Giambattista Valli x H&M, la designer collection 2019 è servita

Dalla collezione Giambattista Valli x H&M (ph. credit pagina Fb H&M)

Durante i miei corsi in Accademia del Lusso, parlo spesso agli studenti dei neologismi collegati all’evoluzione della moda.

Uno di tali neologismi è per esempio masstige: ancora una volta, è la lingua inglese a rivelarsi perfetta allo scopo di raccontare efficacemente e sinteticamente un fenomeno oggi particolarmente diffuso proprio in ambito moda.

Di cosa si tratta?

Il termine nasce dalla contrazione di mass market e prestige: descrive una particolare strategia di co-branding (ovvero l’unione di due o più marchi per lanciare un nuovo prodotto) che riprende le leve del marketing di lusso (tra cui valore estetico e qualitativo) abbassando però la leva del prezzo e spingendo piuttosto sul valore della percezione simbolica, ovvero sul richiamo e sul fascino esercitato da una determinata maison o da un determinato brand.

È quello che fa – e lo fa da parecchi anni, precisamente quindici – il colosso svedese H&M, proponendo una serie di collaborazioni con grandi nomi della moda: nata in Svezia nel lontano 1947 e specializzata in quel settore universalmente conosciuto come fast fashion, la catena si è specializzata nel portare il dream factor nel mass market attraverso una serie di limited edition presentate solitamente con cadenza annuale.

Fin dal 2004, H&M ha concretizzato la propria idea di masstige in una serie di collaborazioni con brand e stilisti del calibro di Karl Lagerfeld (2004), Stella McCartney (2005), Viktor & Rolf (2006), Roberto Cavalli (2007), Comme des Garçons (2008), Matthew Williamson (aprile 2009), Jimmy Choo (novembre 2009), Sonia Rykiel (dicembre 2009), Lanvin (novembre 2010), Versace (2011), Marni (marzo 2012), Maison Martin Margiela (novembre 2012), Isabel Marant (2013), Alexander Wang (2014), Balmain (2015), Kenzo (2016), Erdem (2017), Moschino (2018).

Seguo il fenomeno da vicino da anni, come cliente (lo ammetto) e come editor (qui nel blog trovate per esempio il mio articolo sulla collezione Balmain, con un risvolto imprevisto, e qui quello sulla collezione Moschino scritto invece per ADL Mag): attualmente sono in attesa della nuova collaborazione di H&M che sarà con il celeberrimo stilista Giambattista Valli.

Giambattista Valli ha lanciato il suo brand nel 2005 e ha tenuto la sua prima sfilata di prêt-à-porter a Parigi, la città in cui si è trasferito (da Roma) per realizzare il suo sogno: nel 2011 ha presentato la sua prima collezione di alta moda ed è diventato membro ufficiale della Chambre Syndicale de la Haute Couture, un privilegio riservato a pochissime maison con nomi del calibro di Chanel, Dior, Givenchy.

Il suo sogno si è così avverato: Giambattista Valli è diventato uno dei nomi più in vista del mondo della moda, meritatamente.

Lo stilista riesce infatti a proporre lusso e bellezza con un approccio nuovo: le sue creazioni raccontano una storia d’amore senza tempo, senza età, senza ostacoli. Leggi tutto

Fashion Victims, quelle VERE vivono, lavorano (e soffrono) in India

Era il 24 aprile 2013 quando il Rana Plaza, edificio commerciale di otto piani, crollò a Savar, sub-distretto di Dacca, la capitale del Bangladesh.
Le operazioni di soccorso e ricerca si conclusero con un bilancio dolorosissimo: 1.134 vittime e circa 2.515 feriti per quello che è considerato il più grave incidente mortale avvenuto in una fabbrica tessile nonché il più letale cedimento strutturale “accidentale” nella storia umana moderna.
Com’è tragicamente noto, il Rana Plaza ospitava alcune fabbriche di abbigliamento, una banca, appartamenti e numerosi negozi: nel momento in cui furono notate delle crepe, i negozi e la banca furono chiusi, mentre l’avviso di evitare di utilizzare l’edificio fu ignorato dai proprietari delle fabbriche tessili.
Ai lavoratori venne addirittura ordinato di tornare il giorno successivo, quello in cui l’edificio ha ceduto collassando – e per questo ho messo “accidentale” tra virgolette…

Lo voglio ripetere: nel crollo, persero la vita 1.134 persone e ci furono oltre 2.500 feriti.

