Il rosso? Lo amo e lo porto perché supera le mode e dà energia!

Quando mi chiedono quale sia il mio colore preferito sono sempre un po’ in imbarazzo.

Perché? Perché la risposta è piuttosto articolata.

Prima cosa, vado a estro (o follia…) del momento: succede che, per intere settimane, io non riesca a liberarmi del nero, mentre capitano periodi in cui vesto in maniera piuttosto colorata. Passo da un estremo all’altro, insomma, come mi capita spesso e in diversi ambiti: mai mezze misure, io!

C’è da dire che, anche quando sono nel periodo total black, in genere riservo comunque al colore qualche piccolo spazio o almeno un accenno, per esempio attraverso qualche accessorio.

Sono dunque una persona che ama il colore in generale e che non può farne a meno, sia anche solo a piccole dosi.

E tra i colori non ne ho uno preferito in particolare: mi è capitato di scegliere capi e accessori azzurri, verdi, gialli, arancioni. Amo perfino il viola (tanto!), tinta disdegnata da molti: non sono minimamente superstiziosa.

Se devo invece indicare un colore che non mi è particolarmente gradito, devo ammettere che negli ultimi anni faccio molta fatica a portare il marrone: è strano, anni fa mi piaceva e lo indossavo, spesso e volentieri. Leggi tutto

Il ventaglio: solo vezzo e aria fresca? O c’è di più? (Buona la seconda)

Amo la bella stagione.

Della primavera e dell’estate amo praticamente tutto, ogni loro singolo manifestarsi.

Amo i ritmi che portano.
Amo i colori, i profumi, i sapori.
Amo la luce e amo il fatto che le giornate durino più a lungo.
Amo le serate fuori e le cene conviviali all’aperto. Amo i pranzi sotto le pergole.
Amo i cibi che si consumano d’estate, dai barbecue fino alla frutta, colorata, saporita, allegra.
Amo le vacanze o anche solo le gite al mare, perché d’estate sembra tutto più semplice, perfino essere felici sembra più a portata di mano. E di cuore.

Solo una cosa non mi piace: quando l’afa si fa esagerata e – conseguentemente – ci rende paonazzi, rossi come peperoni troppo arrostiti.
Ciò non è piacevole, lo ammetto, anzi, è piuttosto imbarazzante.

Un po’ per combattere questo inconveniente e un po’ perché amo le vestigia del passato (quando corrispondono a belle abitudini che valga la pena di conservare), parecchi anni fa ho iniziato a collezionare e usare i ventagli.

Non ricordo se io abbia fatto di necessità virtù, come si suol dire, ovvero se abbia iniziato per avere con me uno strumento che possa combattere il caldo o se sia stata semplicemente attratta dalla loro bellezza, dalla loro storia e dai loro molteplici significati.

Sia l’una o l’altra opzione, sta di fatto che, negli anni, ho messo insieme diversi ventagli di vario tipo. Leggi tutto

Ridefinire il Gioiello dà l’avvio a dolci conversazioni

Continuo a dare il mio sostegno al talento, alla bellezza e alla cultura attraverso il nuovo capitolo di uno dei miei progetti preferiti: Ridefinire il Gioiello.
Sono passate solo due settimane dal mio post più recente su tale argomento ed eccomi qui a parlarvi di una nuova iniziativa voluta da Sonia Catena, la vera anima del progetto.

Faccio un breve riassunto.
Ridefinire il Gioiello è nato nel 2010 e negli anni è diventato un importante punto di riferimento nella sperimentazione materica sul gioiello contemporaneo e d’arte nonché un’interessante vetrina per artisti e designer.
È un progetto itinerante che promuove creazioni esclusive, selezionate dalla giuria e dai partner per aderenza a un tema (sempre diverso) nonché per ricerca, innovazione, originalità ideativa ed esecutiva: gioielli tra loro molto diversi per materiali impiegati vengono dunque uniti di volta in volta grazie a una tematica comune, sempre interessante e stimolante.

