Due miei piccoli ritrovamenti vintage, l’occasione per parlare di chatelaine

In un articolo precedente, ho mostrato un ritrovamento fatto grazie alle ricerche che ho condotto il mese scorso nei mercatini francesi, in occasione delle vacanze. Si tratta di sei numeri datati 1939 – 1940 della rivista Marie Claire e, mostrandoli, avevo promesso che avrei poi condiviso altri ritrovamenti.

Eccomi qui a mantenere quella promessa.

Si tratta di due piccoli oggetti in argento, ovvero un pettinino da barba e una micro matita.

Sono – a mio avviso – entrambi molto affascinanti. Raccontano abitudini del passato e anche un certo gusto per oggetti pratici e, allo stesso tempo, esteticamente belli e curati. Notate i motivi squisitamente intagliati.

Oggi desidero soffermarmi soprattutto sulla matita in quanto faceva parte di un oggetto meraviglioso chiamato chatelaine o châtelaine, per usare la precisa dicitura francese.

Si tratta infatti del termine francese con cui si indicava la “signora del castello”, derivante a sua volta dal latino. Leggi tutto

1939 – 2023, 84 anni di storia della moda e dell’editoria grazie a Marie Claire

1939 – 2023: 84 anni di storia della moda e dell’editoria grazie alle ricerche che ho condotto in alcuni mercatini in Francia, durante le mie vacanze, e che mi hanno permesso di trovare sei numeri di Marie Claire che vanno da gennaio 1939 a febbraio 1940.

Conoscete la storia di Marie Claire?

Il giornale viene lanciato nel 1937, in Francia, co-fondato da Marcelle Auclair, giornalista e scrittrice. Il nome è ispirato dal romanzo Marie-Claire di Marguerite Audoux.

La distribuzione si interrompe nel 1942, quando le truppe tedesche aboliscono la stampa dei giornali locali, e riprende nel 1954.

Oggi Marie Claire è una delle riviste con il maggior numero di edizioni internazionali.

In Italia arriva negli Anni Sessanta e la formula non si discosta da quella originale francese: moda, attualità, bellezza e rubriche per una donna emancipata e anticonformista. Leggi tutto

La tuta da Thayaht ai giorni nostri, un capo che non invecchia mai

Vi faccio una confessione, miei cari amici.
Anche in veste di docente, provo grande dispiacere quando riscontro poco interesse verso la storia del costume da parte di quei giovanissimi che frequentano le accademie di moda.
Ebbene sì, capita, e se mi dispiace è perché credo che sia per loro un’occasione persa: chi studia la moda e ambisce a diventare un professionista in tale settore deve invece essere molto interessato ad acquisire quegli strumenti preziosi che permettono di leggere il passato per interpretare il presente e immaginare o progettare il futuro.
Credo che l’equivoco di base sia considerare la storia come qualcosa di polveroso se non morto, mentre al contrario la storia vive ed è una grande maestra proprio perché, se letta e padroneggiata con attenzione e passione, ci offre grandi possibilità.
Anche perché la storia della moda ha una caratteristica significativa: è ciclica ed è molto spesso fatta di ritorni e reinterpretazioni, dunque sorrido quando magari si considera rivoluzionario e moderno qualcosa che in realtà esisteva già secoli scorsi (o anche più, come nel caso di capi che risalgono a Greci, Romani, Egizi) e che qualche stilista contemporaneo ha più o meno semplicemente rielaborato e riproposto.
C’è perfino qualcuno che ha considerato ‘diavolerie moderne’ cose che esistevano già mille e più anni fa, come per esempio il costume a due pezzi (certo esisteva in una forma diversa, come ho raccontato e mostrato qui).
Ebbene sì: dobbiamo molti dei capi che indossiamo ancora oggi a geniali creatori che li hanno pensati tanti anni fa, magari… cento anni fa.

Non scrivo il numero a caso ma prendendo come esempio la tuta: avevo promesso in un post recente di tornare a parlarne ed eccomi qui a mantenere la promessa.

