Qualche chiacchiera attorno alle cosiddette mascherine fashion…

Quella che vedete qui sopra NON è una foto attuale.

Risale al 18 settembre 2019 ed erano i giorni dell’edizione di Milano Moda Donna (ovvero la settimana della moda o fashion week) che rivelava le collezioni per la primavera / estate 2020.
Ero alla presentazione di Yosono, marchio di borse al quale sono affezionata e del quale ho parlato più volte, nel 2018 (qui) e poi più recentemente presentando (qui) la speciale iniziativa Fuckovid-19.
Era stato allestito un photocall speciale con dei foulard con i quali io e molti altri (editor, giornalisti, stylist, blogger) eravamo stati invitati a giocare reinterpretandoli, mentre il bravissimo fotografo Federico Patuzzi ci immortalava.

A me venne in mente di usare il mio foulard come una sorta di bavaglio, a mo’ di bandito stile Far West: non so bene perché ebbi questo istinto, credo per nascondere almeno parzialmente la faccia stanca che avevo in quei giorni e per mitigare l’imbarazzo che sempre provo quando mi trovo davanti all’obiettivo e non dietro – come invece preferisco.
E credo di averlo fatto anche perché mi divertiva l’idea di comunicare solo con gli occhi e con lo sguardo

Allora era solo un gioco e non potevo certo immaginare che quel gesto di nascondere bocca e naso sarebbe risultato quasi come una sorta di premonizione: oggi, con il cosiddetto senno di poi, ho deciso di scrivere proprio di mascherine, quelle che temo dovremo abituarci a indossare – ahimè – per molti mesi…
E se lo faccio, se ne parlo, è perché, da più parti, sono stata sollecitata a esprimere il mio parere in merito all’idea di fare diventare le mascherine quasi un trend, un oggetto di e alla moda; insomma, parleremo di mascherine fashion.

Ma per giungere a dirvi cosa penso delle mascherine fashion, permettetemi di fare prima alcune considerazioni perché qui c’è un concetto che diventa centrale, che è il nocciolo della questione: quello di mascherare e celare il nostro volto.

Questo nocciolo può essere affrontato sotto molteplici punti di vista, con considerazioni storiche, psicologiche, culturali, sociali e perfino economiche.

Prima di partire, però, faccio una doverosa precisazione.
È per me fondamentale sgombrare il campo da qualsiasi equivoco poiché fare confusione o cattiva informazione è pericolosissimo e non fa parte del mio modo di agire. Leggi tutto

Bob Krieger, il grande fotografo che io ricorderò anche per la sua simpatia

«Stamattina ho avuto il piacere di conoscere e ascoltare Bob Krieger in occasione dell’anteprima stampa della mostra che Palazzo Morando gli dedica.
Ed è così che ho scoperto qualcosa che non sapevo: oltre a essere un grande fotografo, uno dei fotografi che più hanno influenzato moda e costume a partire dagli Anni Sessanta (e questa parte mi era nota), ho scoperto che Krieger è anche un uomo simpatico, brillante e appassionato, davvero piacevolissimo da ascoltare, generoso quanto ad aneddoti ed esperienze.
Sono felice ogni volta in cui scopro che una persona nota è umile e non arrogante come invece sono molti anche senza essere conosciuti a livello mondiale…
E così, la cartelletta stampa con l’autografo e la dedica di Bob Krieger resterà tra i miei ricordi più cari.»

Sono le parole che ho scritto il 7 marzo 2019 dopo la conferenza stampa grazie alla quale ho avuto l’immenso onore di conoscere Bob Krieger.

Quando giovedì sera ho appreso della sua scomparsa… ero incredula.
L’ennesima scomparsa, l’ennesimo vuoto, l’ennesimo lutto per il mondo e non per quello della cultura, ma per l’intera umanità.

Silenziosa e pensierosa, gli do allora il mio saluto condividendo le foto che avevo realizzato quella mattina in occasione della conferenza stampa e dell’anteprima nonché riportando parte dell’articolo che avevo scritto per ADL Mag per raccontare la bella mostra di Palazzo Morando… Leggi tutto

01/05/2020, 7 anni di Agw in tempi di COVID-19 tra salute, felicità e libertà

Ieri sera, attraverso uno degli ormai innumerevoli programmi televisivi che parlano di COVID-19, sono stata colpita da alcune affermazioni.

Qualcuno, per esempio, paragonava l’economia di un Paese (l’Italia come qualunque altro) alla circolazione sanguigna in un essere vivente: se non funziona, il corpo non può sopravvivere.
La stessa persona, mi pare, affermava che l’equilibrio economico è soggetto all’effetto domino: se cade la prima tessera, possiamo essere sicuri che pian piano crollerà l’intero sistema, tessera dopo tessera, per quanto lunga possa essere la catena. È solo questione di tempo.
Un’altra persona sosteneva invece che questa situazione potrebbe o dovrebbe forse insegnarci qualcosa, ovvero che a essere importanti per ogni Paese sono la salute e la felicità prima ancora del PIL.

Salute e felicità…

Parliamoci chiaro: sono un’ottimista ma non sono un’illusa.
Viviamo – purtroppo – in quella che è una pandemia e non un incantesimo o un miracolo: l’ho letto da qualche parte e ne sono convinta anch’io.
Non possiamo credere che il mondo ne uscirà miracolosamente trasformato, diventando un luogo perfetto e incantato.
Certo, auspico che questa sia l’occasione per riflettere su tante cose, a livello personale e universale, ma non credo che ne usciremo improvvisamente virtuosi, esattamente come non è successo in seguito a nessuno degli avvenimenti tragici – guerre, carestie, crisi, pandemie, catastrofi – che hanno costellato il percorso dell’umanità. E pertanto non sono così certa che impareremo ad anteporre certi valori al PIL.

Però desidero fare una piccola riflessione proprio su quei due valori che anch’io considero assoluti e prioritari, salute e felicità, aggiungendo, tra l’altro, il terzo valore per me imprescindibile, ovvero la libertà.

Per quanto riguarda la salute, ho già ammesso quanto la sua salvaguardia non sia il mio forte.
Nonostante sia conscia della sua importanza e nonostante sia abbastanza attenta a ciò che faccio in tal senso, la salute non è sempre al centro dei miei pensieri e delle mie preoccupazioni.
Lavoro troppo, mi spendo troppo, riposo troppo poco.
Approfitto, insomma, della mia buona stella e del mio fisico che – finora – si è sempre rivelato forte e resistente.
Qualche anno fa, precisamente nel 2016, avevo ricevuto un piccolo avviso, diciamo un richiamo a correggere almeno un po’ la rotta: sarò sincera come sempre sono e ammetto che, passata la paura, sono più o meno tornata sulla strada di sempre…
Pertanto su questo fronte sento ora di aver ricevuto un ulteriore richiamo anche perché mi rendo conto che, senza salute, vengono minati i presupposti per il secondo valore fondamentale, quello della felicità.

Quando mi chiedono se sono una persona felice, non ho dubbi sulla risposta: sì, lo sono.
Questo non significa che rido, ballo o faccio baldoria ogni singolo giorno della mia vita: per me essere felice non significa questo e vi dico invece qual è la mia definizione.
Essere felice significa che sono soddisfatta delle persone che mi circondano, di ciò che vivo, di ciò che faccio, di ciò che ho costruito, di ciò che mi sono guadagnata.
Essere felice significa che riesco a gioire di ciò che già esiste attorno a me e di ciò che progetto di costruire e realizzare.
Essere felice significa assaporare, sentire, vivere, godere il momento e il presente; significa avere allo stesso tempo una proiezione verso il futuro, con obiettivi piccoli o grandi da raggiungere e da realizzare.

