità nel XXI secolo, dalla robotica alla biotecnologia, dall’ingegneria genetica all’Intelligenza Artificiale. Harari è l’autore di un saggio intitolato HOMO DEUS Breve storia del futuro e l’edizione 2024 di PARMA 360 parte da queste parole e da questa idea.

Attraverso le opere di alcuni tra i più importanti artisti contemporanei, il festival indaga tematiche legate al superamento della dimensione antropocentrica dell’uomo in favore di una visione tecno-umanistica (o trans-umanista) e datocentrica. Insomma: l’Homo Sapiens ha oramai esaurito il suo percorso storico e, sostituito dall’Homo Deus, dovrà mettere queste nuove tecnologie al servizio del progresso scientifico per la propria sopravvivenza biologica e spirituale. Leggi tutto

Jabra Elite 5, la nuova frontiera degli auricolari true wireless

La storia è il punto di inizio di ogni corso che tengo in Accademia del Lusso.

La moda è fortemente connessa con la storia e ha un legame stretto con il tempo in cui nasce e si sviluppa: la moda è influenzata dalla società e la società è o può essere influenzata dalla moda.

È un dialogo a doppio binario, insomma, e questo è il motivo per cui i miei corsi iniziano da una piccola passeggiata nella storia: non potendo occuparmene in maniera esaustiva (i corsi vertono su altro), tento di concentrarmi almeno sul periodo che va dal Settecento a oggi e, in particolare, parliamo proprio delle connessioni e delle influenze tra società e moda e non solo rispetto al cambiamento e all’evoluzione di fogge e codici di abbigliamento, ma anche dal punto di vista della comunicazione e del sistema editoriale attorno alla moda (e questo è il mio ambito preciso).

Parliamo, per esempio, di come e quanto si siano evoluti i mezzi per trasmettere notizie e informazioni, fatto che ha permesso la nascita e lo sviluppo del sistema editoriale e dunque parliamo di invenzioni che sono pietre miliari, come per esempio i sistemi telegrafici.

Ecco, considerato tutto ciò, immaginate quanto io possa essere stata felice quando lo scorso anno sono stata invitata a un evento stampa di Jabra, marchio specializzato nelle soluzioni audio personali e professionali: perché ero così felice?

Perché, grazie a tale incontro, ho scoperto che questa azienda è collegata proprio a quelle innovazioni di cui parlo con i miei studenti.

Jabra fa infatti parte di un Gruppo che si chiama GN e che ha la sede centrale a Ballerup, in Danimarca: tutto iniziò nel lontano 1869 quando Carl Frederik Tietgen fondò la Great Northern Telegraph Company con un sogno ben preciso, quello di connettere il mondo.

Il sogno si concretizzò un paio di anni dopo, nel 1871: la GN Telegraph Company creò una connessione tra Europa e Asia, costruendo la prima linea telegrafica che collegava Nord Europa e Cina.

Se, fino a quel momento, servivano dalle 6 alle 8 settimane affinché un messaggio giungesse a destinazione, grazie a GN si arrivò a qualche minuto. Un’innovazione a dir poco epocale.

Quindi… incontrare Jabra è stato come avere l’occasione di toccare con mano proprio quella storia che tanto amo condividere con i miei studenti. Leggi tutto

Creativi e innovatori a rapporto: sono aperte le iscrizioni al contest Road to Green

Imperterrita, determinata e quanto mai convinta, proseguo oggi il mio cammino verso la positività dando spazio a un’iniziativa che sposo per due motivi.

Il primo motivo è che si tratta di un’iniziativa di scouting, ovvero che mira a scoprire e a sostenere persone di talento: dare sostegno al talento è un’attività per me importante e alla quale mi dedico con passione ed entusiasmo.

Il secondo motivo è che a fare scouting è Accademia del Lusso, ovvero la scuola di formazione moda con la quale collaboro stabilmente, in qualità di docente (come racconto qui e attualmente in modalità di didattica a distanza) e in qualità di redattrice di ADL Mag, la nostra rivista online (qui i miei articoli).

Ciò che desidero raccontare è che sono ufficialmente aperte le iscrizioni per #roadtogreen, il contest annuale promosso da Road to Green 2020 in collaborazione con Accademia del Lusso.

Road to Green 2020 è un’associazione no-profit fondata nel 2016 da Dionisio Graziosi e Barbara Molinario con lo scopo preciso di promuovere l’educazione ambientale: ogni anno, con questa iniziativa, l’associazione si pone l’obiettivo di stimolare la creatività e il confronto di idee, alimentando il dibattito sulle tematiche green tra istituzioni, imprese, associazioni e privati cittadini, per arrivare a produrre innovazione e progresso.

«Quest’anno lanciamo il nostro contest in un momento molto particolare, in piena emergenza sanitaria da coronavirus. Abbiamo deciso di non lasciarci fermare da questi eventi, continuando a portare avanti i nostri progetti, con l’augurio che tutto questo possa finire il prima possibile. La chiamata è rivolta a tutti coloro che abbiano un’idea che possa rendere le nostre vite più sostenibili e il nostro futuro più green in qualsiasi settore, compreso quello della salute. Dunque, creativi, innovatori e tutti voi che avete un’idea che vi sembra geniale, mettete i vostri pensieri nero su bianco e diteci come possano migliorare le nostre vite.»

Così dichiara Barbara Molinario, presidente di Road to Green 2020, e io sono assolutamente d’accordo con lei e con lo spirito che la anima.

Per partecipare a #roadtogreen bisogna presentare ‘opere green’ inedite, ispirate ai valori della salvaguardia ambientale.

Le categorie previste sono cinque: food; culture & nature; health; fashion & beauty; city, mobility & technology.

Ognuno può partecipare con la propria arte, senza alcun vincolo, mediante pittura, scultura, installazioni, video, abiti (bozzetti o realizzati), plastici ecosostenibili, disegni, fotografie, progetti di eventi e altro.

Il contest è aperto a tutti, senza vincoli di età, nazionalità, titolo o professione (… potrebbe non piacermi questa libertà?) e il termine ultimo di presentazione delle opere è il 15 luglio 2020.