Molte delle fabbriche di abbigliamento del Rana Plaza lavoravano per i grandi committenti internazionali e questo orribile sacrificio di vite umane ha squarciato il velo di omertà che copriva, a mala pena, pratiche che moltissimi, in realtà, conoscevano da tempo e fingevano di non vedere.

Chi ha buona memoria, ricorderà forse che di tutto ciò ho già scritto lo scorso anno; continuerò a farlo, continuerò a scriverne finché sarà necessario, fino a quando non ci sarà un vero cambiamento, così come continuerò (anche questo come ho già fatto l’anno scorso) a scrivere di Fashion Revolution, il movimento presente in 102 Paesi nel mondo che è stato fondato da Carry Somers (stilista per oltre 20 anni con il brand Pachacuti che ha rivoluzionato il concetto di trasparenza nell’ambito della catena produttiva nella moda) e da Orsola de Castro (voce autorevole della moda sostenibile con il suo marchio From Somewhere fondato sul concetto di upcycling).

Nel 2013, dopo la tragedia del Rana Plaza, Carry e Orsola hanno deciso di fondare Fashion Revolution, organizzazione che conduce una costante campagna di sensibilizzazione rivolta soprattutto al consumatore finale: promossa attraverso stampa e social media, prevede eventi che siano mirati a promuovere il concetto di moda etica e di sostenibilità.

Nell’ottica di tale campagna e insieme a Fashion Film Festival Milano nonché in occasione della Fashion Revolution Week 2019 (22-28 aprile), Fashion Revolution ha promosso martedì 23 aprile la proiezione di “Fashion Victims”, docu-film di Chiara Ka’Hue Cattaneo e Alessandro Brasile.

Il documentario “Fashion Victims” è ambientato nel Tamil Nadu, ovvero uno dei 29 stati che compongono l’India: questo stato si trova nel sud del Paese e qui milioni di adolescenti e di giovani donne lavorano nell’industria tessile, dalla filatura alla tessitura del cotone fino alla confezione di capi di abbigliamento, per il mercato locale e internazionale. Leggi tutto

Anna Dello Russo: cerco la leggerezza e smantello il guardaroba archivio

Magari qualcuno penserà che io sia un po’ strana, eppure devo fare una confessione: ho approfittato delle recenti vacanze di Natale per fare tre cose importanti.
La prima è stata studiare e, tra l’altro, sono riuscita a visitare un paio di splendide mostre utili per nutrire la mia fame di bellezza, come la mostra sui costumi del Teatro alla Scala che ho raccontato qui e che potete a vostra volta visitare fino al 28 gennaio.
La seconda cosa è stata preparare un po’ di lavoro per gennaio e, infine, mi sono occupata di alcune faccende in casa.

Qualcuno penserà «anziché divertirsi e riposarsi, questa matta ha sgobbato»: non posso dare torto a chi la pensa così, però fatemi dire una cosa.
Penso che il tempo sia prezioso, che dover sempre essere di corsa ci uccida e che rallentare sia un lusso: ho dunque preferito approfittare del rallentamento tipico del periodo natalizio per portarmi avanti.
È come se avessi fatto un regalo a me stessa perché, in realtà, mi sono divertita (a mio modo, lo ammetto…); non solo, aver avuto modo di programmare con maggiore calma alcune attività di studio e lavoro mi fa sentire più serena.