Leggo spesso i pensieri di persone che esprimono la speranza che tutto ciò che stiamo vivendo ci insegni finalmente a dare valore alle piccole cose e ai piccoli momenti.
Nella mia vita ho collezionato così tanti errori, stupidaggini, peccati, follie, abitudini sbagliate, atteggiamenti poco sensati (incluso quello appena confessato verso la tutela della mia salute) da non poter nemmeno tenerne il conto.
È insomma lunga la lista di ciò di cui dovrei pentirmi, ma se c’è una cosa (almeno una!) della quale non devo fare ammenda è proprio il fatto di aver invece sempre attribuito una immensa importanza e un significato forte alle piccole cose: ho costantemente e puntualmente dato valore ai piccoli gesti e piccoli momenti.
Li ho sempre assaporati, respirati, vissuti; mi sono puntualmente soffermata a godermeli con la consapevolezza della loro preziosità.
In questi giorni, nella mia testa, ho milioni di diapositive di istanti speciali vissuti non importa quando o come, a chilometri di distanza o sotto casa, in compagnia di coloro che amo oppure da sola.
E perfino ora, in questo momento così difficile e doloroso, riesco a ritagliare qualche piccolo momento prezioso e qualche piccola gioia.

Ciò che sento mancarmi ora è l’altra componente – secondo me essenziale – della felicità: la proiezione verso il futuro che passa attraverso la libertà, il terzo valore assoluto che – necessariamente – è in questo momento fortemente limitato.

Per carità, sto bene a casa mia, molto bene, semplicemente perché ci sono sempre stata bene.
Eppure stare sempre e solo chiusa in casa è cosa che inizia a mettermi a dura prova.
È inutile fingere che non mi manchino tutte le cose che ho fatto e amato per tutta la vita: sono a mio agio in una vita sfaccettata e ora sento che mi manca qualcosa, che sono orfana di una parte.
Non voglio essere ingrata, ma non mi va neanche di mentire o di nascondermi né voglio sentirmi in colpa per questo sentimento che credo sia estremamente umano e comune a tante persone.
Il futuro non può essere compreso tra le quattro mura di casa.

«Non si può scrivere in mezzo a questo orrore. Ci provo tutti i giorni e non ci riesco, perché per scrivere la vita deve essere intera. Spero che la gente si renda conto che la libertà è parte integrante della salute. Perché un corpo sia sano deve potersi muovere sotto la luce del sole, deve parlare con altri corpi, deve poter baciare e poter dire ‘ti amo’».
Sono le parole che il poeta e narratore Manuel Vilas ha scritto per Vanity Fair.
Sono così belle e perfette per descrivere ciò che provo anch’io che non voglio né posso aggiungere altro.

Anzi, no, scusate, fatemi aggiungere un’ultima cosa.
Il 1° maggio 2013, esattamente sette anni fa, trovavo finalmente il coraggio di pubblicare il primo post in questo spazio.
Parlo di coraggio perché il blog è un progetto che avevo accarezzato molto a lungo e che avevo più volte rimandato, per tanti motivi.
È diventato uno dei miei compagni di viaggio più fedeli, un progetto longevo e mai interrotto, uno specchio della realtà che vivo.

Sette anni fa, non avrei potuto immaginare come avrei trascorso questo anniversario.
Non avrei potuto immaginarlo io né avrebbe potuto immaginarlo nessuno.
E invece eccomi qui a festeggiare un anniversario in quarantena così come molte altre persone hanno dovuto festeggiare compleanni e anniversari in isolamento.
In questi anni ho scritto tantissimo, ho scritto di persone che stimo, di progetti in cui credo, di cose che amo o che mi fanno indignare: in questo spazio web ci sono a oggi 769 pezzi di me, 769 tessere di un puzzle che raffigura il mondo in cui credo e in cui voglio fortemente continuare a credere.

Perché non so cosa accadrà anche solo domani, ma so che continuerò a combattere per la salute, per la libertà e per la felicità. Fino all’ultimo respiro.

Tanti auguri a glittering woman, tanti auguri a noi due e grazie – come sempre – a chi è con noi.

Manu

L’immagine è una mia elaborazione via PhotoFunia

Stato di salute e futuro della moda in tempi di coronavirus

Da tempo, ormai, si parla di quanto sia necessario rivedere il sistema attraverso il quale la moda viene presentata, prodotta, distribuita.

Per quanto riguarda la presentazione e soprattutto le sfilate, si discute animatamente soprattutto circa tempistiche e modalità.
Continuare a sfilare mesi prima come accade ora oppure adottare la modalità cosiddetta ‘see now, buy now’ con la vendita immediata di ciò che sfila? Far sfilare le collezioni moda e uomo separatamente oppure adottare la modalità co-ed, ovvero congiunta?
E poi… quanto servono le sfilate-spettacolo? Si punta troppo sul clamore a discapito dei capi?
E ancora: chi è seduto in prima fila (e sono sempre più influencer e nuove celebrità) distoglie l’attenzione facendo parlare – anche in questo caso – di chi è ospite più di quanto si parli della collezione?

Per quanto riguarda la produzione, si discute invece di delocalizzazione a discapito di produzioni specializzate, di produzione in Paesi dove non vengono rispettati i diritti umani, di filiere fuori controllo e non più sostenibili per il nostro pianeta.

Per quanto infine riguarda la distribuzione, si discute della crisi profonda dei negozi fisici, della crisi delle grandi catene storiche, dell’esasperazione che vuole che merce nuova sia messa in vendita a ciclo continuo senza durare nemmeno una stagione secondo il modello fast fashion che, ormai, influenza fortemente tutto il sistema e tutte le fasce della moda, indistintamente.
Senza parlare poi del discorso delle rimanenze di stagione, problema oneroso non solo economicamente ma anche dal punto di vista ambientale (leggere stock distrutti o meglio bruciati e anche in questo caso da tutti, brand del lusso inclusi).

Insomma, riassumendo: il sistema moda era in crisi da tempo. Tutto il sistema.
Stilisti costretti a sfornare una nuova collezione dietro l’altra (per soddisfare la smania di soldi delle holding finanziarie dalle quali sempre più spesso vengono inglobati) mentre modelle, giornalisti, compratori, fotografi girano il mondo senza sosta, vanificando gli appelli a una moda ecosostenibile; merce che approda nei negozi a ciclo continuo, tra sovrapproduzione di capi e mancato allineamento tra stagione commerciale e stagione climatica, con il risultato di restare spesso invenduta e generare pericolosi scarti da gestire.

Non è un mistero come molti (Giorgio Armani in testa) condannino da tempo tutto ciò, un sistema che fagocita ogni cosa, con ritmi sempre più serrati e insostenibili e nuova merce da dare in pasto a un mercato sempre più saturo.
Perfino lusso, alto di gamma e alta moda hanno spesso dimenticato i propri valori (qualità, durabilità, esclusività) per avvicinarsi – come ho detto – a un modello fast fashion nella speranza (o meglio nell’illusione) di vendere di più.

Io stessa, naturalmente nel mio piccolo, ho parlato varie volte di dette questioni, dalla delocalizzazione (qui) alla crisi di catene e negozi storici (qui) passando per l’illusione che alto di gamma sia sempre meglio di fast fashion (qui), dalle condizioni socialmente e ambientalmente insostenibili (qui) al gender gap (qui) passando per le sfilate-clamore che vanno oltre ogni limite di decenza (qui), giusto per citare alcuni argomenti dei quali ho provato a parlare negli anni.

Il problema, dunque, esisteva: il coronavirus ha spinto sull’acceleratore, facendo definitivamente esplodere le varie questioni in tutta la loro evidenza e gravità.

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Luis Sepúlveda e quelle lezioni (oggi ripetizioni…) di volo

«Mi trovo oggi a scrivere un omaggio per un uomo che non era un amico che frequentavo, eppure che tanto peso ha avuto per me, perché siamo fatti di concreto e di sogno, di frequentazioni reali e di affinità mai vissute nel quotidiano eppure ugualmente forti, di necessario e di voluttuario, di tangibile e di spirituale.»