Il vincitore sarà proclamato durante ‘La città del futuro’, forum internazionale che si terrà il 24 settembre a Roma: in tale occasione, i finalisti presenteranno al pubblico in sala i propri lavori e il vincitore si aggiudicherà un voucher formativo (valore 3.450 euro) da utilizzare presso la sede di Roma di Accademia del Lusso.

Se volete saperne di più, vi invito a visitare il sito di Road to Green 2020 e in particolare la pagina dedicata al regolamento. dove troverete anche il modulo di partecipazione da scaricare. C’è anche una pagina Facebook che trovate qui.

Cosa posso aggiungere?

Aggiungo l’invito che, ormai, è diventato un’altra costante: non facciamoci trovare impreparati.

Partecipate numerosi e provate a aggiudicarvi una chance interessante per il futuro.

Manu

 

Bsamply mette le sue tecnologie a disposizione del settore tessile

Giusto un paio di giorni fa, nel post precedente, ho dettagliatamente parlato di come ci sia e ci sarà bisogno di una riorganizzazione dell’intero sistema moda, tenendo presente la necessità di ottemperare al distanziamento sociale che (ormai è del tutto evidente…) ci accompagnerà per molto tempo.

E, in chiusura del post, avevo anticipato che avrei parlato dell’iniziativa messa in campo dalla startup Bsamply per aiutare le imprese a fare fronte comune proprio contro il coronavirus: oggi onoro la promessa fatta.

Bsamply ha scelto di offrire gratuitamente la propria piattaforma a tutte le aziende italiane del mondo del tessile: tale piattaforma permette di digitalizzare le collezioni online e di non fermare la produzione nonostante il momento difficile che l’Italia sta attraversando.

La piattaforma permette di esporre le proprie collezioni attraverso la creazione di private showroom e permette di richiedere campioni e inviare ordini. Rappresenta dunque uno strumento di vitale importanza in questo momento: in un periodo nel quale si è obbligati alla lontananza, l’interconnessione digitale tra fornitori e clienti è l’unico mezzo per non fermarsi.

Non solo: Andrea Fiume, CEO della piattaforma, l’ha ulteriormente ampliata con Bsamply Tradeshow Project, progetto che permetterà di partecipare a vere e proprie fiere del tessile online.

Sapendo che questo mio spazio gode della fiducia di tanti designer nonché di tanti professionisti del settore tessile e moda (grazie con profonda gratitudine ) e apprezzando l’iniziativa di Andrea, condivido volentieri il comunicato che ho ricevuto: credo nella solidarietà e nel sostegno al talento e dunque spero che la condivisione possa risultare utile per qualcuno. E, nel frattempo, sostengo volentieri lo stesso Andrea e il suo talento, poiché riuscire a creare a una simile piattaforma… sì, equivale decisamente ad avere talento.

Buona lettura,

Manu

 

Riuscire ad accorciare le distanze che in questo momento separano clienti e fornitori, far incontrare domanda e offerta senza spostamenti così da consentire alle imprese di non fermarsi: è questa una delle esigenze che stanno emergendo in un periodo particolarmente difficile per il Paese. Leggi tutto

Chiuso per ferie 2019, AGW ospita Gloria Vian e il suo «Esserci o esistere»

Tra le diverse attività che compongono il mio panorama professionale figura l’insegnamento.
È l’attività che richiede maggior impegno, energia e passione, perché insegnare è una gioia nonché una grande responsabilità.
Mi regala molte soddisfazioni ma anche qualche sconfitta: è una sfida continua ed è una sfida che non intendo abbandonare in quanto ci tengo (e ci credo) moltissimo.
E così, attraverso Accademia del Lusso che continua a credere in me (grazie ), tengo dei corsi di editoria e comunicazione della moda con focus specifico sulla loro evoluzione via web: si è da poco concluso l’anno accademico 2018-19 e io sto già pensando ad aggiornare i materiali per il nuovo anno che inizierà tra settembre e ottobre.

Tra le regole imprescindibili che mi do in qualità di docente, includo la necessità di essere imparziale, dando le stesse possibilità a tutti gli studenti e non assecondando in alcun modo simpatie (o antipatie) personali.
Ma ora che l’anno accademico è finito, ho deciso che, per una volta, posso concedermi uno strappo alla regola, anche perché la studentessa alla quale darò voce oggi, Gloria Vian, si è laureata lo scorso 1° luglio, concludendo tra l’altro il suo percorso con il massimo dei voti.

La tesi di laurea di Gloria ruota attorno a un argomento attuale e interessante: si intitola «Esserci o esistere» e si pone l’obiettivo di analizzare il rapporto tra mondo reale e mondo virtuale.
L’argomento è decisamente complesso e sfaccettato: ho molto apprezzato la serietà, l’impegno e la profondità con cui Gloria ha affrontato il tutto, ho molto apprezzato le ricerche che ha condotto anche attraverso interviste a vari professionisti ed esperti e, infine, ho molto apprezzato l’installazione che ha dato corpo alla sua tesi.

Alla luce di tutto ciò, quest’anno ho deciso di lasciare a Gloria Vian una responsabilità, ovvero quella di essere il post che ogni estate ‘chiude per ferie’ il blog: lo faccio per due motivi.