Senza contare che, finalmente, come accennavo, ho messo mano ad alcune attività casalinghe che procrastinavo da tempo infinito: in particolare, mi sono dedicata a una bella operazione di pulizia del mio ormai ingovernabile guardaroba archivio, argomento assai dolente (chiedete a mio marito).
Ammetto che la situazione mi era sfuggita di mano, da parecchio, tanto da non riuscire quasi più a entrare nella stanza che ospita la mia collezione di abiti e accessori: finalmente, ho trovato tempo, voglia e (tanto) coraggio per liberarmi di un bel po’ di cose che, ormai, non erano altro che zavorra.

Mia mamma lo chiama repulisti, chi usa un linguaggio più contemporaneo lo chiama decluttering: chiamatelo come preferite, io vi dico solo che, dopo averlo fatto, mi sento in effetti molto meglio, anche se serve ancora altro lavoro per arrivare al risultato che vorrei raggiungere.
Sono però felice di aver intanto ripreso in mano le redini della situazione e di aver suddiviso capi e accessori scartati in due gruppi: cose delle quali disfarmi definitivamente, cose da provare a vendere.
Come ho raccontato in altre occasioni, sono una sostenitrice della second hand economy e sono fermamente convinta che ciò che non serve più a noi possa servire ad altri: così come a me capita di comprare oggetti vintage o di seconda mano, penso che qualcuno potrebbe essere interessato a ciò che ho eliminato e che, in moltissimi casi, è in condizioni più che onorevoli, tanto da provare una fitta di dispiacere al pensiero di gettare via diverse cose.

Beh, dopo aver fatto tutto ciò (è stato un lavoraccio, ve lo assicuro…), immaginate il mio stupore nel leggere che una persona che stimo molto – Anna Dello Russo – sta facendo la stessa operazione di smantellamento archivio, naturalmente con le debite proporzioni (ovvero il suo archivio è infinitamente più sostanzioso, significativo e importante del mio).

Anna Dello Russo, classe 1962, ha una laurea in arte e letteratura nonché un master universitario in design della moda: è una vera influencer con ben trent’anni di carriera come fashion editor (molti di quegli anni trascorsi in Condé Nast) e dal 2006 è direttrice creativa di Vogue Japan. Leggi tutto

Louis Vuitton, delocalizzazione, Made in Italy, H&M: perché tutto insieme?

Eccezionalmente, oggi pubblico un secondo post nella stessa giornata perché mi preme condividere con voi alcune riflessioni alquanto calde e attuali.

In questi giorni, circola infatti la notizia di un’inchiesta fatta da The Guardian: secondo l’autorevole quotidiano britannico, la maison Louis Vuitton (gruppo LVMH, ovvero una delle grandi holding del lusso) fabbricherebbe le proprie scarpe in Romania, per la precisione in Transilvania.
Sempre a quanto risulta secondo l’inchiesta, le scarpe vengono poi spedite da noi, qui in Italia, dove vengono semplicemente incollate le suole.
Altro che Made in France o Made in Italy, insomma, come invece viene stampigliato sulle suole.

Non voglio scendere nel merito specifico di questo episodio, perché il discorso è lungo e articolato.
Prima di tutto, occorrerebbe parlare bene di cosa oggi possa legalmente fregiarsi dell’appellativo Made in Italy (e sto meditando di scrivere un post dedicato).
E secondo, se vogliamo parlare di etica e soprattutto di etica del lavoro, bisogna dire che sembrerebbe che quelle fabbriche in Romania siano un ambiente pulito nel quale lo staff lavora da seduto, ha il fine settimana libero, è pagato per gli straordinari e non usa prodotti tossici.

(A proposito: un paio di cosette circa delocalizzazione, reshoring, Made in Italy, etica e via discorrendo le avevo già scritte tempo fa, nel 2014, ora che ci penso – precisamente qui)

L’osservazione che desidero fare è dunque piuttosto un’altra: bisogna tenere gli occhi ben aperti e non dobbiamo fidarci di tutto ciò che ci viene detto.
Oggi, il fast fashion viene spesso additato come l’essenza del male in ambito moda o peggio come l’unico male, ma non è così, non del tutto, non al 100%.
Così come non è vero che le maison di alto di gamma siano sempre virtuose, non è altrettanto vero che quelle di fast fashion facciano tutto quanto male.