Sono le parole che, tre anni fa, ho dedicato a George Michael: quando il 25 dicembre 2016 ha lasciato questo mondo, George ha portato con sé l’ultimo pezzo della mia adolescenza e in un post pubblicato qui nel blog avevo provato a spiegare perché si possa piangere e provare un dolore pungente per la scomparsa di una persona che non era un parente o un amico e che, eppure, aveva un ruolo preciso nella nostra vita.

Ieri, purtroppo, ho provato la stessa sensazione quando ho saputo che è scomparso lo scrittore Luis Sepúlveda, ucciso anche lui come troppe persone dal COVID-19.

E, ancora una volta, ho provato quella sensazione, la sensazione che una parte della mia vita stesse scomparendo insieme a lui.

Il suo romanzo ‘Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare’ uscì nel 1996, quando io una giovanissima donna.
Lo lessi quindi non come una favola per bambini, ma come una lezione magica e potente per adulti.
Ero in un momento particolare della mia vita e il libro e le sue parole mi attraversarono e mi trafissero, regalando anche a me il coraggio di volare.

Non ho mai dimenticato quella lettura e non ho mai dimenticato quale significato abbia avuto per me.
Conservo il libro gelosamente, mi è sempre rimasto caro ed è questo il motivo per cui oggi sento di aver perso una parte di me e della mia vita.

Ho pianto spesso nell’ultimo mese, ho pianto davanti alla televisione e leggendo i giornali, davanti a storie di persone mai conosciute, davanti a lutti che ho sentito come miei.
Sto male da un intero giorno eppure non sono riuscita a versare una sola lacrima per Luis Sepúlveda e la cosa peggiore è che sento il dolore in mezzo al petto e non riesco a farlo sciogliere, non riesco a tirare fuori il groppo che mi serra la gola.

Non riesco a scrivere altro, ma voglio condividere un pezzo della conclusione della Gabbianella e il Gatto.

«(…) “Bene, gatto. Ci siamo riusciti” disse sospirando.
“Sì, sull’orlo del baratro ha capito la cosa più importante” miagolò Zorba.
“Ah sì? E cosa ha capito?” chiese l’umano.
“Che vola solo chi osa farlo” miagolò Zorba.
“Immagino che adesso tu preferisca rimanere solo. Ti aspetto giù” lo salutò l’umano.
Zorba rimase a contemplarla finché non seppe se erano gocce di pioggia o lacrime ad annebbiare i suoi occhi di gatto nero grande e grosso, di gatto buono, di gatto nobile, di gatto del porto.»

Zorba il Gatto si riferisce a Fortunata, la Gabbianella alla quale insegna a volare in un romanzo che è una favola per i bambini e una lezione di vita per gli adulti.
Ed è lei, Fortunata, che lui resta a guardare fino a confondere pioggia e lacrime.

Ho deciso che in questo week-end rileggerò il romanzo sperando – in questo momento così complesso – di tornare a prendere qualche utile ripetizione di volo. Le sfide da affrontare oggi sono sicuramente diverse dalle difficoltà in cui mi agitavo quando lo lessi la prima volta e c’è bisogno di incoraggiamento, di tornare a ricordare che vola solo chi osa farlo.

Chissà, forse anche questo dolore che sento in mezzo al petto mi darà tregua. Forse.

Grazie e buon volo, Mr. Sepúlveda.

Manu

In tempi di COVID-19, scagli la prima pietra chi è senza peccato

Negli ultimi tempi mi sono sentita… disorientata.
Ho pensato a lungo a quale aggettivo usare per definire il mio stato animo e volete sapere una cosa? In realtà non ne esiste uno che mi soddisfi e che mi rappresenti al 100%.
Ciò che provo è molto complesso e anche un po’ aggrovigliato e credo sia uno stato comune a moltissimi di noi.
A ogni modo, penso che ‘disorientata’ – aggettivo che dipinge chi è smarrito, spaesato, interdetto, spiazzato – sia la definizione più vicina e calzante.

Dunque sì, ecco, mi sento disorientata, su molte cose e da molte cose, e tengo a precisare che il disorientamento non riguarda cosa devo e dobbiamo fare, quali comportamenti tenere.
Su quel fronte è tutto chiaro e il disorientamento è nei sentimenti e nei pensieri.
Il disorientamento è quello di cuore, anima e testa sballottati in una continua alternanza di contrasti, di alti e bassi, come se mi trovassi su una giostra impazzita e fuori controllo…

Quando ci si sente così, è preferibile tacere anche per non coinvolgere gli altri nel proprio stato d’animo, quindi ho scelto volontariamente e consciamente di non pronunciarmi più e in alcun modo riguardo gli sviluppi del COVID-19, privilegiando esclusivamente l’ascolto.

Non mi era mai successo nulla di simile, non mi ero mai sentita così fortemente e completamente spaesata, spiazzata, smarrita nemmeno in altri momenti molto duri, miei personali o comuni a tutta la nostra società e diciamo che ne abbiamo passati diversi.
Io ricordo personalmente (e non per averlo letto nei libri di storia), da piccolissima in poi, il disastro di Chernobyl, la guerra del Golfo, l’11 settembre, gli attentati terroristici in tutta Europa, la guerra in Siria, la SARS, l’encefalopatia spongiforme bovina diventata tristemente nota come morbo della mucca pazza, così, giusto per citarne alcuni.
Forse, però, questo è davvero un momento diverso rispetto a tutto ciò che abbiamo vissuto finora… forse presenta davvero un lato inedito in quanto nessuno di noi (se non i più anziani) aveva mai sperimentato personalmente una pandemia che implica una rigorosa quanto necessaria limitazioni delle nostre libertà individuali e personali.

Tuttavia ora, dopo il lungo silenzio, desidero esprimere alcuni pensieri. Leggi tutto

La moda che NON mi piace: a proposito di Philipp Plein e di limiti (valicati)

La sera di giovedì 20 febbraio, nel pieno della Milano Fashion Week, terminate le lezioni con i miei studenti, mi trovavo a camminare lungo via Palestro per raggiungere la location di una presentazione.
All’altezza della Galleria d’Arte Moderna, ho notato un gruppetto di fuoristrada estremamente vistosi: li ho notati perché il contrasto tra le vetture chiassosamente dorate e la bellissima Villa Reale, capolavoro del Neoclassicismo milanese che ospita la GAM, risultava particolarmente… stridente, diciamo così.
Nella mia testa si è fatto immediatamente strada un nome: «è lo stile Philipp Plein», ho pensato.
Non mi sbagliavo: quando ho superato i fuoristrada, ho visto proprio il nome dello stilista tedesco tratteggiato a lettere cubitali sugli sportelli. Ho scosso la testa, ho sorriso e sono passata oltre, dimenticando ben presto l’episodio.

Mi è tornato in mente solo alla fine di Milano Moda Donna, quando ho letto un articolo di Fashion Network: ‘Philipp Plein suscita indignazione per il raffazzonato omaggio a Kobe Bryant’, titolava la testata online, l’unica (che a me risulti) in ambito moda ad aver fatto un dettagliato reportage critiche incluse dello show svoltosi a Milano il 22 febbraio.
Perché quel titolo?
Perché, per presentare la sua collezione autunno-inverno 2020/21, lo stilista ha organizzato uno show fastosissimo e dorato (ecco spiegati i fuoristrada visti quel giorno), rendendo omaggio (almeno nel suo intento) alla leggenda del basket Kobe Bryant, recentemente scomparso insieme alla figlia primogenita Gianna e ad altre sette persone a causa di un tragico incidente d’elicottero: è stato invece ampiamente criticato attraverso i social media per almeno due motivi.
Il primo: l’accusa di voler sfruttare l’immagine di Bryant a nemmeno un mese dalla scomparsa avvenuta il 26 gennaio.
Il secondo: l’inclusione nel set dello show (nel suo caso il termine è molto più adatto rispetto a sfilata) di elicotteri dorati oltre a varie supercar, motoscafi e aerei altrettanto lucenti.
Elicotteri, sì, avete letto bene, come quelli del mortale incidente.