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Quando la moda incontra la televisione: la nuova campagna di Moschino

Il web è in costante e continuo fermento e sono tanti i cambiamenti che stanno investendo la dimensione digitale e, conseguentemente, le nostre vite reali.
Un cambiamento, per esempio, riguarda Instagram: dopo l’esperimento in Canada, il social nasconde il numero dei ‘like’ anche in Italia per quanto il test, iniziato il 17 luglio, non è una decisione definitiva bensì una prova.
Lo scopo? «Vogliamo aiutare le persone a porre l’attenzione su foto e video condivisi e non su quanti ‘like’ ricevono»: così dice Tara Hopkins, Head of Public Policy EMEA di Instagram.
Da tempo, poi, si parla di bitcoin e criptovalute: pare che, nel 2020, Facebook lancerà la sua che si chiama Libra.
Si parla anche di blockchain nonché di maggior consapevolezza di noi consumatori circa sostenibilità ambientale e sociale, tutto spinto proprio dai maggiori strumenti offerti dal digitale.
Probabilmente, i pessimisti metterebbero invece sul piatto della bilancia argomenti come hater, stalker, cyber bullismo, hacker: tutto vero, per carità, tutto esistente.
Eppure, da eterna ottimista quale sono, da buona immigrata digitale nata nell’era dell’analogico ma oggi a tutti gli effetti residente digitale (quasi al pari dei nativi digitali ovvero Millennials e Generazione Z), nel web io vedo da sempre un’immensa opportunità; dunque, il mio piatto propende inesorabilmente dalla parte dell’ottimismo.
Non credo che il mio ottimismo mi porti a essere ingenua: proprio in questi giorni leggevo che, per la prima volta nella storia, nel 2021 la pubblicità via Internet rappresenterà oltre la metà di quella totale.
A dirlo è lo studio Advertising Expenditure Forecasts di Zenith (fonte illustre) secondo cui gli adv sul web, entro due anni, rappresenteranno il 52% della spesa pubblicitaria globale, contro il 44% del 2018 e il 47% previsto per il 2019.
Da anni spiego ai miei studenti come proprio pubblicità e comunicazione si stiano progressivamente e sempre più velocemente spostando, passando da offline (stampa, radio, tv, affissioni) a online (tutto il sistema del web).
La moda è tra i settori all’avanguardia in tale migrazione: per sua stessa essenza, quella di interpretare e raccontare i tempi strizzando l’occhio al futuro, la moda è sempre stata capace di cavalcare e spesso anticipare cambiamenti ed evoluzioni. Leggi tutto

Huawei Fashion Flair with Annakiki, intelligenza artificiale e moda

Anna Yang (fondatrice di Annakiki) e Isabella Lazzini (Retail Director di Huawei Italia) insieme per Fashion Flair

Tra i diversi profili che sono stati elaborati allo scopo di fotografare le generazioni che abitano attualmente il nostro pianeta (Maturists, Baby Boomers, Generation X, Generation Y oppure Millennials, Generation Z), io mi colloco esattamente a metà, ovvero nella cosiddetta Generazione X, quella di coloro che sono nati tra il 1965 e il 1980.

Influenzati da fenomeni sociali, culturali, politici ed economici che vanno dal crollo del Muro di Berlino (1989) passando per Andy Warhol e la Pop Art fino ad arrivare al consumismo, è (siamo…) la generazione dei cartoni animati, delle sale giochi e delle televisioni commerciali, dei primi videogame, dei primi computer, dei primi oggetti tecnologici portatili come il walkman.

Tra gli appartenenti alla Generazione X ci sono coloro che hanno creato Google nel 1998 (Sergej Brin e Larry Page, entrambi classe 1973) e che hanno spianato la strada ai loro successori, i Nativi Digitali, ovvero i Millennials e la Generazione Z.

Varie analisi dicono che noi della Generazione X siamo fruitori abbastanza consapevoli: andiamo alla ricerca di informazioni un po’ su tutto e scegliamo quali prodotti acquistare dopo aver consultato recensioni e opinioni di chi ne è già un consumatore.

Devo dire che mi riconosco abbastanza in questo ritratto con qualche eccezione: per esempio, contrariamente a tante persone della mia stessa generazione che continuano a prediligere Facebook, io preferisco invece Instagram come i Nativi Digitali e nonostante il mio lavoro sia fondato fortemente sulla comunicazione verbale.

Il punto fondamentale è che sono istintivamente curiosa e dunque sono affascinata da tutto ciò che profuma di futuro e progresso: sebbene io sia una immigrata digitale e non una nativa (secondo la definizione coniata nel 2001 da Mark Prensky, scrittore e consulente statunitense), sebbene io sia cresciuta prima delle tecnologie digitali e le abbia adottate solo in un secondo tempo, ho una visione e un approccio che sono più vicini a quelli delle generazioni successive.

Oltre alla curiosità da sempre insita in me, credo che il mio atteggiamento dipenda anche dal fatto che tra le attività lavorative di cui mi occupo figura anche l’insegnamento: confrontarmi con gli studenti, ragazzi che appartengono alle ultime generazioni, mi mantiene mentalmente elastica e perennemente al passo dei tempi. Spero di dar loro qualcosa e allo stesso tempo mi piace ricevere da loro, in modo diverso ma complementare.

Qui nel blog esistono tante tracce del mio amore per il futuro e per le tecnologie anche applicate a moda e costume: ho parlato per esempio in un post di Bradley Quinn, grande visionario della moda che ho avuto il piacere di incontrare nel 2013, oppure ho parlato in un altro post di wearable technology, la tecnologia indossabile, attraverso l’abito creato nel 2016 da Zac Posen per Claire Danes al Met Gala.

Oggi mi spingo oltre parlandovi di Fashion Flair, la prima collezione di moda co-creata dalla artificial intelligence (intelligenza artificiale) di Huawei P30 e Huawei P30 Pro e dall’estro di Anna Yang, Creative Director del brand Annakiki.

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Alba Cappellieri e i gioielli dall’Art Nouveau al 3D printing

La passione per la lettura mi ha sempre caratterizzata, fin da piccina, e credo sia perché mi ha costantemente permesso di saziare la mia immensa curiosità, peraltro temporaneamente e mai definitivamente. Fino al libro successivo, insomma.

Scherzando, mia mamma racconta di non sapere se da bambina le costassi più in libri oppure in cibo, altra grande passione per la sottoscritta: ricordo quando, preoccupata per il ritmo con il quale doveva acquistare nuovi volumi, mi iscrisse prima alla biblioteca di zona e poi alla splendida Sormani, sede principale del sistema bibliotecario milanese. Ricordo altrettanto bene l’impressione che mi faceva quel luogo così storico e per me un po’ magico.