Vi faccio un esempio pratico anche in questo caso.
Recentemente, ho fatto degli acquisti attraverso il sito H&M e quello che vedete qui sopra è il sacchetto che mi è arrivato insieme ai capi.
Perché – nonostante le responsabilità che si imputano al fast fashion e che certo non intendo negare – occorre anche dire che H&M, per esempio, è da anni in prima linea nella lotta per la sostenibilità.
Ha un sito dedicato nel quale dettaglia tutte le attività che svolge.
E, fin dal 2013, ha creato il più grande sistema globale di raccolta di abbigliamento usato del settore retail.
Tutti i negozi della catena, in ogni paese del mondo, dispongono di contenitori di raccolta dei capi: i clienti possono depositare capi usati di qualsiasi marca che saranno riutilizzati o riciclati, ricevendo un buono in cambio.
Già a febbraio 2014, H&M ha presentato i primi prodotti contenenti materiali ottenuti con l’iniziativa, ovvero capi in denim con una percentuale di cotone riciclato.

Non voglio fare un’arringa a favore del colosso del fast fashion, non mi interessa, credetemi; desidero solo – e lo ripeto! – dire a noi tutti di tenere gli occhi aperti e di guardare oltre.
Non dobbiamo subire i luoghi comuni, né nel bene e nel male, e non beviamoci bugie e/o false promesse, qualsiasi etichetta esse portino – letteralmente!

E per il momento mi fermo qui.

Se poi volete saperne di più sul caso Louis Vuitton, vi invito a leggere l’articolo di The Guardian.
E ce n’è anche per il gruppo diretto concorrente di LVMH, ovvero Kering: leggete cosa scrive Pambianco a proposito di un’altra querelle che riguarda degli occhiali…

La butto lì: sarà forse che quello di giocare un po’ con appellativi, definizioni e cavilli sia un vizio piuttosto diffuso?
Sarà forse che – come sostengo io – il male non stia oggi solo nel fast fashion ma in chiunque si comporti con poca trasparenza?

Manu

 

Second hand economy: i miei tre negozi preferiti a Milano

Oggi desidero parlare con voi di un argomento che mi sta molto a cuore: il second hand.

In un momento storico in cui circola meno denaro rispetto al passato (penso, per esempio, ai più goderecci Anni Ottanta), una delle soluzioni possibili è quella di allungare il ciclo di vita degli oggetti: così, dopo decenni di consumismo e di filosofia usa e getta, è il momento d’oro del riuso, dal vintage ai negozi second hand (o seconda mano), dai mercatini delle pulci alla pratica dello swap party.

Prima di tutto, però, occorre fare una doverosa distinzione tra vintage e second hand.

Il termine vintage indica espressamente oggetti prodotti almeno vent’anni prima del momento attuale e dunque si differenzia dal second hand che di solito è più recente. La caratteristica principale di un oggetto o di un capo vintage non è dunque soltanto quella di essere stato utilizzato in passato, bensì il valore che ha acquisito nel tempo per le sue doti di irripetibilità e irriproducibilità: rappresenta una testimonianza dello stile di un’epoca passata e magari ha anche segnato un particolare momento storico o un passaggio importante della moda o del design.

Tutto ciò è intrinseco già nel nome stesso: vintage deriva infatti dal francese antico vendenge, termine inizialmente coniato per i vini vendemmiati e prodotti nelle annate migliori e poi diventato sinonimo dell’espressione d’annata. Leggi tutto