Classe 1978, re dello stile opulento e volutamente eccessivo, il designer ha spiegato che tale ‘arredo’ era stato ideato e progettato a novembre 2019 (prima, dunque, della tragica morte di Bryant) e che era troppo tardi per sostituire gli elicotteri.
Davvero, Mr. Plein? Leggi tutto

Se Instagram nasconde i like… è un’opportunità o una penalizzazione?

È stato un argomento che ha creato non poco scompiglio quest’anno nel web: dopo una fase sperimentale, Instagram ha deciso di nascondere definitivamente (?) il numero dei like.

Se metto il punto interrogativo è perché con Mark Zuckerberg, fondatore e proprietario di Facebook nonché proprietario di Instagram dal 2012, non si può mai sapere se e quanto una decisione sia definitiva.
A ogni modo: il test, iniziato il 17 luglio, aveva inaugurato una fase di prova allo scopo di sondare il parere degli utenti.
«Vogliamo aiutare le persone a porre l’attenzione su foto e video condivisi e non su quanti like ricevono. Stiamo avviando diversi test in più Paesi per apprendere dalla nostra comunità globale come questa iniziativa possa migliorare l’esperienza su Instagram.»
Così aveva dichiarato Tara Hopkins, Head of Public Policy EMEA di Instagram.

Attorno a fine settembre, la prova è diventata appunto ‘definitiva’ ed estesa a tutti gli utenti.
Il tasto like non è stato rimosso, tuttavia non è più visibile il numero dei ‘mi piace’; solo l’utente che ha condiviso il post su Instagram può avere accesso a tale informazione.
L’informazione è in realtà ancora visibile se, al posto di usare la app via smartphone, apriamo Instagram via pc – stranezze non facilmente comprensibili…

A ogni modo: prima in luglio e poi in settembre, ho letto molti post preoccupati e ho notato parecchia agitazione circa questa faccenda dei like.
Io, invece, non sono stata mai minimamente preoccupata, sebbene con i social ci lavori (anche).
Non ho finora scritto nulla riguardo questo cambiamento, credo forse di aver twittato condividendo il link di qualche articolo da una delle tante riviste che leggo: ho preferito aspettare e pormi in ascolto con tutti i sensi allertati, lasciando passare qualche mese allo scopo di poter osservare sviluppi e risultati e potermi fare un’opinione più chiara e, spero, fondata su basi più solide.
Adesso l’anno sta per chiudersi e, come sempre avviene in simili frangenti, è giunto il momento di un piccolo e personale bilancio: inizio allora dicendo perché non mi sono mai agitata.

Il primo motivo per il quale non mi agito è perché sono fermamente convinta del fatto che le evoluzioni siano del tutto naturali, in ogni ambito. E quindi è naturale che anche i social si evolvano.
Il secondo motivo è perché so bene che i social – quelli attuali – esistono da nemmeno 20 anni: parlando di alcuni tra i più celebri e diffusi, Facebook è nato nel 2004, Twitter nel 2006, Instagram nel 2010, Snapchat nel 2011, TikTok nel 2016.
Vivevamo (bene) prima di loro, continueremo a vivere (bene) anche se cambiano e si evolvono, detto da una che – ripeto – con i social ci lavora.
Il terzo motivo per cui non mi sono preoccupata (e non mi preoccupo) è che non ho mai puntato alla quantità anche perché, causa algoritmi (in parole molto spicce, le formule con le quali vengono determinati i criteri con i quali viene deciso quali contenuti mostrarci), è ormai quasi impossibile (ho scritto quasi) crescere organicamente e naturalmente e la quantità sui social si ottiene quasi esclusivamente in tre modi: se si è una vera celebrità, nel bene o nel male; se si investe in pubblicità; se si è disposti a usare sistemi che non sempre sono ‘naturali’ (diciamo così per restare soft).
Non rientro in nessuno dei tre casi e dunque ho semplicemente puntato a qualità e autenticità dei contenuti che produco.

E, per inciso, a me sembra (uno) che parlare a diverse migliaia di persone (numero che cresce se metto insieme tutti i miei canali social) sia cosa tutt’altro che trascurabile e (due) che sia importante, sempre nell’ottica della qualità, ciò che comunichiamo e condividiamo, sia che si parli a dieci persone sia che si parli a circa 5000.
Così, almeno, suggeriva il buonsenso prima che tante persone perdessero il senso della misura… Leggi tutto

Tanti auguri, Manu… ovvero tanti auguri (con riflessione) a me!

Ve lo confesso subito: in realtà, questo post non avrebbe dovuto vedere la luce.
Mi riferisco al post con il quale, una sola volta all’anno, ‘celebro’ me stessa anziché celebrare gli altri e il loro talento, il post che mi concedo in occasione del mio compleanno fin dal 2013, ovvero da quando esiste questo spazio web.
Cosa è successo per farmi affermare ciò?
È successo che, circa dieci giorni fa, ho realizzato di dover fare una rinuncia per me pesante, ovvero un viaggio tanto ambito che mi avrebbe riportato in una città che amo molto e dalla quale manco da troppi anni (circa 17…); tale rinuncia è causata dalla situazione sempre incerta del mio lavoro da libera professionista.
E così ho detto a mio marito Enrico che ero immensamente amareggiata, delusa e arrabbiata con me stessa (l’ho ben specificato) e che pertanto, quest’anno, non avrei nemmeno pubblicato il solito post del compleanno; ho inoltre aggiunto di non aver voglia di festeggiare proprio in nessun modo in quanto sentivo di non avere nulla da festeggiare – e questa ultima parte non l’ho detta a voce alta, ma fra me e me.
Per fortuna, oltre a specificare che la delusione non era imputabile a terzi (incluso lui) e oltre a tacere circa il ‘nulla da festeggiare’ (sebbene lo stia confessando ora…), è bastato che passasse un solo giorno per rendermi conto di quanto ingiusta e ingrata fossi stata in quel frangente, non tanto verso Enrico o verso terzi, appunto, ma quanto verso me stessa e più ancora verso la vita e verso ciò che la vita mi ha sempre riservato.

A cosa mi riferisco?
Mi riferisco al fatto di avere un cervello funzionante (quasi sempre, almeno…) e di avere un corpo e una salute che sempre mi hanno permesso di essere libera e di fare tutto ciò che testa e cuore hanno dettato e voluto; al fatto di avere dei genitori e una sorella che mi hanno sempre amata, rispettata e accompagnata in ogni singola decisione che ho preso nella mia vita; al fatto di avere un marito, Enrico, che non solo è il mio grande amore, ma che MAI mi ha fatto mancare il suo sostegno e il suo appoggio incondizionati, rivelandosi il compagno di vita che io stessa non avrei saputo immaginare migliore; al fatto di aver potuto contare non solo sulla famiglia, ma anche su amici che mi hanno affiancata e hanno reso più bello il mio percorso.
Mi riferisco al fatto di aver sempre avuto un tetto sulla testa e la pancia piena e al fatto di avere avuto l’opportunità di studiare; al fatto di aver potuto viaggiare e permettermi non solo il necessario ma anche il superfluo, per quanto quel tipo di ‘superfluo’ che non reputo essere superficiale bensì il sale della vita.
Mi riferisco al fatto di aver sempre avuto un lavoro, da quando avevo 18 anni, e di poter dire orgogliosamente di aver da allora sempre provveduto a me stessa, scegliendo anno dopo anno il lavoro da fare e non subendolo, e al fatto – collegato – di aver deciso nel 2012 di diventare una lavoratrice autonoma, con coraggio ma anche forte di tutta l’esperienza professionale fino a quel momento maturata.
Dunque, nonostante io abbia SEMPRE pagato in prima persona le conseguenze di tutte le mie scelte nonché tutto ciò che ho avuto guadagnandomi ogni singola cosa (e di questa sono molto orgogliosa) e nonostante le difficoltà reali e oggettive che la scelta di diventare libera professionista hanno comportato, io resto sempre una persona che DEVE comunque ammettere di trovarsi nella parte PRIVILEGIATA dell’umanità, ovvero quella che ha opportunità, possibilità, libertà, scelta; e lo sono anche se a volte ‘mi tocca’ rinunciare a un viaggio oppure a un oggetto (l’ennesimo, in fondo…).
E tutto ciò… io ho osato definirlo ‘nulla da festeggiare’?! Povera sciocca Manu! Leggi tutto

Io penso positivo: da Peter Lindbergh a Meghan Markle passando per Vogue

Il lancio della cover e del numero di settembre di British Vogue con gli scatti di Peter Lindbergh attraverso l’account Instagram del magazine

Il primo pensiero che ha attraversato la mia testa quando ho appreso della scomparsa di Peter Lindbergh è stato «non posso crederci».