Dal 2014, sono tra i media partner del concorso e, a ogni edizione, attribuisco un premio a un vincitore da me scelto, ovvero un articolo di approfondimento: un paio di settimane fa, ho appunto raccontato il mondo di Alba Folcio, la vincitrice da me scelta per l’edizione 2016-2017, edizione che ha avuto un tema particolarmente stimolante, ovvero i libri, i racconti e la poesia.

Sonia è già prontissima a lanciare un nuovo tema e per l’edizione Dolci conversazioni chiede agli artisti di progettare e realizzare un gioiello a tema food.

Ovvero chiede di progettare pezzi unici ispirati alle atmosfere, ai sapori e ai colori della tavola; storie di cibo, allegre, ironiche e divertenti narrate attraverso materiali sostenibili e sperimentali.

Il progetto è condotto in collaborazione con il Gruppo Duetorrihotels, una realtà che ama investire nei giovani e nella cultura: gli hotel del gruppo sono luoghi di grande storia, da sempre frequentati dagli artisti di tutte le epoche, e custodiscono al proprio interno capolavori artistici.

I gioielli saranno dunque esposti nei quattro Luxury Hotel del gruppo (Bernini Palace | Grand Hotel Majestic | Due Torri Hotel | Hotel Bristol ), in varie tappe da ottobre 2017 a febbraio 2018, e dialogheranno con altrettanti pasticcieri, uno per ogni città, ovvero nell’ordine Firenze, Bologna, Verona e Genova.

I maestri pasticcieri realizzeranno dolci ispirati ai gioielli fra soffici spume, deliziose panne montate, mousse tentatrici e fragranti paste frolle. La progettualità dei designer si fonderà con l’estro dell’alta pasticceria, creando dolci conversazioni condotte grazie a linguaggi diversi eppure ugualmente artistici e creativi.

Inutile dire che – considerato il mio amore per la buona tavola – la nuova idea di Sonia mi piace moltissimo: ecco perché sono felice di darne diffusione.

Non mi resta altro che precisare che le iscrizioni al concorso sono aperte fino al 31 agosto 2017: qui potete scaricare il bando completo di Dolci conversazioni.

E io concludo affermando che, secondo me, è un bando goloso, da leccarsi le dita, dunque partecipate numerosi!

Manu

 

Qui trovate il sito del progetto Ridefinire il Gioiello, qui la pagina Facebook e qui Twitter

Io & Ridefinire il Gioiello:
Edizione 2016/2017 – qui trovate il mio articolo su Alba Folcio, la mia premiata; qui quello sulla partenza del progetto con le tappe principali e qui quello sulla pubblicazione del bando di concorso.
Edizione 2015 – qui trovate il mio articolo su Loana Palmas, la mia prima premiata; qui quello su Alessandra Pasini, la mia seconda premiata; qui quello su Chiara Lucato, la mia terza premiata; qui trovate il mio articolo sulla serata di inaugurazione e qui quello sulla pubblicazione del bando di concorso. Qui, infine, trovate il mio articolo su un ulteriore incontro tenuto sempre nell’ambito delle tappe dell’edizione 2015.
Edizione 2014 – qui trovate il mio articolo sulla manifestazione 2014; qui quello su Alessandra Vitali, la designer che ho scelto di premiare.

Louis Vuitton, delocalizzazione, Made in Italy, H&M: perché tutto insieme?

Eccezionalmente, oggi pubblico un secondo post nella stessa giornata perché mi preme condividere con voi alcune riflessioni alquanto calde e attuali.

In questi giorni, circola infatti la notizia di un’inchiesta fatta da The Guardian: secondo l’autorevole quotidiano britannico, la maison Louis Vuitton (gruppo LVMH, ovvero una delle grandi holding del lusso) fabbricherebbe le proprie scarpe in Romania, per la precisione in Transilvania.
Sempre a quanto risulta secondo l’inchiesta, le scarpe vengono poi spedite da noi, qui in Italia, dove vengono semplicemente incollate le suole.
Altro che Made in France o Made in Italy, insomma, come invece viene stampigliato sulle suole.