So anche per certo che è stata la lettura a peggiorare la mia miopia già congenita: sempre da bambina, infatti, avevo la pessima abitudine di leggere in condizioni di luce spesso sfavorevoli, ovunque mi trovassi e qualsiasi fosse il pezzo di carta stampato.
Più di una volta, mamma mi beccò a leggere perfino i fogli di vecchi quotidiani che lei stendeva sul tappeto della cucina per proteggere il pavimento le rare volte in cui friggeva…

Naturalmente, è stata la lettura a influenzare ciò che faccio ora e a consolidare l’amore per la comunicazione.
Leggere non è solo una passione ma è anche parte integrante e fondamentale del mio lavoro: spesso, oggi, devo optare per gli strumenti digitali (web, supporti elettronici, formati pdf e quant’altro) ma, ovviamente, la carta è rimasta la mia preferita. Aprire un quotidiano appena acquistato piuttosto che un libro intonso e tuffarvi il naso resta per me uno tra i piaceri più grandi che esistano.
Ho smesso, invece (per fortuna!), di leggere i quotidiani stesi in terra…

Devo dire che, tra lavoro e svago, raramente mi capita di fare letture che risultino in contemporanea piacevoli, interessanti e istruttive quanto riescono a esserlo i libri di Alba Cappellieri, illustre professore ordinario di Design del Gioiello e dell’Accessorio Moda al Politecnico di Milano.

Seguo ormai da tempo e con attenzione il suo lavoro (qui il mio post più recente) perché Alba – mi permetto di chiamarla per nome – soddisfa in aggiunta un altro mio appetito infinito: quello per il mondo del gioiello e delle sue molteplici sfaccettature e declinazioni e sono dunque felice di annunciare l’uscita della sua nuova fatica letteraria intitolata Gioielli dall’Art Nouveau al 3D Printing.

Il volume propone uno straordinario repertorio di gioielli, orafi e grandi maison internazionali che, a partire dagli inizi del Novecento a oggi, hanno interpretato le evoluzioni del gusto in forme preziose.
Propone dunque un viaggio senza confini, dalla Francia all’Asia, dagli Stati Uniti all’Italia, dall’Inghilterra alla Germania, dall’Olanda ai paesi del Nord e si va dai capolavori dell’Art Nouveau di Lalique, Vever e Fouquet all’eleganza dell’Art Déco con le meraviglie di Cartier, Boucheron, Tiffany, Mario Buccellati e Fabergé; dalle invenzioni di Van Cleef & Arpels (maison della quale ho parlato spesso come qui e qui nei post più recenti) e di Bulgari negli Anni Cinquanta alle avanguardie olandesi e al gioiello d’artista degli Anni Sessanta per arrivare, infine, alle proposte dei designer e degli stilisti della contemporaneità.
Esattamente come io stessa sono passata dall’analogico al digitale (dal libro in carta al web), parallelamente il nuovo millennio è rappresentato nel volume dall’introduzione della manifattura digitale come la stampa 3D e le tecnologie indossabili (anche in questo caso, discorsi che mi sono cari e che sto pian piano affrontando anch’io, nel mio piccolo, ovviamente, come feci qui nel 2016): c’è spazio anche per i nuovi processi creativi, produttivi, distributivi e comunicativi (determinati dal modello open source, ovvero sorgente aperta, che si riferisce a tutte quelle tecnologie di cui i creatori favoriscono il libero studio, lo sviluppo, l’utilizzo), processi che stanno definendo gli scenari del gioiello del futuro.

Si tratta dunque di un approfondito saggio storico-critico che introduce un’eccezionale selezione di immagini (che è costata molto lavoro, come racconta la stessa Cappellieri), pensata come una galleria ideale dei capolavori dell’arte orafa dal XX secolo a oggi: le immagini sono accompagnate da un ricco glossario sulle tecniche e i materiali, tradizionali e innovativi.

Non pensate, però, a un volume noioso: ho usato il termine saggio perché è la definizione corretta ma – come dicevo in principio – Alba Cappellieri ha il dono (dono prezioso quanto raro) di rendere piacevolissimo e fruibilissimo anche un volume particolarmente ricco dal punto di vista dei contenuti storici e critici. E il libro risulta infatti bello sia da leggere sia da sfogliare.

Ho avuto il piacere di assistere alla (gremitissima!) conferenza che, giusto un paio di giorni fa, si è tenuta presso la Pinacoteca di Brera a Milano: in tale occasione, Alba Cappellieri ha presentato il libro dialogando anche con Gabriele Aprea (presidente di Chantecler e del Club degli Orafi ) e Vincenzo Castaldo (direttore creativo di Pomellato), in un tavolo moderato da Federica Frosini, direttore del magazine VO+.

Ho molto amato come il tavolo di discussione è stato condotto partendo dalla domanda di apertura di Alba Cappellieri: qual è la definizione di gioiello?
Le risposta non è univoca, naturalmente, e le definizioni possono essere diverse in base a chi risponde: per esempio, la definizione è sicuramente diversa tra uomo e donna, ma anche tra orafo e artista (interessante, in tal caso, come per quest’ultimo il corpo diventi perfino una superficie espositiva).
Ognuno di noi attribuisce al gioiello un significato diverso, un’accezione diversa, una declinazione diversa.
Per diversità di età, esigenze, professione, attitudine, interesse e per mille altri motivi ancora.

Gioielli dall’Art Nouveau al 3D Printing si propone come punto di incontro tra i diversi punti di vista, i diversi significati e i diversi mondi, senza pretesa di graduatorie o classifiche perché – come ben dice Alba Cappellieri – «è ora di ragionare per assonanza e non per divisioni».

Questo desiderio di unire e non dividere è per me un motivo più che sufficiente per acquistare il volume, un motivo che si aggiunge alla piacevolezza e alla preziosità evidenti dal primo istante.
Senza dimenticare che, com’è stato ricordato, il gioiello è anche gioco, fin dalla sua etimologia: il termine gioiello deriva infatti dal latino iocalis da iocus ovvero «scherzo, gioco».

Non potrei essere più d’accordo sulla dimensione anche ludica e gioiosa del gioiello e allora permettetemi di concludere con una battuta scherzosa: spero di non perdere qualche altra diottria tra le pagine scintillanti (e per me particolarmente golose) del tuo meraviglioso volume, cara Alba.