Tornare a parlarne, sì, perché avevo già accennato alla storia della tuta in un post del 2016 dedicato al lavoro di Francesca Fossati.
Ora, però, ho voglia di raccontarvela proprio bene, perché la tuta (overalls / dungaree / jumpsuit per chi preferisce l’inglese o ancora salopette per chi ama il francese) ha una genesi davvero interessante e che riesce a fondere tanti diversi elementi.

Vi dico subito il nome di colui al quale si può attribuire la paternità della tuta: si tratta dell’artista italiano Ernesto Michahelles (1893 – 1959). Leggi tutto

Off the shoulder, la scollatura che non passa MAI di moda

Off the shoulder: un’espressione che significa semplicemente spalle scoperte e che indica pertanto tutti quegli abiti, top e camicie che lasciano liberi collo e spalle.

Vi confesso che, all’espressione in lingua inglese, io preferisco di gran lunga l’equivalente italiano che, a mio avviso, è più evocativo ed eloquente: scollo omerale, ovvero che accarezza e lascia vedere l’òmero, l’osso lungo del nostro braccio, o meglio ancora la sua parte superiore, quella che lo unisce a scapola e clavicola, anch’essa lasciata libera da detta scollatura.

Scollatura che, da qualche stagione, è tornata di gran tendenza: provate a digitare chiavi come off shoulders top oppure off shoulders dress su Google e vi imbatterete in una infinità di risultati.

Avrete notato che ho (appositamente) scritto tornata: come in molti altri casi, infatti, questa tendenza non è affatto nuova ma è, al contrario, uno dei tanti corsi e ricorsi della moda.

Senza andare neanche troppo indietro, possiamo per esempio trovare testimonianze ben precise di questo tipo di scollatura in tutto l’Ottocento.

Come già saprà chi è appassionato di storia della moda, nel periodo della Restaurazione (il processo di ristabilimento del potere dei sovrani assoluti in Europa, tra il 1814 con il Congresso di Vienna e i moti del 1830-1831), si diffuse una moda dagli indumenti pesanti, rigidi e fastosi: le donne indossavano il corsetto o bustino e, per dare l’impressione di avere la vita ancora più sottile, si abbinavano gonne a campana, allacciate alla cintura e svasate sul fondo.

La mania per l’ampiezza della gonna divenne così eccessiva da raggiungere dimensioni e peso insostenibili, al punto di dover ricorrere a un supporto utile a sorreggere il volume dell’abito: la crinolina. Leggi tutto

La Piccola Fabbrica dei Mostri (mostri?) di Stefano Prina tra arte e gioiello

Se la memoria non mi tradisce, era il 2015 quando, camminando lungo via Pontaccio a Milano, nel pieno cuore di Brera, il mio sguardo fu attirato dalla vetrina di un atelier di gioielli.
In particolare, il mio sguardo fu calamitato… da altri sguardi: in vetrina, infatti, troneggiava una ciotola carica di stupendi anelli nei quali, al posto di una pietra o di un cristallo, a fare bella mostra erano degli occhi di tanti colori e in varie misure.

Entrai nel negozio e chiesi informazioni, ma non acquistai (scioccamente) nessun anello; tornai tempo dopo, non ricordo di preciso quando ma, con mio grande disappunto, scoprii che gli anelli non c’erano più.
C’era tuttavia una commessa molto gentile che capì a cosa mi stessi riferendo a mi lasciò un biglietto da visita di Stefano Prina, il creatore degli anelli.

Non so se a qualcuno sia capitato di leggere un mio post datato 2016 nel quale ho confessato tutto il mio amore – o, se preferite, la mia fissazione – verso l’occhio e i suoi significati: già allora avevo iniziato a tenere d’occhio (è proprio il caso di dirlo…) tutta una serie di designer il cui lavoro verte su questo dettaglio non solo anatomico e proprio in quel testo inclusi anche gli anelli di Stefano Prina.