Non me l’aspettavo (non vi era alcuna voce che potesse far temere per la sua vita) e non posso credere che lui non ci sia più perché, come ha ben scritto il mio amatissimo amico e maestro Stefano Guerrini in un suo post, «Mr. Lindbergh ci ha lasciato e di nuovo, dopo Franca, Anna, Isabella, Karl, sento che il mondo dal quale sono stato attratto e che mi ha fatto sognare è finito».

Franca, Anna, Isabella, Karl sono Franca Sozzani, Anna Piaggi, Isabella Blow, Karl Lagerfeld, ovvero alcune delle sue (e delle mie) icone in un mondo – quello della moda – sempre più orfano di personalità magari un po’ ingombranti ma indubbiamente straordinarie e sempre più pieno, invece, di personaggi vacui che fondano la loro celebrità su un’apparenza priva di qualsiasi spessore.

Alla luce di tutto ciò, capisco che una domanda potrebbe attraversare i pensieri di chi sta leggendo queste parole: «perché stai allora intitolando questo post ‘Io penso positivo’? Come si sposano la positività e la scomparsa di un grande fotografo?».

Avete tutte le ragioni per farvi (e farmi) questa domanda e io desidero rispondervi: non voglio che la tristezza vinca, non voglio salutare Peter Lindbergh tra le lacrime, non voglio che il legittimo cordoglio prevalga sullo straordinario lascito e sulla preziosa lezione che ci ha regalato attraverso il lavoro e il pensiero di tutta una vita.

E non voglio in fondo pensare che quel certo mondo tanto amato da Stefano e da me sia davvero finito.

Desidero invece rendergli omaggio con un post che, in realtà, era in programma già prima delle vacanze estive per raccontare quello che ora è diventato uno degli ultimi lavori di Peter Lindbergh, ovvero la copertina del numero di settembre di British Vogue intitolato ‘Forces for Changes’ e che vede come guest editor Meghan Markle, Sua Altezza Reale la Duchessa di Sussex.

Il post era già in programma, ebbene sì, e infatti, dopo l’incredulità, il secondo pensiero che mi ha attraversato la testa è stato «la vita sa essere davvero beffarda, strana, ironica». Leggi tutto

Chiuso per ferie 2019, AGW ospita Gloria Vian e il suo «Esserci o esistere»

Tra le diverse attività che compongono il mio panorama professionale figura l’insegnamento.
È l’attività che richiede maggior impegno, energia e passione, perché insegnare è una gioia nonché una grande responsabilità.
Mi regala molte soddisfazioni ma anche qualche sconfitta: è una sfida continua ed è una sfida che non intendo abbandonare in quanto ci tengo (e ci credo) moltissimo.
E così, attraverso Accademia del Lusso che continua a credere in me (grazie ), tengo dei corsi di editoria e comunicazione della moda con focus specifico sulla loro evoluzione via web: si è da poco concluso l’anno accademico 2018-19 e io sto già pensando ad aggiornare i materiali per il nuovo anno che inizierà tra settembre e ottobre.

Tra le regole imprescindibili che mi do in qualità di docente, includo la necessità di essere imparziale, dando le stesse possibilità a tutti gli studenti e non assecondando in alcun modo simpatie (o antipatie) personali.
Ma ora che l’anno accademico è finito, ho deciso che, per una volta, posso concedermi uno strappo alla regola, anche perché la studentessa alla quale darò voce oggi, Gloria Vian, si è laureata lo scorso 1° luglio, concludendo tra l’altro il suo percorso con il massimo dei voti.

La tesi di laurea di Gloria ruota attorno a un argomento attuale e interessante: si intitola «Esserci o esistere» e si pone l’obiettivo di analizzare il rapporto tra mondo reale e mondo virtuale.
L’argomento è decisamente complesso e sfaccettato: ho molto apprezzato la serietà, l’impegno e la profondità con cui Gloria ha affrontato il tutto, ho molto apprezzato le ricerche che ha condotto anche attraverso interviste a vari professionisti ed esperti e, infine, ho molto apprezzato l’installazione che ha dato corpo alla sua tesi.

Alla luce di tutto ciò, quest’anno ho deciso di lasciare a Gloria Vian una responsabilità, ovvero quella di essere il post che ogni estate ‘chiude per ferie’ il blog: lo faccio per due motivi.

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Notte prima degli esami, il mio personale ricordo dell’esame di maturità

Foto di Michal Jarmoluk da Pixabay

Ieri sera ho rivisto – per l’ennesima volta – il film Notte prima degli esami.

Esistono cose che diventano certezze, a volte piacevoli e a volte meno: tra le prime (quelle piacevoli), figura la programmazione televisiva estiva quando ci propina film ripetuti, è vero, ma che ci fanno sorridere e che, in fondo, scandiscono il trascorrere delle stagioni.

Ed è una certezza che ogni anno, in giugno, arrivi Notte prima degli esami, film commedia di Fausto Brizzi, anno 2006, interpretato tra gli altri da Nicolas Vaporidis, Cristiana Capotondi e Sarah Maestri (nei panni di un gruppo di studenti alle prese con l’esame di maturità) e da Giorgio Faletti (nei panni di un severo professore) con le canzoni del grande Antonello Venditti, compresa quella che si chiama proprio come il film.

È una certezza, sì, esattamente come il fatto che, tra poco, arriverà Sapore di mare e poi Lo squalo con tutti i suoi vari seguiti.
Ecco, in questo ultimo caso siamo tra le certezze che probabilmente eviteremmo anche volentieri di avere, salvo poi risentire riecheggiare nella testa la musichetta del film ogni volta che facciamo il bagno al largo…

A ogni modo, dicevo: ho rivisto Notte prima degli esami per l’ennesima volta – e ho perso il conto di quante siano – e l’ho fatto molto volentieri.

Il film è ambientato nel 1989, lo stesso periodo in cui io sostenni l’esame di maturità (ovvero 1991, diciott’anni appena compiuti): devo dire che rievoca alla perfezione l’atmosfera, l’ambiente, i modi e i ritmi di quegli anni, riuscendo a riempirmi di ricordi e strappandomi il sorriso perché sì, a distanza di quasi 30 anni, ci penso ancora e, soprattutto, rammento volentieri il mio esame annoverandolo nella sezione ricordi belli.

State leggendo e state sostenendo la maturità in questi giorni?
Siete la mamma o il papà di uno studente impegnato in tale esame?
State pertanto pensando «bella forza, tu hai preso circa 30 anni di distanza»?

Se state pensando tutto ciò avete ragione, per carità, però datemi una chance, vi prego.
Non voglio fare né retorica né morale né ramanzine né predicozzi, non voglio drammatizzare o demonizzare né al contrario sottovalutare, anche perché anch’io, all’epoca, feci gli stessi pensieri che il personaggio della Capotondi affida al suo diario in una scena di Notte prima degli esami, ovvero mi chiesi chi mai avesse inventato quel maledetto esame di maturità.
Desidero solo ricordare tre episodi che, ancora oggi, mi fanno pensare che quello fu uno dei momenti più intensi e decisivi della mia vita, una sorta di rito di passaggio tra adolescenza ed età adulta.