Manu

 

Gioielli dall’Art Nouveau al 3D Printing
2018, edizione italiana, inglese e francese
24 x 28 cm, 264 pagine, cartonato, Euro 60 (qui sul sito dell’editore Skira)
ISBN 978-88-572-3736-7 I, -3737-4 e ISBN 978-2-37074-091-5 F

Alba Cappellieri è professore ordinario di Design del Gioiello e dell’Accessorio Moda al Politecnico di Milano dove dirige i corsi di laurea triennale e magistrale in Design della Moda.
È direttore del corso di alto perfezionamento in Design del Gioiello, del Master internazionale in Accessory Design
e del Master in Fashion Direction – Brand & Product Management presso il Milano Fashion Institute.
Dal 2013 al 2016 ha insegnato Design for Innovation alla Stanford University.
È membro del Comitato Scientifico dell’École Van Cleef & Arpels a Parigi e della Fondazione Cologni a Milano.
Nel 2017 è stata nominata ambassador del Design Italiano per l’Italian Design Day a Osaka.
Dal 2014 è direttore del Museo del Gioiello in Basilica Palladiana a Vicenza.

Immagine in alto: la copertina del libro Gioielli dall’Art Nouveau al 3D Printing e pendente Sylvia pubblicato a pag. 73 (1900, Vever su disegno di Henri Vever, oro, smalti, agata, rubini, diamanti. Parigi, Musée des Arts Décoratifs, credito fotografico: © ADAGP, Paris 2018: Les Arts décoratifs, Paris. Photo Jean Tholance, All right reserved).

La sharing economy arriva in spiaggia con la piattaforma Playaya

Mi sono sempre sentita cittadina del mondo poiché sono curiosa verso luoghi, culture e persone e perché trovo motivi per stare bene ovunque.

Tuttavia, mi sento profondamente italiana e sono molto orgogliosa di essere nata qui: amo profondamente il nostro Paese e credo che esservi cresciuta sia un plus che mi permette di apprezzare bellezza e cultura fin dall’infanzia.
Sono una strenua sostenitrice di tutto ciò che è Made in Italy e lo dimostro anche attraverso questo blog nel quale le creazioni nostrane e il genio di tanti nostri connazionali è raccontato, messo in evidenza, sviscerato.

Proprio perché amo e rispetto profondamente il nostro meraviglioso Paese, sono altrettanto obiettiva nel coglierne e ammetterne i difetti: penso che essere lucidi per quanto riguarda le criticità non sia affatto essere disfattisti bensì, al contrario, sia condizione necessaria per poi agire e risolvere.

La scorsa estate sono stata in Grecia, un altro Paese che amo moltissimo e che ho visitato tante volte (forse anche perché in tante cose assomiglia all’Italia…): tornando da quel viaggio, ho scritto un post in cui ho fatto un confronto mettendo in evidenza una delle criticità delle vacanze nel Bel paese, ovvero la rigidità del sistema spiagge e i prezzi proibitivi del noleggio sdraio-lettini-ombrelloni durante la stagione estiva.

Capite bene che, quando un paio di settimane fa, mi è stato sottoposta Playaya, la prima piattaforma che mira a snellire il sistema di gestione degli ombrelloni sulle spiagge italiane a opera di due intelligentissimi ragazzi italiani… beh, non potevo non accettare di parlarne, per dimostrare una volta di più quanto ci sia un bisogno (ah, ma allora certe cose non le penso solo io!), per dimostrare come la genialità italiana possa arrivare ovunque e per dimostrare come possa farlo attraverso un concetto che mi sta molto a cuore – ovvero quello della sharing economy.

Per caso, miei cari amici che leggete, arrivate sempre all’ultimo minuto e non trovate mai un ombrellone libero?
Siete stufi di stendervi al sole in una delle affollate spiagge libere italiane, cercando uno spazio (risicato) per il vostro telo e trovandovi gomito a gomito con il vicino?
La spiaggia attrezzata è fuori dal vostro budget (dal mio… spesso sì)?
Da oggi bastano pochi click per trovare l’ombrellone e risparmiare (quasi il 50%) sul prezzo di affitto.

Arriva infatti Playaya, la piattaforma che consente di affittare, anche last minute, un ombrellone scontatissimo per stendersi comodamente al sole in uno stabilimento attrezzato, per una giornata o solamente per qualche ora.

L’idea – come accennavo – è di due giovani soci (e fidanzati) torinesi, Stefano (26 anni) e Giulia (23, le due belle facce che vedete qui in alto ⇑) i quali, dopo un anno di intenso lavoro, hanno lanciato Playaya per mettere in contatto chi possiede un abbonamento in uno stabilimento balneare e sa di non utilizzarlo a pieno con chi lo sta cercando magari solo per qualche ora.

Attenzione: Playaya non è una piattaforma di booking bensì di condivisione, in perfetto stile sharing economy.

Il sistema è semplicissimo.
Gli stabilimenti che lo desiderano aderiscono gratuitamente al programma Playaya, mantenendo il completo controllo sulla spiaggia ma consentendo ai propri ospiti di mettere in sharing gli ombrelloni.
Chi affitta l’ombrellone in una spiaggia aderente a Playaya può iscriversi altrettanto gratuitamente alla piattaforma e mettere in rete le giornate, o le ore, che vuole condividere.
Il software Playaya calcola e suggerisce il prezzo di vendita del servizio (con uno sconto che va dal 30% al 50% sul prezzo di listino della spiaggia): chi è alla ricerca di un ombrellone non deve far altro che collegarsi e scegliere ciò che fa al suo caso.

