Off the shoulder, la scollatura che non passa MAI di moda

Off the shoulder: un’espressione che significa semplicemente spalle scoperte e che indica pertanto tutti quegli abiti, top e camicie che lasciano liberi collo e spalle.

Vi confesso che, all’espressione in lingua inglese, io preferisco di gran lunga l’equivalente italiano che, a mio avviso, è più evocativo ed eloquente: scollo omerale, ovvero che accarezza e lascia vedere l’òmero, l’osso lungo del nostro braccio, o meglio ancora la sua parte superiore, quella che lo unisce a scapola e clavicola, anch’essa lasciata libera da detta scollatura.

Scollatura che, da qualche stagione, è tornata di gran tendenza: provate a digitare chiavi come off shoulders top oppure off shoulders dress su Google e vi imbatterete in una infinità di risultati.

Avrete notato che ho (appositamente) scritto tornata: come in molti altri casi, infatti, questa tendenza non è affatto nuova ma è, al contrario, uno dei tanti corsi e ricorsi della moda.

Senza andare neanche troppo indietro, possiamo per esempio trovare testimonianze ben precise di questo tipo di scollatura in tutto l’Ottocento.

Come già saprà chi è appassionato di storia della moda, nel periodo della Restaurazione (il processo di ristabilimento del potere dei sovrani assoluti in Europa, tra il 1814 con il Congresso di Vienna e i moti del 1830-1831), si diffuse una moda dagli indumenti pesanti, rigidi e fastosi: le donne indossavano il corsetto o bustino e, per dare l’impressione di avere la vita ancora più sottile, si abbinavano gonne a campana, allacciate alla cintura e svasate sul fondo.

La mania per l’ampiezza della gonna divenne così eccessiva da raggiungere dimensioni e peso insostenibili, al punto di dover ricorrere a un supporto utile a sorreggere il volume dell’abito: la crinolina. Leggi tutto

Gender gap vs women empowerment: la moda non è un lavoro per donne?

È da un bel po’ (precisamente da qualche mese) che medito sul contenuto di un articolo di Pambianco.

Dovete sapere che detta rivista è una delle mie preferite e che non manca mai tra le letture quotidiane: dunque, se intitola un articolo ‘Allarme gender gap, la moda non è un lavoro per donne’, ecco che Pambianco attira immediatamente la mia attenzione anche perché si tratta di un argomento che mi sta particolarmente a cuore.

Cosa sostiene l’autorevole magazine nell’articolo datato 22 maggio?

Viene citato uno studio intitolato ‘The glass runway’, redatto dal Council of Fashion Designers of America (CFDA), Glamour e McKinsey & Company: in questo studio si afferma che, sebbene le donne rappresentino l’85% delle laureate presso i principali istituti di moda americani, i ruoli chiave ricoperti da nomi femminili sono ben pochi.

Il mondo della moda – rincara la dose Pambianco – ha recentemente mostrato interesse per le diversità di orientamento sessuale e di taglia, ma non abbastanza per il gender gap.

Con gender gap si intende l’insieme di tutte quelle differenze che si riscontrano a livello di condizioni economiche e sociali (dall’istruzione fino all’accesso al lavoro) e che influenzano la vita degli esseri umani in base al loro genere di appartenenza: in parole povere, parliamo di disparità di condizione tra uomini e donne.
E generalmente, quando si parla di gender gap, si tende (purtroppo) a osservare l’esistenza di maggiori penalizzazioni a sfavore delle donne rispetto agli uomini.

«Non ne parliamo molto perché c’è la sensazione che tutti ne siano già a conoscenza, ma a volte è necessario dire qualcosa affinché le persone non facciano finta sia un problema inesistente», ha dichiarato Diane von Fürstenberg, presidente dello stesso CFDA.

I dati contenuti nello studio ‘The glass runway’ sono alquanto desolanti. Leggi tutto

Pillole di #PFW: Poiret FW 18 – 19, Le Magnifique rivive 100 anni dopo

Si chiude oggi il mese dedicato alle quattro principali Settimane della Moda (in ordine di tempo New York, Londra, Milano e Parigi) e alla presentazione delle collezioni donna per l’autunno / inverno 2018 – 19: prima che il lungo tour de force iniziasse, la mia attenzione era stata attirata da una notizia riguardate la Paris Fashion Week le cui passerelle sarebbero state calcate anche dalla maison Poiret.