Non voglio scendere nel merito specifico di questo episodio, perché il discorso è lungo e articolato.
Prima di tutto, occorrerebbe parlare bene di cosa oggi possa legalmente fregiarsi dell’appellativo Made in Italy (e sto meditando di scrivere un post dedicato).
E secondo, se vogliamo parlare di etica e soprattutto di etica del lavoro, bisogna dire che sembrerebbe che quelle fabbriche in Romania siano un ambiente pulito nel quale lo staff lavora da seduto, ha il fine settimana libero, è pagato per gli straordinari e non usa prodotti tossici.

(A proposito: un paio di cosette circa delocalizzazione, reshoring, Made in Italy, etica e via discorrendo le avevo già scritte tempo fa, nel 2014, ora che ci penso – precisamente qui)

L’osservazione che desidero fare è dunque piuttosto un’altra: bisogna tenere gli occhi ben aperti e non dobbiamo fidarci di tutto ciò che ci viene detto.
Oggi, il fast fashion viene spesso additato come l’essenza del male in ambito moda o peggio come l’unico male, ma non è così, non del tutto, non al 100%.
Così come non è vero che le maison di alto di gamma siano sempre virtuose, non è altrettanto vero che quelle di fast fashion facciano tutto quanto male.

Vi faccio un esempio pratico anche in questo caso.
Recentemente, ho fatto degli acquisti attraverso il sito H&M e quello che vedete qui sopra è il sacchetto che mi è arrivato insieme ai capi.
Perché – nonostante le responsabilità che si imputano al fast fashion e che certo non intendo negare – occorre anche dire che H&M, per esempio, è da anni in prima linea nella lotta per la sostenibilità.
Ha un sito dedicato nel quale dettaglia tutte le attività che svolge.
E, fin dal 2013, ha creato il più grande sistema globale di raccolta di abbigliamento usato del settore retail.
Tutti i negozi della catena, in ogni paese del mondo, dispongono di contenitori di raccolta dei capi: i clienti possono depositare capi usati di qualsiasi marca che saranno riutilizzati o riciclati, ricevendo un buono in cambio.
Già a febbraio 2014, H&M ha presentato i primi prodotti contenenti materiali ottenuti con l’iniziativa, ovvero capi in denim con una percentuale di cotone riciclato.

Non voglio fare un’arringa a favore del colosso del fast fashion, non mi interessa, credetemi; desidero solo – e lo ripeto! – dire a noi tutti di tenere gli occhi aperti e di guardare oltre.
Non dobbiamo subire i luoghi comuni, né nel bene e nel male, e non beviamoci bugie e/o false promesse, qualsiasi etichetta esse portino – letteralmente!

E per il momento mi fermo qui.

Se poi volete saperne di più sul caso Louis Vuitton, vi invito a leggere l’articolo di The Guardian.
E ce n’è anche per il gruppo diretto concorrente di LVMH, ovvero Kering: leggete cosa scrive Pambianco a proposito di un’altra querelle che riguarda degli occhiali…

La butto lì: sarà forse che quello di giocare un po’ con appellativi, definizioni e cavilli sia un vizio piuttosto diffuso?
Sarà forse che – come sostengo io – il male non stia oggi solo nel fast fashion ma in chiunque si comporti con poca trasparenza?

Manu

 

Unopiù e quel nostro bisogno di armonia tra casa e paesaggio

Noi esseri umani abbiamo talvolta strane abitudini nonché atteggiamenti e comportamenti che possono risultare davvero buffi se non addirittura bizzarri.

Prendete, per esempio, il nostro rapporto con i sogni: abbiamo luoghi immaginari in cui riporli in attesa – credo – di poter fare qualcosa affinché si avverino.