E se lo faccio – senza nostalgia né rimpianti né rimorsi ma con grande tenerezza – è per formulare un augurio con tutto il cuore.
Auguro a tutti i ragazzi che stanno sostenendo la maturità ora che possa avvenire la stessa cosa per loro e che un giorno, a distanza di qualche decennio, possano ricordare con altrettanta tenerezza questa esperienza come oggi avviene a me che, tra l’altro, sono un po’ passata dall’altra parte della barricata visto il mio ruolo di docente in Accademia del Lusso, un po’ come accade a un altro personaggio di Notte prima degli esami, quello di Vaporidis (che diventa professore di lettere). Leggi tutto

Pensiero sul colore giallo e sul brutto vizio di dire «fa schifo»…

Foto di Gino Crescoli da Pixabay

«Questo giallo che va di moda fa proprio schifo e poi a me delle mode non frega niente.»
Sono le parole che ho sentito pronunciare giorni fa a una persona nello spogliatoio della mia palestra. Quasi con orgoglio, tra l’altro.
Mi hanno fatto sorridere (amaramente), scuotere la testa e mi sono tornate in mente quando qualche mattina fa ho indossato questo maglione.
«Non mi piace», «non lo apprezzo», «non è di mio gradimento», «non incontra il mio gusto», «non mi rappresenta», «non lo indosserei»: sono tutte opinioni e, in quanto tali, sono più che legittime.
«Fa schifo»: è un giudizio e per giunta espresso in maniera brusca e poco rispettosa. Altro che esserne orgogliosi…
Anche perché le opinioni creano confronto, mentre i giudizi bruschi sono invece sterili. E creano distanza.
Le parole hanno un peso o almeno lo hanno per me e ce ne sono alcune che sono solo gratuite, definiamole così, e io non le userei mai per definire qualcuno, i suoi gusti, le sue scelte o il suo lavoro: schifo è una di queste, come avevo già raccontato qui.
E, sempre come ho detto tante altre volte, credo nella comunicazione assertiva e nella capacità di sottolineare la positività, cosa che non vuol affatto dire snaturarsi o mentire.
Pensate che sono perfino d’accordo con la seconda parte del discorso di quella persona: ha perfettamente ragione nel fregarsene di mode e tendenze dando retta solo alla sua testa.
Ciò in cui il suo ragionamento fa acqua, a mio avviso, è il fatto che dicendo «fa schifo» non abbia rispettato sentimenti e opinioni altrui: il giallo non fa schifo, è un colore pieno di energia che può essere o apparire esagerato e che, sicuramente, molti non indosserebbero o non indosseranno; può piacere o non piacere, ma non fa schifo.
Non per nulla è il colore di tante cose belle e buone: del sole, delle margherite, del girasole, di alcune varietà di rose, tulipani e gerbere, delle api, del miele, dei campi di grano maturo e delle foglie in autunno, di tanti frutti, dal limone alla mela passando per la pesca e la banana, di verdure come la zucca e i peperoni, della pasta.
Mi hanno spiegato che il giallo è il simbolo della saggezza nel Buddhismo.
E poi, se vogliamo, è il colore delle emoticon, le faccine che riproducono le principali espressioni facciali umane e che, ormai, fanno parte del nostro modo di esprimerci.
Volete sapere una cosa? Neanche a me importa delle tendenze: pur occupandomi di moda, preferisco che le persone seguano le proprie opinioni, che abbiano il proprio stile.
L’unica cosa che apprezzo delle tendenze è il fatto che, quando vanno di moda colori non facili come il viola o il giallo (e che io amo indipendentemente, che indosso regolarmente e che, guarda caso, sono complementari l’uno dell’altro), quando vanno di moda, dicevo, posso fare incetta di capi in quei colori e che di solito trovo a fatica.
Dunque non ho comprato quel maglione di cui parlavo in principio perché il giallo è di moda; l’ho comprato perché quando ho visto questo capo color del sole e che è caldo e morbido proprio come il sole… me ne sono innamorata all’istante. E quando lo indosso mi sento baciata, coccolata e riscaldata.
Altro che schifo, mia cara signora.

Manu 🙂

La scomparsa del grande Niki Lauda e le mie personali cicatrici…

Photo by Dawid Zawiła on Unsplash

Subire un’ustione grave equivale a vivere un trauma che dura tutta la vita.
Non si guarisce mai del tutto, non passa mai del tutto, non se ne esce mai del tutto.
Si resta, per tutta la vita, dei sopravvissuti, feriti e segnati – irrimediabilmente – nel corpo e nella mente.

Sono stata vittima di un incidente gravissimo e che ha messo a serio rischio la mia vita: ero molto piccola all’epoca, eppure ho precisi ricordi nella mia mente, ricordi che mi piacerebbe non avere perché vedo una me in versione mini in un momento di quasi inenarrabile sofferenza…
Come quando mi tolsero il dolcevita di lana che indossavo: era inverno, purtroppo, e a me sembrò di andarmene via insieme alla lana intrisa di caffè bollente…
Come quando stavo in piedi nella vasca da bagno, impietrita dallo choc, mentre tentavano di darmi sollievo…
Come quando una notte ardevo di sete nella camera asettica dell’ospedale: nonostante l’estrema umanità del personale medico e infermieristico, nonostante l’immenso e disperato amore dei miei genitori, nonostante sforzi e tentativi… la mia gola bruciava, disidratata…
Non vado oltre e perdonatemi se ho condiviso dettagli tanto dolorosi.

Oggi, oltre ai ricordi, porto i segni permanenti, evidenti e indelebili delle ustioni di terzo grado, segni che – da adulta e dopo molte lotte interiori – non ho infine voluto cancellare: ho sempre pensato che, pur avendoli talvolta detestati profondamente, fanno parte di me e hanno contribuito a rendermi chi sono oggi.
Ho già scritto di tutto ciò in un’altra occasione (qui) e credevo di aver così detto quanto avessi da dire: in realtà, la vita ci sorprende sempre e, a volte, ci fa capire che cose che pensavamo di aver superato in realtà non lo sono – e forse non lo saranno mai del tutto.
La vita ci ricorda, insomma, ciò che ho affermato in principio: rimaniamo dei sopravvissuti rispetto ad alcuni eventi traumatici delle nostre vite.

Nel post che ho appena citato, ho scritto una frase che, a rileggerla oggi, mi colpisce profondamente, una frase riferita a mia mamma: «ha curato le cicatrici del mio corpo e ha impedito che si formassero sulla mia anima».
Mi riconosco profondamente in tali parole, le penso davvero ed è proprio così: intendevo dire che – grazie a mia mamma e a mio papà e a come mi hanno educata e cresciuta – non mi sono mai vergognata delle cicatrici, non sono diventate né un complesso né uno scoglio. A volte sono perfino riuscita a dimenticarle.
Ammetto però anche che il trauma, il dolore, la paura… beh, sono un’altra cosa. Sono tutta un’altra partita.

E ammetto che, in varie occasioni, ho appunto capito di avere conti in sospeso con le mie cicatrici esterne e con le paure.
Come quella volta in cui, guardando in tv un programma che ricostruiva un incidente simile al mio, sobbalzai indietreggiando e rannicchiandomi sulla sedia, con le ginocchia al petto, chiudendomi, lo stesso gesto istintivo fatto proprio quel giorno lontanissimo.
Come ogni volta in cui vedere un bambino vicino a un fornello e a una caffettiera (i colpevoli del mio incidente) mi provoca una sofferenza che posso definire fisica, a me che ho una soglia altissima di sopportazione del dolore…
E poi… c’è qualcosa che credo di aver confessato a pochissime persone: quando ero bambina, avevo il terrore di morire in un incendio, di notte. Non un terremoto o un incidente o un altro cataclisma: avevo paura di morire bruciata, il dolore più grande che avessi assaggiato su me stessa…

E ora, negli ultimi giorni, a riaprire le ferite è stata la scomparsa di Niki Lauda.