Perché la notizia ha catturato la mia attenzione?

In primo luogo, perché Paul Poiret è una delle mie icone in ambito moda, uno di quei couturier che sono stati protagonisti di grandi cambiamenti e grandi innovazioni.

In secondo luogo, perché lo storico marchio nato nel 1903 era stato chiuso nel 1929 per essere poi resuscitato in tempi recenti sotto la guida della business woman Anne Chapelle, già fautrice della rinascita di brand di moda tra i quali Ann Demeulemeester e Haider Ackermann.
Nel nuovo corso intrapreso, Anne Chapelle, in qualità di CEO, ha affidato la direzione creativa e stilistica alla designer cinese Yiqing Yin, classe 1985, nata a Pechino ma di stanza a Parigi fin dalla più tenera età, vincitrice di prestigiosi premi.
Non solo: visto che in Francia la moda è presa con grande serietà e che le viene riconosciuta estrema importanza, l’appellativo Haute Couture viene giuridicamente protetto e può essere accordato esclusivamente dalla Fédération de la Haute Couture et de la Mode alle case che figurano in una lista stabilita ogni anno insieme al Ministero dell’Industria. Ebbene, da luglio 2011, dopo aver presentato la sua seconda collezione, Yiqing Yin è stata invitata come membro ospite; nel 2015, è diventata uno dei pochissimi membri ufficiali e permanenti e, da allora, può fregiarsi dell’appellativo di grand couturier.
Tutto ciò per dirvi che quella di Yiqing Yin è stata una scelta di grande qualità.

Alla luce di tutto ciò, curiosità, attesa e aspettativa da parte di tutti – sottoscritta inclusa – erano enormi, insieme a una certa dose di timore.
Il tentativo di rilanciare brand analoghi quanto a storia e glorioso passato (cito per esempio Vionnet) è un’operazione assai rischiosa che, spesso, non dà gli esiti sperati tuttavia, forte anche della presenza di Yiqing Yin, Anne Chapelle era molto positiva.
«Sono sicura che i social media e il digital marketing faranno risorgere Poiret», aveva dichiarato la manager alla prestigiosa testata Business of Fashion, concludendo con la frase «è come leggere un libro alle giovani generazioni». Già, un libro di storia nell’era del digitale.

Tant’è che, nelle mie lezioni in Accademia del Lusso, non manco mai di citare Paul Poiret (1879 – 1944) ai miei studenti, raccontando loro chi sia stato l’uomo al quale si deve la liberazione della donna dalla costrizione del corsetto, colui che è universalmente considerato il primo creatore di moda in senso moderno, tanto che i suoi contributi alla moda del ventesimo secolo sono stati paragonati a quelli di Picasso nell’ambito dell’arte.

Poiret fondò la propria casa di moda nel 1903: le vetrine del suo negozio, a differenza di quello che era il costume dell’alta moda dell’epoca, erano ampie e appariscenti anche perché ciò che maggiormente contraddistinse Poiret rispetto agli altri stilisti fu l’istinto per il marketing.
Non per nulla, fu il primo a pubblicare a scopo promozionale i propri bozzetti e a organizzare défilé itineranti per promuovere i propri lavori in giro per l’Europa.
Attorno al 1910, Paul Poiret decise di rivoluzionare il campo sartoriale abolendo decisamente il corsetto, proponendo una linea stile impero, con la vita alta e la gonna stretta e lunga: «ho dichiarato guerra al busto», scrisse nelle sue memorie.
La produzione della maison Poiret ben presto si allargò all’arredamento e ai complementi d’arredo; fu il primo a dedicarsi alla realizzazione di profumi, lanciando una consuetudine che sarebbe stata poi seguita dai maggiori stilisti del XX secolo (tra i quali Coco Chanel).