«L’idea – racconta Giulia – ci è venuta l’anno scorso in Sicilia a Giardini Naxos dove mia cugina, che aveva un bimbo piccolo, ci ha prestato l’ombrellone che aveva affittato in uno stabilimento attrezzato poiché non lo utilizzava nelle ore più calde, dalle 12 alle 16. Per noi era semplicemente perfetto: ci svegliavamo tardi e andavamo via giusto in tempo per iniziare a pensare all’aperitivo. Come mia cugina, tantissime famiglie scelgono la comodità di una spiaggia attrezzata, ma non la utilizzano tutto il giorno, o tutti i giorni, lasciando vuoto l’ombrellone. E tantissime persone hanno voglia di stendersi al sole proprio in quelle ore. Di qui l’idea: Playaya sfrutta lo strumento della condivisione e consente, a chi lo desidera, di recuperare in parte i costi del proprio abbonamento in spiaggia offrendolo in sharing.»

Giuro, nonostante scrivere sia il mio mestiere… non avrei mai saputo spiegare meglio e più efficacemente il concetto e i motivi per cui Playaya mi piace: brava Giulia!

Trasparente. Comodo. Sicuro.
Tutte le transazioni sono effettuate tramite PayPal o carta di credito e, ogni martedì, Playaya rimborsa chi ha messo in sharing il proprio ombrellone nella settimana precedente.
Con un vantaggio economico anche per i gestori dello stabilimento che vedono i propri clienti più soddisfatti.

«Abbiamo iniziato – continua Stefano – dalla Liguria, dove moltissimi stabilimenti hanno aderito con entusiasmo alla nostra idea, Loano, Spotorno, Ceriale, Diano Marina, Bordighera, Alassio. Ogni giorno acquisiamo nuove spiagge da tutta Italia!»

E io auguro grande successo alla vostra iniziativa con tutto il cuore, ragazzi, perché lo meritate: siete l’esempio di ciò che sostengo, rilevare una criticità e risolvere con genio, entusiasmo e positività.

E dunque, con estremo piacere e assoluta convinzione, vi lascio il sito Playaya, la pagina Facebook e l’account Instagram.
A breve, Playaya sarà anche una app disponibile su Google Play e Apple App Store.

Manu

Pepita Onlus e Cover Store insieme ai ragazzi per affrontare il cyberbullismo

L’argomento di oggi è il bullismo, anzi, precisamente il cyberbullismo.

Prima di tutto, desidero darne una definizione che sgombri il campo da qualsiasi scusa o equivoco o tentativo di sminuire la questione.
Cyberbullismo è qualsiasi atto aggressivo, prevaricante, intimidatorio, molesto compiuto da uno o più bulli tramite l’uso di strumenti telematici tra cui foto, video, sms, mms, telefonate, e-mail, siti web, chat, instant messaging.
Ed è cyberbullismo sia che si tratti di episodi continui, ripetuti, sistematici e sia che si tratti di episodi singoli; è cyberbullismo sia che l’atto si fermi alla molestia verbale sia che diventi aggressione fisica.

I bulli o cyberbulli sono tali verso i loro coetanei, ma anche verso gli adulti.
Lo sono infatti verso tutti i soggetti nei confronti dei quali cercare di affermare il loro potere, come per esempio una insegnante, come da tristissima cronaca recente…

Il bullismo è sempre esistito, parliamoci chiaro.
La tecnologia e il web hanno amplificato il problema tanto che l’argomento, oggi, è dolorosamente in auge ma attenzione: come dico sempre ai miei studenti e come ho scritto tante volte qui tra le pagine virtuali di A glittering woman, il web è solo uno strumento, esattamente come un sasso o un martello, e sta a noi decidere cosa farne.
Posso raccogliere un sasso e tirarlo da un cavalcavia; posso usarlo invece per costruire un argine.
Posso usare il martello per colpire qualcuno; posso usarlo invece per costruire cose.
Gli strumenti non hanno un’anima propria, siamo noi con la nostra volontà di far del bene o del male a fornirne loro una, rendendoli strumenti di vita oppure armi letali.

Oggi, siamo tutti chiamati a trovare modi efficaci per arginare il cyberbullismo: sono dell’idea che tra gli strumenti fondamentali vi sia un lavoro di educazione e rispetto che deve partire dalla famiglia e, al contempo, sposo anche iniziative pratiche come quella di Pepita Onlus e Cover Store. Leggi tutto

Gruppo UF Lovers a rapporto per un’estate tutta da vivere!

Era fine marzo quando ho iniziato un post con un annuncio: sono entrata nel gruppo UF Lovers.

È una di quelle cose che tanto mi piacciono perché parliamo di condivisione, a 360°, vera, costruttiva e di qualità.

Per spiegare chi siano gli UF Lovers, vi racconto cos’è Urban Finder, ovvero la app dalla quale viene l’acronimo UF.

Urban Finder è, appunto, una app che è stata creata per aiutare ogni persona a scoprire ciò che cerca in una data città (come suggerisce l’aggettivo Urban), trovando le soluzioni più adatte rispetto ai propri gusti e alle proprie esigenze.

È un sistema dedicato sia a chi vive in una certa città sia a chi in quella città arriva per lavoro o magari per turismo, offrendo interessanti spunti e alternative alle consolidate abitudini per i cittadini e creando percorsi su misura per chi è nuovo.

Nel primo post dedicato a Urban Finder, ho raccontato in dettaglio alcune peculiarità che la rendono una app diversa da qualsiasi altra, riassumendo i vantaggi in due punti fondamentali. Leggi tutto

We Wear Culture, dal little black dress di Coco allo street style di Tokyo

We Wear Culture: la cover della sezione dedicata al virtual tour del Metropolitan Museum of Art

Tra i tanti vantaggi del web, uno dei miei preferiti è senza dubbio quello di aver ridotto i limiti fisici e geografici.

Per esempio, possiamo stare comodamente seduti alla nostra scrivania e contemporaneamente fare ricerche grazie a luoghi virtuali, biblioteche e librerie, archivi e musei. Oppure, possiamo rilassarci sul divano mentre chiacchieriamo in live chat con persone che si trovano dall’altra parte del mondo. O ancora, possiamo fare acquisti in pochi click.

Certo, a volte tutto ciò non basta: io, in questo periodo, mi struggo per il fatto di non poter essere a New York fisicamente, precisamente al Metropolitan Museum of Art dove si sta svolgendo la mostra Rei Kawakubo / Comme des Garçons: Art of the In-Between.

