Louis Vuitton, delocalizzazione, Made in Italy, H&M: perché tutto insieme?

Eccezionalmente, oggi pubblico un secondo post nella stessa giornata perché mi preme condividere con voi alcune riflessioni alquanto calde e attuali.

In questi giorni, circola infatti la notizia di un’inchiesta fatta da The Guardian: secondo l’autorevole quotidiano britannico, la maison Louis Vuitton (gruppo LVMH, ovvero una delle grandi holding del lusso) fabbricherebbe le proprie scarpe in Romania, per la precisione in Transilvania.
Sempre a quanto risulta secondo l’inchiesta, le scarpe vengono poi spedite da noi, qui in Italia, dove vengono semplicemente incollate le suole.
Altro che Made in France o Made in Italy, insomma, come invece viene stampigliato sulle suole.

Non voglio scendere nel merito specifico di questo episodio, perché il discorso è lungo e articolato.
Prima di tutto, occorrerebbe parlare bene di cosa oggi possa legalmente fregiarsi dell’appellativo Made in Italy (e sto meditando di scrivere un post dedicato).
E secondo, se vogliamo parlare di etica e soprattutto di etica del lavoro, bisogna dire che sembrerebbe che quelle fabbriche in Romania siano un ambiente pulito nel quale lo staff lavora da seduto, ha il fine settimana libero, è pagato per gli straordinari e non usa prodotti tossici.

(A proposito: un paio di cosette circa delocalizzazione, reshoring, Made in Italy, etica e via discorrendo le avevo già scritte tempo fa, nel 2014, ora che ci penso – precisamente qui)

L’osservazione che desidero fare è dunque piuttosto un’altra: bisogna tenere gli occhi ben aperti e non dobbiamo fidarci di tutto ciò che ci viene detto.
Oggi, il fast fashion viene spesso additato come l’essenza del male in ambito moda o peggio come l’unico male, ma non è così, non del tutto, non al 100%.
Così come non è vero che le maison di alto di gamma siano sempre virtuose, non è altrettanto vero che quelle di fast fashion facciano tutto quanto male.

Vi faccio un esempio pratico anche in questo caso.
Recentemente, ho fatto degli acquisti attraverso il sito H&M e quello che vedete qui sopra è il sacchetto che mi è arrivato insieme ai capi.
Perché – nonostante le responsabilità che si imputano al fast fashion e che certo non intendo negare – occorre anche dire che H&M, per esempio, è da anni in prima linea nella lotta per la sostenibilità.
Ha un sito dedicato nel quale dettaglia tutte le attività che svolge.
E, fin dal 2013, ha creato il più grande sistema globale di raccolta di abbigliamento usato del settore retail.
Tutti i negozi della catena, in ogni paese del mondo, dispongono di contenitori di raccolta dei capi: i clienti possono depositare capi usati di qualsiasi marca che saranno riutilizzati o riciclati, ricevendo un buono in cambio.
Già a febbraio 2014, H&M ha presentato i primi prodotti contenenti materiali ottenuti con l’iniziativa, ovvero capi in denim con una percentuale di cotone riciclato.

Non voglio fare un’arringa a favore del colosso del fast fashion, non mi interessa, credetemi; desidero solo – e lo ripeto! – dire a noi tutti di tenere gli occhi aperti e di guardare oltre.
Non dobbiamo subire i luoghi comuni, né nel bene e nel male, e non beviamoci bugie e/o false promesse, qualsiasi etichetta esse portino – letteralmente!

E per il momento mi fermo qui.

Se poi volete saperne di più sul caso Louis Vuitton, vi invito a leggere l’articolo di The Guardian.
E ce n’è anche per il gruppo diretto concorrente di LVMH, ovvero Kering: leggete cosa scrive Pambianco a proposito di un’altra querelle che riguarda degli occhiali…

La butto lì: sarà forse che quello di giocare un po’ con appellativi, definizioni e cavilli sia un vizio piuttosto diffuso?
Sarà forse che – come sostengo io – il male non stia oggi solo nel fast fashion ma in chiunque si comporti con poca trasparenza?

Manu

 

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Manu

Mi chiamo Emanuela Pirré, Manu per gli amici di vita quotidiana e di web. Sono nata un tot di anni fa con una malattia: la moda. Amo la moda perché per me è una forma di cultura, una modalità di espressione e di comunicazione, un linguaggio che mi incuriosisce. Scrivo e creo contenuti in ambito editoriale, principalmente proprio per la moda. Insegno (Fashion Web Editing, Storytelling, Content Creation) in due scuole milanesi. Vivo sospesa tra passione per il vintage e amore per il futuro e sono orgogliosa della mia nutrita collezione di bijou iniziata quando avevo 15 anni. Per fortuna Enrico, la mia metà, sopporta (e supporta) entrambe, me e la collezione, con pazienza e amore. Oltre a confessare un'immensa curiosità, dichiaro la mia allergia a pregiudizi, cliché, luoghi comuni, conformismo e omologazione. Detesto i limiti, i confini, i preconcetti – soprattutto i miei – e mi piace fare tutto ciò che posso per superarli. La positività è la mia filosofia di vita: mi piace costruire, non distruggere. Moda a parte, amo i viaggi, i libri e la lettura, l'arte, il cinema, la fotografia, la musica, la buona tavola e la buona compagnia. Se volete provare a diventare miei amici, potete offrirmi un piatto di tortellini in brodo, uno dei miei comfort food. Oppure potete propormi la visione del film “Ghost”: da sognatrice, inguaribile romantica e ottimista quale sono, riesco ancora a sperare che la scena finale triste si trasformi miracolosamente in un lieto fine.