Oltre che per alcuni suoi abiti stravaganti (gonne asimmetriche, pantaloni alla turca e tuniche velate in stile harem nonché fantasiose creazioni per donne del calibro della marchesa Luisa Casati Stampa, come potete vedere in questo mio precedente post), il maggiore contributo al mondo della moda da parte di Poiret fu lo sviluppo di un approccio incentrato sul drappeggio che rappresentava un cambiamento radicale rispetto alle strutture in voga in quegli anni.
Le maggiori fonti di ispirazione di Poiret provenivano dalle tradizioni folcloristiche regionali e la struttura delle sue creazioni rappresentò «un momento fondamentale nella nascita del modernismo e fissò i paradigmi della moderna moda, cambiando irrevocabilmente la direzione della storia del costume», citando dal catalogo della mostra Poiret King of Fashion tenuta nel 2007 al Metropolitan Museum of Art di New York.

Negli anni della Prima Guerra Mondiale, Poiret dovette abbandonare le sue attività: nel 1919, quando poté far ritorno, la maison era sull’orlo della bancarotta.
Durante la sua assenza, nuovi stilisti come la già menzionata Coco Chanel si erano accaparrati una buona fetta della clientela grazie a creazioni dalle linee semplici e sobrie in linea con le tendenze moderniste: in breve tempo, le elaborate e sontuose creazioni di Poiret furono considerate fuori moda e lui fu costretto a ritirarsi.
Nel 1929, la maison stessa fu chiusa, mentre lui morì nel 1944, ormai dimenticato da tutti.

Così com’è accaduto a molti uomini e donne geniali, la storia di Poiret è piena di luci e ombre, grandezze e debolezze, momenti di genio assoluto alternati a cadute e contraddizioni: per questo lo amo, perché la sua è una storia estremamente ricca di umanità e perché il suo apporto alla moda è stato davvero fondamentale, tanto da essersi guadagnato il titolo di Le Magnifique.
Per questo tifavo per Yiqing Yin così come, allo stesso tempo, avevo timore che nessuno – nemmeno lei – avrebbe potuto far rivivere l’unicità di un uomo decisamente sopra le righe: forse, dovremmo adeguarci all’idea che certe avventure non possono proprio continuare oltre il proprio creatore.

Siete curiosi? Volete sapere com’è andata? Se sono stata delusa o meno?

Diciamo che la brava e intelligente stilista cinese ha fatto l’unica cosa che – secondo me – poteva fare: non ha aperto gli archivi storici della maison semplicemente reinterpretandoli, come molti si aspettavano, bensì ha pensato a ciò che un visionario come Poiret avrebbe probabilmente fatto oggi, nel 2018, più di cento anni dopo e in uno scenario molto diverso.

Lui che, a inizi Novecento, ebbe il coraggio di proporre capi e fogge considerate scandalose e irriverenti, oggi non avrebbe replicato sé stesso ma avrebbe invece trovato il modo di rompere ancora una volta gli schemi ricorrenti: nella nostra epoca, in un momento di proposte stilistiche cariche di ridondanza e di massimalismo (avete notato, per esempio, le paillette presenti su molte passerelle nonché il ritorno delle spalle esagerate e dei colori accesi se non fluo nonché le sovrapposizioni e le stratificazioni sempre più abbondanti?), tale rottura può essere rappresentata dalla pulizia.

Quindi niente pantaloni alla turca – ciò che tutti si sarebbero aspettati in casa Poiret – e plissettature presenti in abiti fluidi che danzano attorno alla figura.
Movimento è una delle parole chiave e gli abiti oversize offrono spazio alla libertà: la donna di Poiret mantiene il suo lato misterioso che non viene mai completamente rivelato al primo sguardo.

Definirei tutto ciò un debutto cauto e intelligente, lo sottolineo nuovamente, forse privo dei colpi di scena tanto cari a Paul Poiret eppure libero da qualsiasi spiacevole sensazione di flop.
Non è poco e, a questo punto, aspetto fiduciosa di vedere come la storia di Poiret potrà proseguire nell’epoca del digitale quando, se non dal corsetto, donne – e uomini – hanno bisogno di liberarsi ancora da molte gabbie, fisiche e mentali, liberando il corpo, risvegliando i sensi, abbandonando gli stereotipi per emancipare finalmente e veramente i propri pensieri.

Manu

Se anche voi volete seguire la maison Poiret: qui il sito e qui l’account Instagram dal quale viene anche l’immagine che ho scelto per illustrare il post. Qui, qui, qui e qui trovate alcune foto e brevissimi video dall’account Instagram di Suzy Menkes, una delle mie giornaliste preferite, sulla collezione e il backstage.