In tale ottica, moltissime persone mettono i loro sogni in un cassetto: a me il cassetto comunica invece un senso di disagio, è un posto troppo statico.

Temo infatti che possa tramutarsi in un dimenticatoio nel quale i sogni finiscono per restare prigionieri, una trappola senza via di uscita nella quale vengono condannati a prendere polvere, magari in eterno.

Preferisco pensare di metterli in una valigia perché posso portarla con me, cercando di tenere così sempre ben presenti i sogni, gli obiettivi e i progetti ancora da realizzare.

Certo, questo mio bagaglio immaginario è un po’ pesante in quanto è sempre pieno e non credo che riuscirò mai a vederne il fondo, ma forse nemmeno lo voglio: avere sogni e progetti in perenne evoluzione e movimento ci mantiene scattanti e vitali. Ciò che è importante è che vengano appunto fatti girare, proprio come i capi di una valigia intelligente e ben organizzata.

Sapete, nella mia valigia c’è spazio per sogni e progetti di varia grandezza e di ogni tipo: alcuni sono particolarmente ambiziosi – e so che richiederanno molto tempo e impegno per essere realizzati – mentre altri sono più piccoli o quotidiani. Oppure sono estremamente pratici e concreti.

Tra quelli pratici, c’è il sogno di possedere un giardino, fatto che è direttamente proporzionale alla mia passione per la bella stagione, ovvero il momento dell’anno in cui mi sento rinascere proprio come una bestiola che esca dal letargo.

Pensate che c’è stato un periodo della mia vita in cui ho avuto una casa con un terrazzo talmente ampio da poter tranquillamente assomigliare a un giardino: peccato che a essere sbagliato fosse il momento in cui l’ho avuto. Pazienza, c’est la vie.

E così ora sogno un giardino, anche piccolo. Mi piacerebbe avere spazio per qualche poltroncina, per poter creare una sorta di salotto all’aria aperta, e mi piacerebbe avere lo spazio per un bel barbecue: impazzisco per carne e verdure grigliate! Leggi tutto

Christiaan van Heijst, il mondo è un po’ più bello da un aereo

Il mio amore per gli aerei è nato già nella più tenera infanzia.
Mia mamma racconta infatti un episodio che risale al mio primo viaggio con questo mezzo: avevo circa due anni e, mentre lei era bloccata al suo posto a causa della nausea, io passeggiavo tranquilla e come se nulla fosse lungo il corridoio, intrattenendo le hostess e i passeggeri, tutti divertiti da un soldino di cacio sorridente e chiacchierino, per nulla intimorito dalla situazione nuova.
Da allora, il mio rapporto con gli aerei è sempre stato appassionato: tanto detesto viaggiare in macchina (e peraltro soffro il mal d’auto) quanto adoro prendere l’aereo. Scherzando, dico sempre che lo prenderei per andare perfino da Milano a Casalpusterlengo.
E infatti i viaggi in aereo non sono certo mancati nella mia esistenza: da quelli su e giù per l’Europa fino ai voli intercontinentali tra i quali l’Australia, la Cina, il Brasile, il Vietnam, la Polinesia.

Volare non mi spaventa, anzi, mi affascina e la vita di bordo non mi mette ansia, anzi, mi diverte passare tempi anche lunghi a zonzo per il cielo.
Non ho però mai pensato di fare un lavoro connesso a tale passione (chissà come mai) e comunque, se ci avessi pensato, mi sarebbe piaciuto fare il pilota e non la hostess.

Ecco perché oggi vi racconto la storia di Christiaan van Heijst, un pilota di aerei olandese.

La sua passione è stata molto precoce: a 14 anni si dedicava già ai voli in aliante mentre a 18 anni ha preso la sua prima licenza da pilota di voli privati, perfino prima della patente automobilistica.
Ha partecipato come pilota acrobatico al Campionato Nazionale Olandese portando a casa un primo posto nella classe principianti nel 2003, all’età di 20 anni.
Oggi è 33enne e pilota Boeing 747-8 per Cargolux, una compagnia aerea cargo lussemburghese.

