Un anello anzi mille: perché amo tanto gli anelli / seconda parte
Era il 22 dicembre 2016, quasi un anno fa, quando ho pubblicato un post dedicato a una parte della mia enorme collezione di anelli.
L’anello è un monile che mi affascina a tal punto che, per esempio, ho scritto un articolo per SoMagazine raccontando alcune delle tante declinazioni possibili perché, tra tutti gli oggetti che hanno funzione ornamentale, gli anelli sono forse i più ricchi di significati, sia quelli che scegliamo per noi sia quelli che regaliamo.
Ma né un anno fa nel mio primo post fa né tanto meno oggi ho alcuna intenzione di fare un trattato serio attorno agli anelli (non che quel mio articolo per SoMagazine avesse la pretesa di essere ciò, era solo un piccolo excursus tra storia e curiosità che, tra l’altro, un giorno mi piacerebbe riprendere, approfondire e sviluppare).
Comunque, oggi desidero piuttosto parlarvi del mio rapporto emozionale con gli anelli e ancor di più condividere semplicemente ulteriori foto.
I gioielli in generale e gli anelli in particolare sono pezzi di noi, della nostra vita, del nostro cuore, di momenti speciali e significativi, di chi ce li ha donati e, in alcuni casi, di chi li ha fatti per noi, così come mi capita con alcuni dei designer dei quali ho avuto la fortuna e l’onore di scrivere.
Un anello, per esempio, è spesso veicolo di ricordi e di legami.
E gli anelli mi accompagnano quotidianamente proprio perché li considero una parte integrante del mio modo di presentarmi.
Sono importanti anche perché faccio un ampio uso del linguaggio del corpo: adopero la mimica facciale (anche troppo) e gesticolo (parecchio).
Le mie mani sono sempre in vista, dunque, in quanto sono uno dei mezzi attraversi i quali comunico: occhi, viso e mani competono con le parole che pronuncio e che scrivo.
Considerata la mia passione, negli anni ho collezionato anelli di tutti i tipi e alcuni pezzi, i primi, risalgono all’adolescenza.
Ho infatti iniziato attorno ai 15 anni e oggi possiedo una collezione piuttosto ricca, non tanto per valore economico quanto piuttosto per varietà di forme, materiali, provenienze e – appunto – significati.
Ho raccontato più volte che, per riuscire a catturare la mia attenzione, un gioiello – qualunque esso sia, più o meno prezioso – deve possedere carattere: deve essere in grado di trasmettermi una sensazione, un’emozione, deve affascinarmi, stupirmi, incuriosirmi, sorprendermi, divertirmi.
Deve coinvolgermi, insomma: non apprezzo i gioielli anonimi, scontati, banali, noiosi e guai a una mia reazione neutra o indifferente davanti a un anello.
Tra gli anelli che amo indossare figurano quelli divertenti e giocosi, quelli che in genere fanno sorridere chi mi incontra: ne ho di buffissimi, come potrete vedere anche qui sotto.
Indossare creazioni spiritose e accattivanti, piccoli divertissement, spesso fornisce lo spunto per conversazioni anche con persone appena conosciute, incuriosite da oggetti tanto particolari.
Amo molto anche gli anelli seri, diciamo così, con simboli, monete, piccoli ricordi, iniziali: tra questi ci sono quelli che considero pezzi di cuore e ai quali sono affezionata in modo viscerale.
E poi ho un’enorme passione per gli anelli-scultura, vere e proprie opere d’arte da indossare.
Qualcuno, molto probabilmente, penserà che nella mia collezione c’è qualche anello un po’ kitsch: lo accetto, a patto che non ci si limiti semplicemente a far coincidere il concetto di kitsch con quello di banalità; lo accetto se con kitsch si intende fuori dalle righe e dall’ordinario.
È vero, la definizione universalmente accettata di kitsch identifica oggetti considerati banali, eccessivi, dozzinali, di cattivo gusto e quindi disturbanti: il termine tedesco (che significa «scarto») era già usato in Germania dalla metà del XIX secolo in riferimento a prodotti (soprattutto oggetti e mobili) di bassa qualità ma con pretese estetiche o, peggio ancora, a prodotti di imitazione o falsificazione degli originali antichi.
Ma determinare con assoluta precisione e certezza cosa sia kitsch nella moda è difficile per la natura stessa della materia e per la sua caratteristica principale: la moda è mutevole ed è perennemente in evoluzione. Cambia, di continuo, e di continuo cambiano i suoi parametri: ciò che era kitsch ieri potrebbe non esserlo domani e viceversa.
Per questo, a mio avviso, estrapolare un abito o un ornamento dalla sua epoca è spesso un’operazione pericolosa: decontestualizzare e analizzare senza i necessari riferimenti temporali, geografici e sociali porta spesso a considerare kitsch o di cattivo gusto capi, outfit, gioielli che hanno invece un preciso senso nel proprio contesto o in un determinato momento e ambito.