Rosa Genoni, la moda di domani calata nella storia di ieri

So di rischiare di risultare noiosa, eppure non posso fare a meno di iniziare questo post ribadendo ancora una volta il mio immenso amore per la moda.

Si tratta di un amore talmente antico da essere diventato come la questione dell’uovo e della gallina: chi è nato prima? Io oppure l’amore per la moda era contenuto già nel mio DNA?

Scommetto di essere altrettanto noiosa se ribadisco che tale amore non è solo per la parte estetica e di apparenza, ma anche per le storie, i significati e i valori dei quali la moda sa farsi veicolo.

Con il passare del tempo, mi rendo conto che della moda amo soprattutto questo, la capacità di essere linguaggio, potente e immediato, di essere specchio formidabile dei tempi e della società.

Per questo, da anni, studio con passione la storia del costume e della moda.

Sono fermamente convinta che il passato possa fornirci la chiave per conoscere e interpretare il presente e anche gli strumenti per iniziare a immaginare il futuro: non sono una nostalgica, al contrario, vivo proiettata verso ciò che verrà, ma penso che senza passato siamo come colossi dai piedi d’argilla.

Più vado avanti a studiare la moda e più sono affamata e curiosa; più ne so e più mi rendo conto che c’è ancora tanto, anzi, tantissimo da sapere.

Per esempio, qualche anno fa, ho iniziato a sentir parlare di Rosa Genoni, figura importantissima per la moda e per il Made in Italy: è importante, già, eppure è poco conosciuta perfino tra gli addetti ai lavori, tanto che il materiale che circola su di lei è poco. Leggi tutto

Palazzo Reale a Milano ospita gli Incantesimi del Teatro alla Scala

Tra i tanti ricordi della mia infanzia, ci sono quelli legati alla musica.

Ai miei genitori è sempre piaciuta e rammento bene quando, la domenica mattina, durante la bella stagione, mia mamma amava aprire tutte le finestre di casa lasciando entrare l’aria fresca: in quelle mattinate gioiose, non mancava mai la musica diffusa attraverso un giradischi e a riecheggiare di stanza in stanza erano spesso le opere liriche e le note delle arie di Giuseppe Verdi, di Gioacchino Rossini e di molti altri ancora.

È da allora che Madama Butterfly di Giacomo Puccini è una delle mie opere preferite e non dimenticherò mai il libretto che sfogliavo con avidità in cerca di immagini e dettagli né la profonda impressione che la storia di quella e di molte altre opere esercitavano sulla mia fervida fantasia di bambina. Un’impressione, un fascino e un incantesimo tanto forti che, quando qualche anno fa fui invitata dalla contessa Pinina Graravaglia alla festa intitolata Teatro dell’Opera, passai un intero mese a prepararmi per il personaggio che scelsi di interpretare, ovvero Medora, la protagonista femminile de Il Corsaro di Giuseppe Verdi.

Vi racconto tutto ciò per darvi la misura dell’emozione che ho provato settimana scorsa, quando mi sono ritrovata a visitare la mostra Incantesimi – I costumi del Teatro alla Scala dagli Anni Trenta a oggi.

Ve lo confesso, non è stata una visita programmata: in realtà, ero a Palazzo Reale, la sede, per la meravigliosa mostra dedicata a Caravaggio e ho scoperto che, al termine del percorso, si passa attraverso le Sale degli Arazzi che attualmente ospitano l’esposizione Incantesimi.

In cosa consiste tale mostra?

In ventiquattro straordinari costumi che sono stati selezionati e restaurati tra i numerosi abiti di scena custoditi nei magazzini della Scala, ventiquattro costumi che si devono ad alcune delle firme più celebri nella storia del teatro. Leggi tutto

VALEORCHID: poetica come un’orchidea, forte come un samurai

Devo stare calma.

Non devo lasciare che l’emozione si impossessi di me, anche se la mano mi trema un po’, perfino sulla tastiera.

O forse sto sbagliando. Forse dovrei lasciarmi andare, semplicemente.

Dovrei farlo perché – per me – la moda è un linguaggio, un modo di esprimermi. Dunque è fatta di emozioni, di sensazioni.

La moda per me è vedere un abito e sentire che è quello giusto, che è quello che mi farà stare bene. Come se fosse una pelle indossata da sempre.