Com’è noto, Niki Lauda ha incarnato il ruolo di autentica leggenda della Formula 1 ed è stato tre volte campione del mondo.
Il 1° agosto 1976, al Gran Premio di Germania, sul pericoloso circuito del Nürburgring, ebbe il più grave incidente della sua carriera, incidente che gli ha lasciato gravi danni fisici e il volto sfigurato a vita.
Mostrando immenso coraggio, Lauda decise di tornare al volante dopo solo 42 giorni dall’incidente, al Gran Premio d’Italia: le sue condizioni erano ancora precarie e fu necessario modificargli il casco per cercare di limitare lo sfregamento sulle lesioni non ancora cicatrizzate.
Seppur martoriato da tali ferite e nonostante le palpebre danneggiate non gli offrissero una visione totalmente corretta, si classificò quarto dimostrando di che pasta fosse fatto – quella appunto di un immenso campione.

Non oso paragonare nemmeno lontanamente le mie sofferenze a quelle di Niki Lauda, non oso nemmeno immaginare il dolore di bruciare imprigionato in un’auto.
So però che per lui ho sempre provato una stima e un’ammirazione sconfinate e una vicinanza e un’affinità per esperienze non paragonabili, lo ribadisco, ma che in qualche modo purtroppo mi appartengono.
E so che lui era anche le sue cicatrici e le sue sofferenze, come me. Molto più di me.
Si dice che fosse poco emotivo e fortemente determinato: agli occhi di chi lo conosceva appariva quasi come un computer, un nomignolo che si è portato dietro per tutta la vita proprio per la freddezza in pista e per la rara capacità di individuare in pochi istanti e con assoluta precisione i difetti di una macchina.

Sapere che non c’è più, che è scomparso a 70 anni dopo aver tanto lottato e dopo aver subito negli anni due trapianti di rene e uno di polmone, che è scomparso dopo aver continuato a inanellare successi e realizzazioni (ma comunque sempre troppo presto, 70 anni oggi non sono sinonimo di vecchiaia), è un fatto che mi rende molto triste.

Grazie per il tuo coraggio e per la tua tenacia, caro Niki Lauda, grazie per aver vissuto la vita al massimo, senza farti fermare né dai danni fisici né dalla paura.
Grazie per aver però saputo ascoltare la paura quando era sensato e intelligente farlo, come nell’ottobre del 1976 in Giappone, sul circuito del Fuji, quando ti ritirasti sotto un autentico diluvio e perdesti il mondiale. Grazie perché, quella volta, avesti il coraggio di avere paura, tu che eri sopravvissuto all’orribile rogo di pochi mesi prima.
Grazie per essere stato per me un esempio di resistenza, resilienza e coraggio – ripeto questo termine – e per avermi dato l’opportunità, osservandoti e seguendoti negli anni, di fare altri passi, dolorosi quanto necessari, nel superamento del mio incidente.
Perché io, proprio come te, ho sempre voluto vivere e non solo sopravvivere (tra l’altro anch’io, una volta, sono scesa in pista, letteralmente, al fianco di una giovane e valorosa campionessa che si chiama Michela Cerruti); dunque ho sempre preferito affrontare apertamente i miei fantasmi.
E capisco benissimo, sai, perché tu dovessi essere tanto freddo da apparire a qualcuno come un computer.

E ora, riposa in pace, Niki Lauda, mio amato campione: ti auguro davvero con tutta me stessa e con tutto il cuore che la terra ti sia lieve, ti auguro di volare libero e leggero come il soffione che desidero idealmente donarti…

Ho detto in altre occasioni come io creda che la scrittura sia talvolta anche una forma di autoterapia.
In questo post, la scrittura ha due declinazioni: la prima coincide con un atto di stima verso un uomo che è stato un simbolo per me e per moltissime persone; la seconda coincide con una seduta di autoanalisi, ebbene sì.
Torno a chiedere perdono a voi, miei cari lettori, per avervi coinvolti.

Manu

Sei anni di Agw cercando la strada della comunicazione di cultura e talento

Il primo maggio del 2013, esattamente sei anni fa, pubblicavo il mio primissimo post lanciando questo blog al quale ho dato il nome A glittering woman, per festeggiare il mio amore verso tutto ciò che di bello, luminoso e scintillante esiste nella vita, in senso ampio, a 360°.
Quel primo post raccontava qualcosa a proposito di una delle mie grandi passioni, il vintage, e in particolare si concentrava su Next Vintage Belgioioso, una manifestazione di settore che amo particolarmente.
Allora, quando pubblicai il primo post, avevo naturalmente un progetto in testa ma – se devo essere sincera – non avevo idea di ciò che il blog sarebbe diventato nel tempo, ovvero la mia creatura, come chiamo a volte scherzosamente questo spazio web.
Certo, speravo che il progetto avesse una continuità e che potesse davvero riuscire a essere rappresentativo, pian piano, del mio pensiero, trasformando il blog in una sorta di manifesto: posso dire che, da questo punto di vista, oggi, sono molto soddisfatta.
Sebbene io non mi fermi mai sugli allori, nonostante io pensi costantemente che ogni cosa che faccio possa essere migliorata, vi posso confessare che sono felice sia della longevità di A glittering woman sia di come esso sia diventato rappresentativo di tutto ciò in cui credo, con onestà, coerenza, sincerità, trasparenza. Esattamente quel manifesto che speravo, insomma.
E ora, con il senno di poi, mi fa tenerezza notare come io sia partita (più o meno consciamente) proprio da un argomento che negli anni è diventato sempre più importante per me, una sorta di cavallo di battaglia, ovvero la second hand economy.

Sei anni…
Riflettevo che a sei anni un bambino termina la scuola materna e si accinge a una delle esperienze più importanti e significative di tutta la nostra vita, ovvero la scuola elementare.
Credo di aver dimenticato tanti episodi dei successivi anni di studio, ma ricordo nitidamente, con chiarezza e precisione, decine e decine di episodi collegati ai miei cinque anni di elementari.
La scuola elementare ha lasciato segni indelebili in me e ricordo perfettamente gli insegnamenti della mia maestra (e non solo quelli collegati a grammatica e matematica…), così come ne ricordo il nome – Gabriella Consolandi.
Se parlo di tutto ciò è perché – come dicevo in principio – a volte chiamo il blog la mia creatura, proprio come se fosse un bambino (il mio bambino); ora questo figlio si appresta a una fase molto delicata del suo percorso, come un bambino pronto a iniziare le scuole elementari.
Vediamo cosa accadrà…

L’anno scorso, festeggiando i cinque anni, avevo sottolineato come comunicare (ovvero il desiderio che mi ha spinto ad aprire il blog) sia un’esigenza che accomuna la maggior parte degli esseri umani.
Se andiamo all’origine della parola, scopriamo qualcosa che in fondo è facile intuire anche solo ripetendola: comunicare dal latino communicare, derivato di communis ovvero «comune».
Comun-icare: «rendere comune, far conoscere, far sapere, per lo più di cose non materiali», dice il vocabolario Treccani.
E aggiunge «divulgare, rendere noto ai più, fare partecipi altri di qualcosa», sottolineando la caratteristica più bella, profonda e positiva della comunicazione, ovvero il «valore reciproco».
Ecco, per me comunicare e fare comunicazione è proprio questo: mettere in comune. Ciò che amo oppure ciò che so, tanto o poco che sia.
Mettere al servizio di tutti informazioni e conoscenza, far circolare buona informazione costruita partendo da una sana curiosità e fortificata poi attraverso ricerca, studio, analisi.

Per me, dunque, la buona comunicazione avviene quando c’è collaborazione.
E credo che la comunicazione debba vere un valore sociale.
E credo anche che la comunicazione sia uno strumento fondamentale per generare crescita, personale e sociale, per ottenere credibilità, per costruire comunità solidali e consapevoli.
C’è poi chi comunica per provocare: scelte personali, io trovo che sia un trucchetto un po’ infantile per attirare l’attenzione e mi limito a passare oltre. Leggi tutto

Cara Maria Vittoria Albani… questo è solo un arrivederci…

Stamattina, al mio risveglio, ho ricevuto una notizia per me scioccante, ovvero la scomparsa di Maria Vittoria Albani, colei che è stata giustamente definita la signora del gioiello moda italiano dalla professoressa Alba Cappellieri in un bellissimo articolo per Preziosa Magazine.