Ma qual è il motivo esatto per cui vi parlo di lui?

Il punto è che, tra un decollo e un atterraggio, Christiaan van Heijst non perde occasione per fotografare il mondo dalla sua cabina.

Quello dei piloti di aerei è senza alcun dubbio un punto di vista privilegiato: nuvole, fenomeni atmosferici, montagne, mari e città creano panorami inediti per chi invece vive letteralmente con i piedi per terra, spettacoli dei quali solo chi si trova all’interno di una cabina di pilotaggio può godere.
E così, dalla sua poltrona circondata di tasti luminosi e strumenti incomprensibili ai più, Christiaan non si limita a far decollare, pilotare e fare atterrare i Boeing 747: tra una pausa e l’altra, approfitta per scattare fotografie. Precisamente, splendide fotografie.
Le luci e gli interruttori che riempiono la plancia di comando nonché i panorami mozzafiato (soprattutto quelli notturni) fuori dai finestrini sono soggetti affascinanti e Van Heijst ha deciso così di condividere con il mondo intero il suo punto di vista privilegiato.

«Sin da quando ero molto giovane provavo una grande gioia nel catturare la bellezza della luce naturale in tutte le sue forme», racconta sul suo sito.
«Più tardi, ho unito questo interesse con il volo ed è emersa una nuova passione. Potendo guardare il mondo intero attraverso il mio lavoro, mi sento privilegiato per essere in grado di catturare molte parti del pianeta attraverso la mia macchina fotografica e immortalare la bellezza dei luoghi che visito».

Le sue foto sono diventate virali grazie al web e non solo: le sue immagini sono state pubblicate da riviste e media del calibro di National Geographic e BBC.
E nel 2016, Christiaan van Heijst ha pubblicato il suo primo photobook intitolato Cargopilot che attualmente è alla seconda ristampa.

Giusto per darvi un assaggio delle sue foto meravigliose, ho selezionato per voi l’immagine qui sopra presa dal suo sito e in particolare dal suo blog: è recentissima e, come scrive lo stesso Christiaan, è stata scattata «da qualche parte sopra l’Atlantico tra il Sud America e l’Africa». Ritrae il fenomeno che prende il nome di fuoco di Sant’Elmo, ovvero una scarica elettro-luminescente provocata dalla ionizzazione dell’aria durante un temporale.

Oltre che sul sito, potete trovare le foto di Christiaan van Heijst sul suo account Instagram e su Twitter.

Io lo seguirò sognando il mio prossimo volo: quest’estate tocca alla Grecia, ma per l’autunno ho in previsione nuove avventure aeree.
Certo, non avrò la stessa visuale di un pilota né possiedo il talento fotografico di Christiaan, ma il mondo dall’alto è sempre uno spettacolo impareggiabile e speciale perché, da lassù, resta solo la bellezza e spariscono tutte le cose brutte.

Manu

 

Coco Chanel: la donna oltre il mito e oltre le geniali intuizioni

Domenica ero troppo stanca anche solo per pensare di uscire.
Dopo il mio consueto allenamento mattutino in palestra, sono tornata a casa e ho deciso di regalarmi un tranquillo pomeriggio di relax casalingo.
Ho scelto alcuni libri e delle riviste, ho preso i miei fidi (e immancabili) amici elettronici (smartphone e tablet) e mi sono avventurata verso il divano.
Giusto per curiosità, ho acceso la televisione, già pronta a spegnerla nel giro di pochi attimi, certa che non avrei trovato nulla di mio gradimento: non sono una grande fan di tale mezzo, sono più i programmi che mi annoiano di quelli che mi entusiasmano.
Ma in quel caso mi sbagliavo: su Canale 5, trasmettevano infatti un film che amo particolarmente e che rivedo con piacere ogni volta in cui ne ho occasione.
Si tratta di Coco avant Chanel, film biografico del 2009 diretto da Anne Fontaine con la brava Audrey Tautou nel ruolo della protagonista.
L’avete mai visto?
Racconta la storia della grande stilista francese Coco Chanel, dalla povertà e dai primi lavori come cantante fino alla nascita della sua casa di alta moda. E, in parallelo, viene raccontata la sua più grande storia d’amore, quella con Arthur ‘Boy’ Capel, dopo la parentesi con Étienne de Balsan, primo amante e primo finanziatore.