Glittering comments

Filippo
Reply

Scrivendo cose così non si aiuta business e Made in Italy perché si sottolinea la parte brutta!

Manu
Reply

Benvenuto, Filippo.

Visto che sono un’inguaribile ottimista, partirò dai due punti secondo me positivi.
Primo, è sempre per me un grande piacere ospitare lettori uomini che, per molti motivi, sono spesso in minoranza numerica. Dunque grazie di esserci e grazie di aver commentato.
Secondo, mi fa piacere che il mio blog faccia discutere. Trovo sia una cosa sana.

A questo punto, però, permettimi di essere un poco severa e di porti una domanda: ma hai davvero letto il mio post, ovvero ciò che tu liquidi con l’espressione cose così?
Non me la sono presa per la definizione, credimi, ma piuttosto resto male perché ho l’impressione che tu il post non l’abbia affatto letto, altrimenti non mi scriveresti che non aiuto il Made in Italy e che sottolineo il brutto.

Ti riassumo per punti perché sostengo ciò.

1 – Io amo il Made in Italy e ci sono decine di post, in questo blog, dedicati a tale argomento. E proprio perché amo il Made in Italy, il mio scopo è quello di non permettere a nessuno, nel mio piccolo, di metterlo in ombra in alcun modo, nemmeno per un istante e nemmeno se si tratta di un colosso delle proporzioni di Louis Vuitton nonché del gruppo LVMH. Anzi, a maggior ragione.

2 – Non sono i post come il mio a uccidere Made in Italy e business: a farlo è piuttosto la mancanza di chiarezza. Perché il Made in Italy si aiuta, si protegge, si tutela e si porta avanti con la chiarezza, appunto, e non con il silenzio né con certe mentalità che assomigliano pericolosamente all’omertà mafiosa (perdona la mia severità su tale punto ma è qualcosa su cui non transigo).

3 – Louis Vuitton non è un’azienda italiana: è un’azienda francese che desidera godere dell’appellativo Made in Italy oltre al Made in France. È la benvenuta, se fa le cose per bene e se produce qui, anzi, sono onorata del fatto che considerino appetibile la provenienza nostrana: tuttavia, desidero a maggior ragione difendere i diritti della nostra Italia nel caso in cui i requisiti per ottenere l’appellativo non vengano rispettati.

4 – Tengo infine a dire che il mio intento non era affatto sottolineare la parte brutta. Anzi, al contrario: proprio per il mio grande amore verso verità e integrità di cronaca, ho ampiamente specificato che la questione della fabbrica in Romania non è legata a motivi di etica e diritti dei lavoratori, in quanto pare – pare – che le condizioni di lavoro siano ottimali. Dunque ho sottolineato il cattivo (la mancata trasparenza) ma anche il buono (creare opportunità di lavoro che sembrano in effetti essere di qualità). Però non posso né intendo passare sul fatto che quella fabbrica sia in Romania mentre sotto le suole è stampigliato Made in Italy.

Fare le scarpe in Romania e venderle come italiane uccide il Made in Italy, caro Filippo, e non sono io a farlo né è lo scriverne a renderlo reale o a sottolinearlo. L’errore è alla base, alla fonte.
Chi non aiuta il Made in Italy è chi fa confusione. E io non accetto che su questo si faccia per giunta business – e quale business, non parliamo di briciole trascurabili.
Le persone hanno diritto a chiarezza e trasparenza ed è la mancanza di esse che ci ha abituati ad accontentarci della mediocrità, inclusa quella di pensiero.

Io non mi accontento e scommetto che non ti accontenti nemmeno tu (noto grinta nelle tue parole) e allora non facciamoci confondere o buttare sabbia negli occhi.
Non perdiamo di vista ciò che davvero fa male e che – sicuramente – non è né il coraggio né la verità.

Ti chiedo di nuovo scusa per la mia severità (ma se l’ho usata è perché ho percepito possibilità di confronto) e di nuovo ti ringrazio.
Qualora tu volessi tornare qui, sappi che sarai sempre il benvenuto, perché non è il confronto che mi spaventa ma la muta o rassegnata accettazione delle cose come se fossero ineluttabili e non modificabili.

Manu

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