Sonia Rykiel, non solo la regina del tricot

Ammiro le persone che dimostrano di avere carattere e personalità.
Mi piace che una persona si distingua nel mestiere che fa, qualunque esso sia. Resto ancor più affascinata quando si tratta di donne in quanto diventano fulgidi esempi da seguire.
Per questo motivo ammiravo tanto Mariuccia Mandelli, la stilista che aveva scelto Krizia come proprio pseudonimo, nome preso in prestito dall’ultimo Dialogo incompiuto di Platone, quello incentrato sulla vanità femminile.
Nel 2013, dopo una sfilata, avevo avuto l’immenso onore di poterle stringere la mano: lo scorso dicembre, a 90 anni, se n’è andata. Nel mio cuore c’è un posto che sarà suo per sempre e ora, al suo fianco, ne riservo uno per Sonia Rykiel: appena ho saputo della sua morte, ho subito pensato alla signora Mandelli e mi è venuto istintivo unirle indissolubilmente nel fatto di essere donne di grande carattere e personalità, stiliste che hanno saputo diffondere e difendere la loro opinione a proposito della femminilità e dei possibili modi di interpretarla.

Sonia Rykiel, classe 1930, iniziò a disegnare abiti nel 1962 quando, durante la gravidanza, non riusciva a trovare vestiti che le fossero comodi.
Soprannominata regina del tricot, concentrò la propria creatività sulla lana, dandole la stessa importanza che altri stilisti riservavano a tessuti pregiati e riuscendo a portare la maglieria oltre la dimensione artigianale.
Il pezzo che le fece ottenere il titolo di regina del settore fu un piccolo pullover attillato a righe: il capo finì sulla copertina di Elle e diventò un simbolo di liberazione e seduzione nonché di uno stile sofisticato e ribelle. Le donne – e prime fra tutte celebrità quali Audrey Hepburn, Catherine Deneuve, Lauren Bacall, Brigitte Bardot – se ne innamorano.

La sua filosofia? No, ai total look, no ai diktat, no ai limiti imposti dall’età.
Per lei era la moda a doversi mettere al servizio del corpo femminile e non viceversa (e questo è uno dei motivi per cui l’ammiro); ogni donna doveva essere libera di creare il proprio guardaroba, celebrando liberamente le proprie forme.
I capi di Sonia Rykiel conquistarono la ribalta della moda perché parlavano un linguaggio schietto e perché coglievano i desideri delle donne degli anni ’70: lei regalò loro libertà di movimento e di espressione.
«È la donna che anima l’abito. Non può essere il contrario. La provocazione è la donna, mai quello che indossa», così era solita dire.

Nel 1985, ricevette la Légion d’honneur, l’onorificenza più alta attribuita dalla Repubblica Francese. Nel 1987, le celeberrime Galeries Lafayette ospitarono Vingt ans de mode, la prima grande retrospettiva a lei dedicata; nel 2008, fu invece il prestigioso Musée des Arts Décoratifs a dedicarle una mostra, sempre monografica e sempre a Parigi.
La Rykiel non ebbe paura di sperimentare anche per quanto riguarda la possibilità di collaborazioni inedite e nel 2009 firmò una collezione per H&M.
Nel 2012, rivelò di avere la malattia di Parkinson tenuta nascosta per molti anni, fino a quando le era stato possibile, proprio in nome di quel carattere forte che l’animava. La rivelazione avvenne attraverso la pubblicazione di un libro autobiografico intitolato N’oubliez pas que je joue, dove non esitò a descrivere tutti i segni visibili della patologia sul suo fisico, dai tremori alle difficoltà di deambulazione.

Ed è stato il Parkinson a portarla via il 25 agosto.
Ai suoi funerali, a Parigi, c’era anche Lionel Jospin, ex primo ministro e suo amico; come ultima dimora della stilista, la famiglia ha scelto il cimitero di Montparnasse.
Lì riposano, tra gli altri, grandi personalità della cultura e dello spettacolo tra i quali Charles Baudelaire, Guy de Maupassant, Samuel Beckett, Marguerite Duras, Simone de Beauvoir, Jean-Paul Sartre, Serge Gainsbourg, Susan Sontag, Philippe Noiret. Un luogo affine alla personalità e allo spirito di una donna che ha amato la moda, l’arte, la musica, i libri, la letteratura (fu autrice di nove romanzi), la buona cucina e il cioccolato e che era molto di più della regina del tricot.
Folgorò anche Andy Warhol che la ritrasse e le dedicò un’intervista.