La moda per me è una passione che sboccia improvvisa e inattesa, è un colpo di fulmine.

Alla luce di tutto ciò e grazie al lavoro che faccio e che mi porta a conoscere personalmente molti degli stilisti e dei designer dei quali parlo, spesso è per me difficile scindere l’abito (o il gioiello o le scarpe o la borsa) da colui o da colei che li ha creati, è difficile scindere la creazione da un bagaglio fatto di emozioni e sensazioni.

E allora – penserete forse voi – lascia fluire queste emozioni. Lasciare libere, falle correre, non le imbrigliare.

Ma, vedete, oggi c’è un’altra questione sul piatto della bilancia: la designer della quale desidero parlarvi è un’Amica, una di quelle con l’iniziale maiuscola. Per questo vorrei restare calma, distaccata; mi dispiacerebbe se qualcuno pensasse anche solo per un istante che il mio racconto e il mio parere siano influenzati e compromessi dall’amicizia anche perché – in realtà – non lascio mai che esse si mescolino.

E non per cinismo; al contrario, lo evito proprio per l’enorme rispetto che provo per entrambi, per l’amicizia e per il lavoro. E perché penso che la confusione non faccia bene, a nessuno dei due ambiti. Leggi tutto

Sine Modus, i turbanti vintage lontani dalle tendenze passeggere

Diversi anni fa, intercettai un paio di leggings in un negozietto: da brava figlia degli anni ’80 che li ricordava col nome di pantacollant, non me li feci scappare.
Un giorno me li vide un’amica forse troppo giovane (beata lei) e, sgranando gli occhi, mi chiese “hai tagliato i piedi a un paio di collant?”: chissà se si è ricordata di questo episodio quando i leggings sono poi tornati prepotentemente in tutti i negozi qualche stagione dopo.
La stessa cosa mi accadde con i turbanti: li amo da sempre e parecchie stagioni fa ne trovai uno nero, semplicissimo e in jersey, da H&M, precisamente nella linea Divided. Divenne un fedele compagno.
Sapete meglio di me che, adesso, il turbante è il copricapo più desiderato.
Insomma, ciò che voglio dire è che, proprio io che detesto i trend, riesco spesso a captare – in modo assolutamente casuale o forse istintivo – capi che poi diventano must have, come piace scrivere a molti.
Ve lo confesso: è a quel punto che mi vien voglia di escludere il capo in questione dal mio armadio e non perché io sia una snob, ma perché vorrei che non si adottasse pedissequamente tutto ciò che la moda ci propina e si pensasse di più a ciò che i capi raccontano di noi. Pretendo che un capo mi rappresenti e credo che questa pretesa dovrebbe appartenere a tutti noi. Leggi tutto

La moda che verrà # 19: Misuraca primavera / estate 2014

Si dice che le prime volte importanti non si dimentichino mai: mi vengono in mente la prima volta che ci si innamora e che si dà un bacio, il primo esame all’università, il primo colloquio di lavoro, la prima volta che si va in vacanza da soli, la prima volta in cui si guida.

Ricordo tante mie prime volte, in effetti, e ricordo con particolare intensità quelle legate al mondo della moda, per esempio la prima volta in cui mi sono imbattuta in Gianfranco Fenizia e nel suo brand Misuraca: era il novembre del 2012 e Stefano Guerrini mi aveva proposto di scrivere un pezzo sulla collezione autunno / inverno 2012 – 2013 da pubblicare su WBIS.

Rammento molto bene la mia sorpresa di allora davanti al percorso dello stilista: Gianfranco Fenizia ha studiato architettura allo IUAV di Venezia laureandosi con una tesi sulla progettazione urbana.

Ha collaborato con diversi studi e ha creato collezioni di mobili e accessori per la casa che hanno avuto grande successo, tanto da essere pubblicati sulle maggiori riviste di arredamento.

Si è avvicinato al mondo della moda progettando allestimenti per le boutique Fendi e Mila Schön, poi ha lavorato per marchi importanti come Valentino, Dolce & Gabbana, Kenzo e ha collaborato anche con Capucci.

Nel 2004, Fenizia ha incontrato lo stilista Albino D’Amato, incontro che ha segnato il suo passaggio decisivo alla moda, tanto che nel 2009 ha fondato Misuraca, il suo brand. Leggi tutto

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