Coco avant Chanel.
Ovvero Coco prima di Chanel.
Ovvero Coco prima di diventare Chanel.
Ovvero la donna prima ancora del mito. Prima ancora che il suo lavoro, la sua vita e di conseguenza il suo nome diventassero un mito.
Lo ammetto, è un film che mi commuove profondamente perché – appunto – racconta la donna Coco, colei che è riuscita a concretizzare il disegno che aveva in sé, testarda, ostinata, talentuosa, con una sua visione personale che ha portato avanti con forza, senza aver paura di essere diversa.
E ha pagato, Coco, eccome se ha pagato. In prima persona. Perché se a livello professionale ha realizzato la sua visione, a livello personale non è stata altrettanto fortunata, perdendo precocemente l’unico uomo che abbia mai veramente amato. Leggi tutto

We Wear Culture, dal little black dress di Coco allo street style di Tokyo

We Wear Culture: la cover della sezione dedicata al virtual tour del Metropolitan Museum of Art

Tra i tanti vantaggi del web, uno dei miei preferiti è senza dubbio quello di aver ridotto i limiti fisici e geografici.

Per esempio, possiamo stare comodamente seduti alla nostra scrivania e contemporaneamente fare ricerche grazie a luoghi virtuali, biblioteche e librerie, archivi e musei. Oppure, possiamo rilassarci sul divano mentre chiacchieriamo in live chat con persone che si trovano dall’altra parte del mondo. O ancora, possiamo fare acquisti in pochi click.

Certo, a volte tutto ciò non basta: io, in questo periodo, mi struggo per il fatto di non poter essere a New York fisicamente, precisamente al Metropolitan Museum of Art dove si sta svolgendo la mostra Rei Kawakubo / Comme des Garçons: Art of the In-Between.

Non so cosa darei per visitare l’esposizione dedicata a una delle più importanti stiliste del Novecento, colei che nel 1969 ha fondato il brand Comme des Garçons e che insieme a Yohji Yamamoto e Issey Miyake forma l’eccezionale triade giapponese che, alla fine degli Anni Settanta, ha portato un grandissimo rinnovamento nella moda.

Qui, però, torna in ballo Internet e la sua capacità di essere un mezzo che ci dà infinite possibilità che sta a noi saper sfruttare al meglio: non posso teletrasportarmi a New York, è vero, ma grazie al web posso consultare il sito del Metropolitan, godere di filmati e gallery, leggere articoli, consultare reportage.

Ed è proprio in nome di tutto ciò che, oggi, sono molto felice di parlarvi di un progetto che si chiama We Wear Culture.

We Wear Culture ovvero Indossiamo la Cultura, in quanto ben tremila anni di storia del costume e della moda confluiscono in una sorta di sfilata (o vetrina, chiamatela come preferite) che debutta online in questi giorni.

Disponibile attraverso la piattaforma Google Arts & Culture, il progetto consente di esplorare stili e look di epoche diverse nonché le storie che sono alla base degli abiti che indossiamo oggigiorno: inoltre, pezzi iconici che hanno cambiato il modo di vestire di intere generazioni vengono letteralmente fatti vivere grazie alla realtà virtuale.