Per questo, sempre a mio umile avviso, il vintage non è affare per tutti.
Facendo leva proprio sui punti fondamentali di ciò che è kitsch – banalità, imitazione, falsificazione – affermo che il concetto si può oggi spostare e concentrare sull’aspetto personalità, soprattutto nell’ambito moda: ovvero sostengo che avere un gusto kitsch significhi oggi più che altro imitare qualcuno e falsificare il proprio aspetto, non essere sé stessi, assumere atteggiamenti o comportamenti innaturali, non autentici, vestire in modo eccentrico o eccessivo non per spontanea inclinazione bensì solo per seguire un cosiddetto trend (vedere, per esempio, il fenomeno streetstyle esasperato e portato all’estremo).
Essere kitsch – per me – non è indossare un anello strano ma mancare di personalità, magari adottando e scimmiottando uno stile che non ci appartiene.
Non è l’eccesso di per sé stesso o l’essere fuori dalle righe a essere kitsch o di dubbio gusto; lo è il fatto di volerlo essere a tutti i costi senza rielaborazione personale.
Tant’è che, negli oggetti definiti kitsch, si sottolinea spesso la mancanza di creatività e originalità anche secondo quella che è la concezione originaria e più classica del termine.
Tengo sempre presente – a livello personale e nel mio lavoro – ciò che affermava Diana Vreeland, leggendaria giornalista di moda, storica redattrice di moda della rivista Harper’s Bazaar e poi autorevole direttrice di Vogue Usa, decisamente una delle mie icone.
«Un po’ di cattivo gusto è come una bella spruzzata di paprika. Tutti abbiamo bisogno di una spruzzata di cattivo gusto: è salutare e fisica. Dovremmo usarne un po’ di più. Ciò a cui sono contraria è la totale assenza di gusto».
E se lo diceva lei, considerata tra le persone meglio vestite al mondo, possiamo crederci.
Quindi, il kitsch, per me, è gioco, è sfida, è provocazione, è divertimento, è fantasia, è uscire dagli schemi, è infrangerli, è ironia e autoironia, è l’eccesso che diventa arte, è personalità che sfugge alle righe o ai quadretti di un quaderno troppo preciso – quadretti che pericolosamente assomigliano a delle piccole celle… È la capacità di gestire tutto ciò con allegria, sì, è un’allegra consapevolezza.
Ecco, se per kitsch intendiamo tutto ciò… allora sì, i miei anelli talvolta lo sono. E io con loro. Orgogliosamente.
Manu
Tutte le foto vengono dal mio account Instagram 🙂
Tra i pezzi, troverete anche quelli di alcuni dei designer ai quali ho dedicato dei post qui nel blog, come nel caso di Francesca Paolin, Sophie Cochevelou, Serena Ciliberti, Officine Gualandi, Alysha Laurene, Pamphlet, Keep Out; troverete anche qualche pezzo comprato da Bivio, uno dei miei negozi second hand preferiti (ne ho parlato qui).
E comunque… non finirà qui…
… To be continued! 😉
Manu
Mi chiamo Emanuela Pirré, Manu per gli amici di vita quotidiana e di web. Sono nata un tot di anni fa con una malattia: la moda. Amo la moda perché per me è una forma di cultura, una modalità di espressione e di comunicazione, un linguaggio che mi incuriosisce. Scrivo e creo contenuti in ambito editoriale, principalmente proprio per la moda. Insegno (Fashion Web Editing, Storytelling, Content Creation) in due scuole milanesi. Vivo sospesa tra passione per il vintage e amore per il futuro e sono orgogliosa della mia nutrita collezione di bijou iniziata quando avevo 15 anni. Per fortuna Enrico, la mia metà, sopporta (e supporta) entrambe, me e la collezione, con pazienza e amore. Oltre a confessare un'immensa curiosità, dichiaro la mia allergia a pregiudizi, cliché, luoghi comuni, conformismo e omologazione. Detesto i limiti, i confini, i preconcetti – soprattutto i miei – e mi piace fare tutto ciò che posso per superarli. La positività è la mia filosofia di vita: mi piace costruire, non distruggere. Moda a parte, amo i viaggi, i libri e la lettura, l'arte, il cinema, la fotografia, la musica, la buona tavola e la buona compagnia. Se volete provare a diventare miei amici, potete offrirmi un piatto di tortellini in brodo, uno dei miei comfort food. Oppure potete propormi la visione del film “Ghost”: da sognatrice, inguaribile romantica e ottimista quale sono, riesco ancora a sperare che la scena finale triste si trasformi miracolosamente in un lieto fine.