Si è spenta a 89 anni, per un brutto male.
«È stata creativa e combattiva, lucidissima fino a pochi giorni fa.»
Così ha scritto la persona che mi ha dato la notizia: vi confesso che, avendo avuto l’immenso onore di conoscere questa donna straordinaria, minuta di fisico ma vulcanica quanto a testa e cervello, non sono affatto sorpresa della vitalità che ha dimostrato fino all’ultimo.

Ho incontrato Maria Vittoria Albani per la prima volta quattro anni fa, in marzo 2015, quando il Museo del Bijou di Casalmaggiore, in collaborazione con Bianca Cappello, storica e critica del gioiello, ha allestito un’importante e bellissima mostra interamente dedicata a Ornella Bijoux, l’azienda fondata nel lontano 1944 da Maria Vittoria e dalla mamma Piera.

Anno dopo anno, la loro creatura si è trasformata in una griffe di costume jewellery mondialmente riconosciuta e che viene considerata una tra le più ricercate e apprezzate da intenditori e appassionati.

All’epoca, nel 1944, Maria Vittoria aveva solo 14 anni e la mamma, Piera Albani, era rimasta vedova: rilevare un campionario di bigiotteria fu per loro l’inizio di una nuova avventura – che continua ancora oggi con Simona e Marta, rispettivamente figlia e nipote di Maria Vittoria – e di una nuova vita.

I primi tempi furono all’insegna di grandi sacrifici: il campionario era sistemato in bauli e portato in giro in bicicletta per essere mostrato ai vari rivenditori e, in un’Italia in gran parte distrutta, le due donne si avventurano fino al sud, spesso ottenendo fortuiti passaggi.

Nonostante la giovanissima età, Maria Vittoria mostrò una straordinaria attitudine al disegno e alla composizione creativa e, già agli inizi degli Anni Cinquanta, divenne ufficialmente la disegnatrice di Ornella Bijoux: nel 1957, vinse il “Primo Concorso Nazionale Sorelle Fontana per l’Accessorio nell’Alta Moda”.

La storia di Ornella Bijoux si fonde dunque con le vicissitudini italiane: parla di coraggio, di autentico spirito imprenditoriale in un momento difficilissimo come quello del secondo dopoguerra, parla di due donne straordinarie e coraggiose che sono state artefici del proprio destino in un’epoca in cui nemmeno esisteva l’espressione women empowerment.

Quel pomeriggio del 21 marzo 2015, a Casalmaggiore, mi sono innamorata immediatamente di Maria Vittoria: a folgorarmi è stato proprio il suo carattere, un mix di vitalità, energia, entusiasmo, tenacia, volontà, talento, carisma, verve, competenza, il tutto condito da un’immensa gentilezza.

Le uniche cose che Maria Vittoria Albani non possedeva erano infatti la spocchia e l’arroganza: sono sempre stati gli altri a riconoscerle l’indiscussa importanza e grandezza.

Tornata a casa, ho scritto un post raccontando della mostra e narrando tutta la lunga e gloriosa storia di Ornella Bijou, Piera e Maria Vittoria, una storia costellata di successi e grandi realizzazioni: il titolo eloquente che ho scelto, “Ornella Bijoux, un’autentica icona italiana”, racconta tutta la mia ammirazione.

Un paio di mesi dopo, sono andata a trovare Maria Vittoria nel suo laboratorio di Milano: ricordo come fosse ieri la mia enorme emozione nel poter entrare nel suo mondo, quanto fossi onorata del fatto che lei avesse accettato di accogliermi nel suo regno.
La foto che vedete qui in alto è stata scattata proprio quel giorno: il sorriso racconta la mia felicità meglio di mille parole e, al collo, porto una delle creazioni di Maria Vittoria, una delle tante che lei mi ha permesso di provare nonché la mia preferita.
Anche quella volta, dai racconti e dalle scoperte, è nato un post intitolato “Maria Vittoria Albani, vorrebbe adottarmi?”.

Non me ne voglia la mia mamma – che adoro – né Simona, la vera figlia: quel titolo affettuosamente scherzoso voleva esprimere tutta la mia stima per una donna la cui creatività mi faceva desiderare di poter essere una figlia adottiva, io che ho scelto il nomignolo glittering woman.

Di quel pomeriggio nel suo laboratorio conservo anche un paio di ricordi nitidi e inediti che oggi condivido.

Il primo è che mi confessò di non indossare gioielli, con la sola eccezione delle spille: questa cosa mi incuriosì molto, mi incuriosì il fatto che la signora del gioiello moda non fosse anche un’utilizzatrice.

Il secondo ricordo è relativo a quando, prima di andare via, mi invitò a scegliere un suo pezzo: voleva farmi un regalo e il suo pensiero così gentile e delicato mi fece emozionare.
Non dimenticherò mai il suo sguardo intenerito davanti alla mia emozione che credo le avesse fatto comprendere quanto la ammirassi.

Da allora, negli anni, ci siamo incontrate tante volte, soprattutto in occasione degli eventi culturali legati a moda e gioiello: ci salutavamo sempre con grande entusiasmo e simpatia, una simpatia che sentivo essere reciproca.

In tali incontri, non mancavo di ammirare la sua innata eleganza senza fronzoli, ricordando ciò che mi aveva confessato quel pomeriggio in laboratorio: è vero, non portava gioielli se non qualche spilla eppure, per tutta la sua vita, ha sempre saputo con estrema precisione cosa noi donne amiamo indossare.
Tutto ciò grazie a un fiuto istintivo e infallibile, a un gusto squisito, a una curiosità inarrestabile e infinita: ed ecco perché, a 89 anni, Maria Vittoria è scomparsa essendo ancora giovane e vitale.

Non dimenticherò mai la sua energia e il suo entusiasmo.
Incontrarla e conoscerla, ascoltarla, visitare il suo laboratorio, aprire con lei cassetti e vetrine scoprendo infinite meraviglie: considero tutto ciò uno dei grandi regali che la vita mi ha fatto.

Ho scritto tanti post dedicati alle mie icone scomparse, uomini e donne che tanto hanno fatto nell’ambito dell’ingegno e della creatività.
In alcuni casi, ho avuto la fortuna di stringer loro la mano almeno una volta, come accadde con Krizia; in altri casi, nonostante la possibilità di vari incontri, non ho mai avuto l’ardire di farmi avanti, come accadde con Elio Fiorucci; in due casi, quelli di Angelo Marani e Maria Vittoria Albani, il dolore della scomparsa è aggravato dal fatto di aver avuto l’onore di intrattenermi e chiacchierare con loro in varie occasioni.

Ecco perché, oggi, mi sento un po’ orfana: sento di aver perso quella mamma adottiva per affinità elettiva.
Naturalmente, con tutto il mio più grande rispetto per il dolore della vera famiglia alla quale mi unisco in un affettuoso abbraccio.

Manu

Postilla del 30 aprile…
Ieri sono stata alla funzione in onore di Maria Vittoria Albani e il parroco della Chiesa di Santa Maria Segreta ha detto tante cose che hanno colpito il mio cuore, come quando ha parlato di lei come di una persona nella quale molti riconoscevano una figura di confidente e di riferimento all’insegna di una maternità diffusa (non ero poi folle a percepirla come una sorta di mamma adottiva per affinità elettiva…) o come quando l’ha descritta come persona capace di un’ironia leggera (specificando che è cosa ben diversa dalla superficialità e che, al contrario, è la rara capacità di saper distinguere le cose davvero serie riuscendo a ironizzare con leggerezza) o come quando ha raccontato di come si era inventata le spillette per il gruppo scout…
Che donna!
«Commemoriamo con la testa e ricordiamo con il cuore»: così ha concluso e non c’è dubbio che Maria Vittoria sarà ricordata con tanto cuore

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