Non so cosa darei per visitare l’esposizione dedicata a una delle più importanti stiliste del Novecento, colei che nel 1969 ha fondato il brand Comme des Garçons e che insieme a Yohji Yamamoto e Issey Miyake forma l’eccezionale triade giapponese che, alla fine degli Anni Settanta, ha portato un grandissimo rinnovamento nella moda.

Qui, però, torna in ballo Internet e la sua capacità di essere un mezzo che ci dà infinite possibilità che sta a noi saper sfruttare al meglio: non posso teletrasportarmi a New York, è vero, ma grazie al web posso consultare il sito del Metropolitan, godere di filmati e gallery, leggere articoli, consultare reportage.

Ed è proprio in nome di tutto ciò che, oggi, sono molto felice di parlarvi di un progetto che si chiama We Wear Culture.

We Wear Culture ovvero Indossiamo la Cultura, in quanto ben tremila anni di storia del costume e della moda confluiscono in una sorta di sfilata (o vetrina, chiamatela come preferite) che debutta online in questi giorni.

Disponibile attraverso la piattaforma Google Arts & Culture, il progetto consente di esplorare stili e look di epoche diverse nonché le storie che sono alla base degli abiti che indossiamo oggigiorno: inoltre, pezzi iconici che hanno cambiato il modo di vestire di intere generazioni vengono letteralmente fatti vivere grazie alla realtà virtuale.

L’iniziativa è frutto di una collaborazione con oltre 180 istituzioni culturali di fama mondiale: tra i nomi italiani, figura il Museo del Tessuto di Prato e una selezione di tessuti proveniente proprio dalle collezioni antiche di tale Museo è ora disponibile online. Leggi tutto

Space Girls, Space Women: lo sguardo e il contributo femminile allo Spazio

Per gentile concessione del Museo da Vinci, dalla mostra Space Girls, Space Women: l’astronauta italiana Samantha Cristoforetti

L’ho scritto tante volte: non potrei vivere di sola moda perché i miei interessi sono molteplici e variegati.

Sono curiosa verso la vita e occuparmi esclusivamente di moda equivarrebbe a sedermi a tavola e gustare un solo tipo di pietanza, ignorando tutti gli altri sapori: lo considererei noioso e monotono.

È vero, ho alcuni piatti preferiti e ai quali non rinuncerei mai ma, visto che sono una buongustaia, non potrei nutrirmi solo di quelli: parallelamente, nonostante io ami follemente la moda che considero una potente forma di linguaggio, non potrei mai limitarmi a essa ignorando altre modalità di comunicazione altrettanto capaci di raccontare i molteplici aspetti della storia umana, del costume e della società.

Sono dunque molto felice ogni volta in cui prestigiose istituzioni quali il Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia Leonardo da Vinci mi invitano alle anteprime stampa, dandomi l’opportunità di incontrare e ascoltare esperti di diversi ambiti culturali: mercoledì scorso, sono stata invitata all’anteprima che ha introdotto Space Girls, Space Women – Lo Spazio visto dalle Donne, ovvero una splendida mostra che racconta lo sguardo e il contributo femminile all’esplorazione dello Spazio.

Per raccontare il ruolo delle donne nella ricerca spaziale, un gruppo di fotografe ha realizzato una serie di scatti in tutto il mondo: sono stati raccolti in una mostra voluta in Italia dall’Agenzia Spaziale Italiana (ASI) e inaugurata il 20 aprile al Museo da Vinci, qui a Milano. Seguirà una seconda inaugurazione a Roma, nel mese di maggio, proprio nella sede dell’ASI.

Prima di raccontarvi i principali fatti e dettagli della mostra, desidero però dirvi perché ho scelto di parlarne qui nel blog.

E partirò affermando di essere cresciuta con il mito della scoperta, dell’ignoto e dello Spazio.

Da ragazzina, ho divorato i libri di Jules Verne, uno dei padri della fantascienza moderna: i suoi romanzi – da Viaggio al centro della Terra a Ventimila leghe sotto i mari passando per Dalla Terra alla Luna, scritto nel 1865, più di 100 anni prima dell’allunaggio del 1969 – mi tenevano con il fiato sospeso, mi trasportavano in mondi lontani e mi facevano sognare.

In seguito, è toccato a Isaac Asimov e a diversi dei romanzi e racconti con i quali il celebre scrittore ha ipotizzato la storia futura dell’umanità.

Lo Spazio, dunque, è uno degli interessi più grandi che ho e il Museo da Vinci ha già in passato dato piena soddisfazione a questa mia sconfinata passione come quando, il 28 ottobre 2014, mi sono ritrovata ad ascoltare il grande astronauta Eugene Cernan, completamente affascinata dal suo carisma.

L’occasione di incontrarlo mi è stata data grazie alla serata di inaugurazione dell’Area Spazio, esposizione permanente del Museo.

Tale area è pensata come un viaggio interattivo tra oggetti, luoghi, personaggi, curiosità e tecnologie relative all’astronomia e all’esplorazione del cosmo: Eugene Cernan – comandante della missione Apollo 17 nel 1972 e tutt’oggi ultimo uomo ad aver lasciato la Luna – è stato l’ospite d’onore dell’inaugurazione.

Il secondo motivo per cui ho scelto di parlare di Space Girls, Space Women è altrettanto importante: sono migliaia le donne che operano nel settore spaziale, poche quelle che guidano i vertici di enti e società del settore.

La ricerca è un ambito in cui la crescita della presenza femminile ha segnato un forte incremento: eppure, se dalla prima donna nello spazio nel 1963 tanta strada è stata fatta (l’astronauta sovietica Valentina Vladimirovna Tereškova, classe 1937, oggi 80enne), è altrettanto vero che molta, ancora, ne resta da fare. Leggi tutto

Urban Finder mi ha messo il grembiule da cuoca (e mi è piaciuto)

Desidero raccontare una novità: sono diventata una UF Lover!

E che cosa sarà mai? – vi chiederete forse voi.

Prima di tutto, vi dico che è una cosa bella, anzi bellissima, una di quelle che piacciono a me: parliamo di condivisione e di condivisione costruttiva e di qualità.