L’iniziativa è frutto di una collaborazione con oltre 180 istituzioni culturali di fama mondiale: tra i nomi italiani, figura il Museo del Tessuto di Prato e una selezione di tessuti proveniente proprio dalle collezioni antiche di tale Museo è ora disponibile online. Leggi tutto

Alba Folcio, la bellezza genera bellezza, dal gioiello all’arte, senza confini

Pur essendo sempre disposta a mettermi in discussione, esistono questioni sulle quali ho invece opinioni ben salde e difficilmente modificabili: in questi casi, risulto ostinatamente e irriducibilmente convinta, cocciuta come un mulo.

Per esempio, sono fermamente convinta del fatto che solo chi ha la bellezza in sé – come inclinazione naturale e come educazione sentimentale e culturale – sia in grado di restituire altra bellezza.

Più vado avanti e più incontro persone che confermano la mia teoria e oggi desidero parlarvi di una di tali persone: vi prego, fatemi dono di un po’ del vostro tempo e vi racconto tutto, per bene e con ordine.

Come ho narrato in altri post, dal 2014 sono tra i media partner del concorso Ridefinire il Gioiello e, a ogni edizione, attribuisco un premio a un vincitore da me scelto, premio che consiste in un articolo di approfondimento.

Ridefinire il Gioiello è un progetto nato nel 2010 da un’idea dalla curatrice Sonia Patrizia Catena: negli anni è diventato un importante punto di riferimento nella sperimentazione materica sul gioiello contemporaneo e d’arte nonché un’interessante vetrina per artisti e designer.

È un progetto itinerante che promuove creazioni esclusive, selezionate dalla giuria e dai partner per aderenza al tema, ricerca, innovazione, originalità ideativa ed esecutiva: gioielli tra loro molto diversi per materiali impiegati vengono dunque uniti da un’unica tematica e per l’edizione 2016/2017 tale tematica è stata quella di libri, racconti e poesie.

I monili sono stati chiamati a diventare parole preziose, piccoli libri d’artista indossabili: frasi oppure versi sono diventati materia tangibile in grado di incantare, sorprendere, meravigliare e conquistare.

Dal 22 al 28 marzo, la sesta edizione di Ridefinire il Gioiello è stata ospite presso lo Spazio Seicentro di Milano dove sono stati presentati 41 gioielli inediti, progettati da artisti italiani e stranieri: durante la serata inaugurale, sono stati proclamati i vincitori selezionati da ogni partner.

Per quanto riguarda me, posso dire di aver accuratamente preso visione di tutti i gioielli e di aver fatto la scelta non senza difficoltà: come sempre, infatti, ho trovato parecchi lavori interessanti e, dunque, non è stato facile decidere.

Eppure, da subito, ho ristretto la selezione ad alcuni pezzi e, alla fine, mi sono lasciata guidare da diversi criteri inclusi cuore, emozione e istintività, presupposti che – a mio umile avviso – devono oggi condurci nella scelta di un monile contemporaneo. Leggi tutto

Pillole di mondo: a Vicolungo The Style Outlets leggere è di moda (evviva!)

Le piccole casette per il book sharing a Vicolungo The Style Outlets

Leggere è un piacere che ha caratterizzato costantemente tutta la mia vita, in ogni età e in ogni fase.
Non posso né potrei mai pensare di rinunciare al piacere di leggere riviste, giornali e libri: è come se fossero cari, preziosissimi, insostituibili amici. Compagni di vita, appunto.
Devo anche confessare di amare la carta, infinitamente, amo il suo profumo e il suo fruscìo: non potrei soppiantarla a favore di tablet e lettori vari che mi affascinano, è vero, e dei quali oggi faccio uso come tutti, anche se sporadicamente e per specifiche esigenze.

Quando mi chiedono di elencare i libri che preferisco, sono in difficoltà: ogni libro che ho letto è stato unico e speciale.
Ricordo con estremo affetto quelle che furono le mie prime letture di fanciulla: Cuore di Edmondo de Amicis, Piccole donne di Louisa May Alcott, i romanzi di Jules Verne che mi fecero innamorare della fantascienza.
Ricordo con altrettanto affetto la sfida che mi pose la mia insegnante di letteratura in prima superiore: vedendo quanto fossi vorace e curiosa quanto a letture, mi propose Cent’anni di solitudine, il capolavoro del Premio Nobel colombiano Gabriel García Márquez. Mi innamorai perdutamente di lui e da allora ho letto moltissime sue opere, buona parte delle quali proprio durante gli anni delle scuole superiori.