Sonia Rykiel è stata dunque un emblema di unicità, anticonformismo e ribellione.

Non solo dal punto di vista professionale, ma anche sotto il profilo personale e perfino nella malattia che – purtroppo – avvicina il suo destino a quello di André Courrèges, altro stilista che amavo molto e che è mancato all’inizio di quest’anno.

In un’intervista a Elle, Madame Rykiel non nascose di amare il potere e aggiunse di aver «lavorato per ottenerlo».
«Penso che le donne e gli uomini di potere siano uguali. Ce ne sono di incapaci e di formidabili», affermò nella stessa occasione. «Ma se mi chiedete di citarne una esemplare, non so chi dire. Soprattutto tra le politiche. Non sanno conservare quel potere di seduzione e quella dolcezza, tipicamente femminili. Si comportano troppo da uomini».
Esattamente ciò che ho sostenuto a mia volta in un post recente: come pensava la stilista, anch’io sostengo che le donne, per essere accettate e per ricoprire certi ruoli, non debbano affatto comportarsi come gli uomini, ma trovare il proprio modo.

E a mio avviso, una delle sue dichiarazioni più belle fu qualcosa che disse a Elle sempre in quella stessa intervista, una frase che mi pare possa ben riassumere l’essenza del suo lavoro e della sua vita.
«Non mi considero una femminista. Amo così tanto gli uomini. Non amo il femminismo di bandiera, anche se ho sempre difeso la mia libertà. Non penso che tra donna e uomo vada cercata la parità. Ma l’uguaglianza.»

Non credo ci sia nient’altro da aggiungere se non un affettuoso augurio: bon voyage, Madame Rykiel.

Manu

Il ritratto di Sonia Rykiel viene dalla pagina Facebook del brand.
Si tratta dell’invito alla sfilata della collezione autunno/inverno 1978-1979
e mostra Sonia Rykiel ritratta da Sarah Moon