E poi, per spiegarvi cosa sia un UF Lover, vi racconto prima di tutto cos’è Urban Finder, la app dalla quale viene l’acronimo UF.

Urban Finder è, appunto, una app che è stata inventata per aiutare ogni persona a scoprire ciò che cerca in una data città (come suggerisce il nome stesso), trovando le soluzioni più adatte rispetto ai propri gusti e alle proprie esigenze.

È un sistema dedicato sia a chi vive in una certa città sia a chi in quella città arriva per lavoro o turismo, offrendo interessanti spunti e alternative alle consolidate abitudini per i cittadini e creando percorsi su misura per chi è nuovo.

Come funziona Urban Finder?
Attraverso un brevissimo questionario che fa parte della registrazione, la app cerca di conoscere alcune delle caratteristiche utili per effettuare ricerche semplici oppure avanzate e quindi maggiormente raffinate. Leggi tutto

Transformers Art a Milano per difendere ambiente e speranza

Quando io e mia sorella eravamo piccine ci veniva permesso di guardare pochissima televisione: mia mamma esigeva che prima facessimo fronte ai nostri impegni scolastici e comunque, anche una volta terminati i compiti, continuava a preferire che ci dedicassimo ad altre attività quali il gioco oppure lo sport.

Vi confesso che oggi sono felice della scelta di mia mamma: guardo la televisione raramente in quanto non mi diverte né mi incuriosisce particolarmente e ho sempre preferito la lettura, per esempio. E sapete perché, oggi, trovo la televisione meno interessante del web? Perché permette un livello di interazione a mio avviso troppo basso: qualcuno dà e qualcun altro – noi spettatori – riceve senza possibilità di intervento o di inversione dei ruoli. Trovo sia un intrattenimento un po’ passivo, insomma, e a me piace invece ciò con cui posso interagire.

Tornando alla mia infanzia: tra i pochi programmi che io e mia sorella potevamo guardare figuravano i programmi per i bambini, alcuni selezionatissimi programmi di prima serata (quando la prima serata era davvero tale e iniziava presto) e, naturalmente, i cartoni animati. Non tutti, in verità.

Ricordo, però, che mi era consentito guardare Ufo Robot alias Goldrake, uno dei primissimi cartoni animati di genere fantascientifico e forse tale permesso era merito di mio papà che è sempre stato un appassionato delle avventure spaziali e futuristiche. Fu con lui che mi appassionai anch’io al genere e fu sempre con lui che, qualche anno dopo, iniziai a guardare film e telefilm ambientati in quel futuro immaginario che da sempre ha affascinato scrittori e registi: amerò per sempre la saga di Star Wars, riguarderò sempre con piacere Star Trek, soprattutto i vecchi episodi.

(Altro inciso: immaginate la mia gioia quando, alcuni mesi fa, per lavoro, ho avuto l’immenso onore di conoscere di persona il grande Luigi Albertelli. Importantissimo paroliere e autore televisivo, Albertelli è colui che ha scritto innumerevoli, bellissime e indimenticabili canzoni per tanti interpreti e ha fatto felici anche i bambini come me scrivendo le sigle di Ufo Robot, Capitan Harlock, Daitan III.)

La mia passione per fantascienza e robot si è nutrita anche con i Transformers: negli Anni Ottanta, con la serie animata e il primo film; poi, in tempi più recenti, a partire dal 2007, con la prima pellicola d’azione diretta da Michael Bay che ha poi avuto ben quattro sequel, l’ultimo dei quali in arrivo il prossimo giugno. Leggi tutto

Paolin SS 2017, il viaggio continua tra sogno e realtà

Era gennaio 2015, dunque esattamente due anni fa, quando ho conosciuto Francesca Paolin e ho ospitato il suo lavoro parlandone in un post per il blog.
Visto che amo continuare a seguire – e a sostenere – il percorso dei designer nei quali credo, oggi inizio questo nuovo post indossando e presentando un’altra delle sue leggiadre creazioni ottenute con la tecnica della stampa 3D. Scommetto che non è poi così difficile immaginare il nome dell’anello (… Butterfly!): direi che la forma è piuttosto suggestiva e intuitiva.
Mi fa piacere sottolineare un’altra cosa: la busta con le coloratissime sferette di polistirolo è il packaging dell’anello, a riprova del fatto che alcune persone sprizzano originalità e creatività da ogni poro, a 360 gradi e in tutto ciò che fanno.

Come ho già avuto modo di raccontare, Francesca è cresciuta tra la moda degli eccessi degli anni ’80 e il conseguente minimalismo di reazione degli anni ’90: ha coltivato la sua passione osservando la madre intenta a confezionare abiti, a lavorare a maglia, a realizzare a mano ricami raffinati così come aveva imparato dalle signore della nobiltà veneziana.
Allo stesso tempo, però, Francesca era affascinata dalla figura del padre e dai suoi abbinamenti di capi moderni e vecchi: senza dubbio, suo padre era un antesignano e aveva capito con un certo anticipo che il mix & match tra nostalgia e personalità sarebbe diventato un certo modo di essere, pensare e vivere. Oggi, quel certo modo si chiama vintage.

Grazie al suo talento, lo IED – Istituto Europeo di Design le ha offerto una borsa di studio per il diploma in Fashion and Textile Design: in seguito, ha ricevuto un’altra borsa di studio per il master in Fashion Design dalla Domus Academy.
Le sue esperienze professionali comprendono collaborazioni con designer e marchi di moda in tutto il mondo, dal Regno Unito all’Ecuador: nel 2011, ha vinto il premio Levi’s Womenswear Award al Mittelmoda, uno dei più accreditati concorsi internazionali per stilisti emergenti e studenti in fashion design.

A seguito di questo intenso vissuto tra figure per lei importanti e percorsi di studio e lavoro, Francesca ha sentito che era giunto il momento di creare il suo marchio ed è nata l’etichetta Paolin che riflette i suoi viaggi, i suoi sogni e le gioiose reminiscenze di famiglia. Leggi tutto

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