Non mi dilungo oltre su autori e titoli e aggiungo soltanto che, quand’ero in prima media, i miei genitori decisero di farmi l’abbonamento in biblioteca: costavo più in libri che non in qualsiasi altra cosa (inclusi abiti e cibo, altri due ambiti per me di forte attrazione) e il problema è che ogni nuovo volume mi bastava per pochi giorni soltanto.
Non so dare voce all’emozione che provai quando un paio di anni dopo, non più paga della sola struttura di zona, conquistai la tessera della Sormani, la meravigliosa biblioteca centrale di Milano.
Ogni volta in cui entravo in quel luogo, avevo l’impressione di mettere piede in un tempio sacro, in un edificio di culto: in fondo, in biblioteche e librerie non si celebra un culto, quello della curiosità e della conoscenza?

Ecco, ora c’è un altro luogo nel quale celebrare l’amore per i libri ed è un luogo al quale molti non avrebbero forse pensato: un outlet.

A lanciare tale scommessa è il gruppo The Style Outlets che ha deciso di introdurre la pratica del book sharing nella propria struttura di Vicolungo, in provincia di Novara.

La pratica del book sharing, letteralmente condivisione di libri, incontra la mia più grande approvazione in quanto è un ottimo modo per far circolare liberamente e disinteressatamente la cultura: ognuno può recarsi in angoli appositamente creati a tale scopo – in genere cabine o casette – per donare o prelevare un libro senza alcun vincolo, nemmeno quello di restituire il volume.

Dopo aver sperimentato con ottimi riscontri il bike sharing per i più piccoli, il gruppo The Style Outlets punta ancora una volta al coinvolgimento e all’intrattenimento delle persone andando oltre lo shopping e allestendo un servizio per la raccolta e la distribuzione gratuita di libri: per scoprire (o riscoprire) il piacere della lettura basta portare con sé un libro, depositarlo in una delle piccole casette installate accanto all’Info Point e sceglierne un altro.

L’outlet di Vicolungo (a settembre sarà la volta di quello di Castel Guelfo, in provincia di Bologna) presenta inoltre un calendario di interviste e reading session con autori e personaggi accomunati dal talento letterario nonché da pubblicazioni di successo.

A inaugurare l’iniziativa sabato 27 maggio è stata Sofia Viscardi intervistata da Luca Bianchini e Franco Bolelli: 18enne, autrice del successo editoriale Succede, Sofia ha parlato di amori, amicizia e relazioni.

Domani, sabato 3 giugno 2017, a partire dalle 17, toccherà a Cristina Chiperi: giovanissima eppure già fenomeno editoriale, Cristina è l’autrice della trilogia My dilemma is you.

Sabato 17 giugno 2017, sempre dalle 17, sarà invece la volta di Benedetta Parodi che leggerà alcuni brani tratti dai suoi libri Le fate a metà, ciclo di tre romanzi per bambini… di tutte le età.

Ho raccontato tante volte che le suddivisioni rigide come compartimenti a tenuta stagna non mi piacciono: mi piacciono invece le commistioni e le contaminazioni e credo fermamente che la cultura abbia molte forme e che dovrebbe essere accessibile a tutti.

Conseguentemente, il mix tra shopping e libri mi piace molto e apprezzo che il gruppo The Style Outlets pensi che lo shopping possa essere affiancato da forme gratuite di intrattenimento diversificato.

Ecco perché ho voluto sostenere questa iniziativa parlandovene e, visto che Vicolungo è un outlet che ho visitato più volte, la prossima volta avrò un ulteriore buon motivo per tornarci.

Manu

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