I risvolti imprevisti della collezione Balmain x H&M

Haute Couture, prêt-à-porter, fast fashion: la lotta tra le varie visioni della moda è in corso ormai da tempo.
A dare un notevole colpo alla questione è – da parecchi anni – il colosso svedese H&M: alzi la mano chi può dire in tutta sincerità di non aver MAI comprato un capo di uno dei protagonisti assoluti del fast fashion.
Nato in Svezia nel 1947 e detentore di 3.733 negozi in tutto il mondo al 30 settembre 2015 (dati ufficiali), il marchio H&M porta avanti una filosofia ben precisa riassumibile in «la moda non è una questione di prezzo».
Fin dal 2004, ha concretizzato questa idea in una serie di capsule collection o forse è meglio dire limited edition, ovvero campagne speciali con stilisti di fama mondiale e style icon: tra i nomi, figurano Karl Lagerfeld (il primo), Stella McCartney, Elio Fiorucci, Roberto Cavalli, Rei Kawakubo, Comme des Garçons, Jimmy Choo, Lanvin, Versace, Marni, Maison Martin Margiela, Alexander Wang (lo scorso anno). E scusate se è poco.
Il gruppo H&M è diventato così maestro assoluto nel masstige, termine che nasce dalla contrazione di mass market e prestige: è una strategia di co-branding che riprende le leve del marketing di lusso (valore estetico e qualitativo) abbassando però la leva del prezzo e spingendo piuttosto sul valore della percezione simbolica, ovvero sul richiamo e sul fascino esercitato da una determinata maison o da un determinato brand. H&M, ripeto, può considerarsi maestra e direi antesignana in tutto ciò con un sold out praticamente immediato per ogni collezione di co-branding come quasi nemmeno un concerto di Justin Bieber.
Ora è arrivato il turno della collezione Balmain x H&M: comprende abbigliamento e accessori per uomo e donna e sarà disponibile a partire dal 5 novembre in alcuni punti vendita selezionati e sul sito. La collaborazione firmata da Olivier Rousteing, direttore creativo della maison francese dal 2011, ha debuttato il 20 ottobre a New York, naturalmente alla presenza di celebrity, it-girl e modelle che si sono mescolate agli esponenti della stampa specializzata (nella foto in alto, Olivier Rousteing, Kendall Jenner e Gigi Hadid si divertono al party – fonte sito H&M).
Fin qui – probabilmente – non vi ho detto nulla di nuovo e forse vi state domandando se io stia per dirvi che andrò a fare la fila all’alba fuori dal negozio meneghino di piazza Duomo (no, non ci andrò, forse darò una sbirciata sul sito, magari a qualche bijou) oppure se voglia lanciarmi in una presentazione minuziosa dei capi della collezione.
Nulla di tutto ciò: non mi interessa entrare nelle discussioni (già accese) tipo «ma lo spirito di questa collezione è autenticamente Balmain?» né vi dirò se a me piace né se apprezzo o meno il masstige. Strano ma vero, stavolta sono interessata ad altro, non ai contenuti specifici (dovrò preoccuparmi per me stessa?) bensì a un contorno, a un risvolto collaterale ben preciso, sicuramente imprevisto e a mio avviso illuminante.
Dovete sapere che è successa una cosa: in netto anticipo su tutti, persino sul colosso del low cost, lo scorso 5 ottobre la redattrice e scrittrice di Chicago Kathryn Swartz Rees ha condiviso sul proprio account Instagram ben 99 scatti di accessori, borse, abiti e scarpe della collezione.
Non si è trattato di un attacco hacker, ma di una semplice ricerca su Google fatta «con i parametri giusti, il sito di H&M è stato indicizzato da Google e mi è capitato di cercare al momento giusto». Così ha detto Kathryn e se volete sapere tutto in dettaglio, potete leggere qui il suo racconto.
Ovviamente, in H&M non sono stati particolarmente felici e hanno chiesto a Kathryn di rimuovere le foto, cosa che lei – gentilmente – ha fatto. Incidente chiuso.
Ecco, il mio interesse verso questa collezione rientra tutto in tale episodio che è la dimostrazione di come, attraverso il grande web, nulla sia più riservato, nemmeno se in ballo ci sono enormi interessi economici e nemmeno se gli attori protagonisti sono aziende importanti che certamente ben sanno come si fanno certe cose.
Perché la verità è che, nel momento in cui mettiamo qualcosa in rete, quel qualcosa cessa di essere nostro e in qualsiasi momento e in qualsiasi modo qualcuno può arrivare al nostro tesoro. Non importa quale livello di privacy crediamo di aver impostato né importa quale sia lo scopo di chi viola i nostri contenuti, dalle intenzioni più fraudolente alla semplice curiosità magari un po’ morbosa.
Questo episodio è, secondo me, un ottimo promemoria. Per tutti.
Direte voi: e lo dici proprio tu? Sì, amici miei, perché nonostante il web sia il mio lavoro, nonostante abbia questo blog, nonostante sia fortemente presente su svariati social network, di questa cosa sono in realtà ben conscia e da sempre cerco di adottare l’unica strategia a mio avviso possibile: se non voglio fare sapere una cosa non la metto in rete, nemmeno con un livello di privacy pari a quello della NASA e nemmeno dietro un milione di password, perché so perfettamente che da qualche parte ci sarà sempre qualcuno in grado di abbattere tutto ciò.
Non credete a me? Guardate l’esempio H&M e guardate un video che desidero condividere da tempo e che, ora, cade proprio come il cacio sui maccheroni – come si suol dire.

Detto tutto ciò, prometto che dal prossimo post si torna a parlare di moda pura, senza risvolti imprevisti.
E se qualcuno andrà a fare la fila da H&M mi faccia poi sapere le sue impressioni: ho dato l’incarico a una delle studentesse del mio nuovo corso di Fashion Web Editing in Accademia Del Lusso, ma chissà se mai se ne ricorderà nel mezzo della frenesia da Balmain.

Manu

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