«Mi trovo oggi a scrivere un omaggio per un uomo che non era un amico che frequentavo, eppure che tanto peso ha avuto per me, perché siamo fatti di concreto e di sogno, di frequentazioni reali e di affinità mai vissute nel quotidiano eppure ugualmente forti, di necessario e di voluttuario, di tangibile e di spirituale.»
Sono le parole che, tre anni fa, ho dedicato a George Michael: quando il 25 dicembre 2016 ha lasciato questo mondo, George ha portato con sé l’ultimo pezzo della mia adolescenza e in un post pubblicato qui nel blog avevo provato a spiegare perché si possa piangere e provare un dolore pungente per la scomparsa di una persona che non era un parente o un amico e che, eppure, aveva un ruolo preciso nella nostra vita.
Ieri, purtroppo, ho provato la stessa sensazione quando ho saputo che è scomparso lo scrittore Luis Sepúlveda, ucciso anche lui come troppe persone dal COVID-19.
E, ancora una volta, ho provato quella sensazione, la sensazione che una parte della mia vita stesse scomparendo insieme a lui.
Il suo romanzo ‘Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare’ uscì nel 1996, quando io una giovanissima donna.
Lo lessi quindi non come una favola per bambini, ma come una lezione magica e potente per adulti.
Ero in un momento particolare della mia vita e il libro e le sue parole mi attraversarono e mi trafissero, regalando anche a me il coraggio di volare.
Non ho mai dimenticato quella lettura e non ho mai dimenticato quale significato abbia avuto per me.
Conservo il libro gelosamente, mi è sempre rimasto caro ed è questo il motivo per cui oggi sento di aver perso una parte di me e della mia vita.
Ho pianto spesso nell’ultimo mese, ho pianto davanti alla televisione e leggendo i giornali, davanti a storie di persone mai conosciute, davanti a lutti che ho sentito come miei.
Sto male da un intero giorno eppure non sono riuscita a versare una sola lacrima per Luis Sepúlveda e la cosa peggiore è che sento il dolore in mezzo al petto e non riesco a farlo sciogliere, non riesco a tirare fuori il groppo che mi serra la gola.
Non riesco a scrivere altro, ma voglio condividere un pezzo della conclusione della Gabbianella e il Gatto.
«(…) “Bene, gatto. Ci siamo riusciti” disse sospirando.
“Sì, sull’orlo del baratro ha capito la cosa più importante” miagolò Zorba.
“Ah sì? E cosa ha capito?” chiese l’umano.
“Che vola solo chi osa farlo” miagolò Zorba.
“Immagino che adesso tu preferisca rimanere solo. Ti aspetto giù” lo salutò l’umano.
Zorba rimase a contemplarla finché non seppe se erano gocce di pioggia o lacrime ad annebbiare i suoi occhi di gatto nero grande e grosso, di gatto buono, di gatto nobile, di gatto del porto.»
Zorba il Gatto si riferisce a Fortunata, la Gabbianella alla quale insegna a volare in un romanzo che è una favola per i bambini e una lezione di vita per gli adulti.
Ed è lei, Fortunata, che lui resta a guardare fino a confondere pioggia e lacrime.
Ho deciso che in questo week-end rileggerò il romanzo sperando – in questo momento così complesso – di tornare a prendere qualche utile ripetizione di volo. Le sfide da affrontare oggi sono sicuramente diverse dalle difficoltà in cui mi agitavo quando lo lessi la prima volta e c’è bisogno di incoraggiamento, di tornare a ricordare che vola solo chi osa farlo.
Chissà, forse anche questo dolore che sento in mezzo al petto mi darà tregua. Forse.
Grazie e buon volo, Mr. Sepúlveda.
Manu