Il suo biglietto da visita preso in via Pontaccio è sempre rimasto tra quelli in sospeso sulla mia scrivania: c’è voluto Internet e precisamente Instagram perché le nostre strade si incrociassero nuovamente.
Attraverso l’account di una persona con la quale mi interfaccio, ho visto un anello: ho seguito il tag, ho confrontato il nome con il biglietto da visita e ho avuto conferma che sì, si trattava dello stesso artista e degli stessi anelli dei quali mi ero già innamorata.
Da allora ho iniziato a seguire Stefano attraverso il suo account Instagram e a mettere tanti like alle sue creazioni: gli ho scritto chiedendo informazioni e infine, poco prima di Natale, sono andata a trovarlo nel suo studio-laboratorio.
Gli ho raccontato come l’avessi seguito e ritrovato negli anni da quel primo incontro in via Pontaccio: per fortuna, lui ha capito che non solo una stalker, ma solo una collezionista appassionata e un po’ pazzerella.

Ma volete sapere perché gli occhi mi colpiscono tanto? Leggi tutto

E come Emanuela o egocentrica? Viaggio dalle iniziali al monogramma

Ricordo perfettamente un episodio della mia adolescenza e lo ricordo perfettamente come se risalisse a ieri e non, invece, a molti anni fa.
Eravamo all’inizio dell’anno scolastico e, forse per rompere un po’ il ghiaccio dei primi giorni di studio dopo le lunghe vacanze estive, la professoressa di letteratura ci diede da fare un tema nel quale dovevamo parlare di noi stessi.
Ne ero intrigata e ricordo come iniziai: «amo parlare di me stessa con i miei difetti e i miei pregi».
Ricordo perfettamente il foglio protocollo a righe diviso in due colonne, quella di sinistra dove scrivevamo noi e quella di destra che serviva per le correzioni della professoressa; ricordo il mio orgoglio nel portare a casa quel foglio da far vedere alla mia mamma, come si faceva allora; ricordo l’orgoglio per il bel voto vergato in rosso; ricordo le parole di mia mamma che mi raggelarono.
«È davvero un bel tema, ma iniziare con quelle parole è decisamente un po’ egocentrico.»
Ci rimasi malissimo.
Perché tenevo al suo parere e mi dispiaceva che potesse pensare che io fossi egocentrica.
E perché mi sentivo incompresa.
Non volevo certo essere egocentrica e non avevo minimamente pensato che quelle parole («amo parlare di me stessa») potessero dare (giustamente…) una simile idea di me: ero in buona fede e, abituata da sempre a tenere un diario, volevo semplicemente dire che ero felice di poter condividere me stessa e i miei pensieri. Ma mi spiegai malissimo, me ne rendo conto, e mi vergognai anche pensando a come doveva aver sorriso la mia professoressa (che tanto stimavo) leggendo quelle mie parole che, sul foglio, risultavano tanto differenti dalle mie reali intenzioni…

Quel giorno, imparai un’importante lezione, anzi, due.
La prima è quanto sia grave una cattiva comunicazione e quanto sia importante scegliere con estrema cura le parole che usiamo. La verità, infatti, non è che non ero stata compresa: ero io che non avevo saputo spiegarmi.
La seconda lezione è che dovevo fare del mio meglio per tenere a bada quel certo ego che (quasi) tutti noi abbiamo, perché tutto desideravo tranne che diventare una di quelle persone che si sentono al centro del mondo, poiché in me, da sempre, esiste una volontà più forte: aprirmi al mondo e condividere.

Ed eccomi qui, parecchi anni dopo, a ricordare e a raccontare un piccolo episodio che è in realtà è diventato un monito importante del quale credo di aver fatto tesoro.
Nel frattempo, la comunicazione è diventata il mio mestiere e non ho mai smesso di controllare costantemente che il mio ego (indubbiamente forte ma credo e spero non a livello patologico…) non prenda mai il sopravvento su alcuna delle cose di cui mi occupo, nel privato e nel lavoro.
Prendete questo blog: l’ho aperto proprio per condividere tutto ciò che amo con gli altri e certo non per un mio personale tornaconto bensì per l’amore sincero verso persone e progetti che stimo. Ho voluto appositamente che il centro e la protagonista di tutto ciò non fossi io, ma persone, cose, marchi, progetti che sono sì visti con i miei occhi ma che restano (e devono restare) i protagonisti. Per questo, molto raramente, i post si incentrano su di me: me lo concedo in occasione del mio compleanno e poche altre volte (come in un ciclo che ho scherzosamente denominato Manie vs mio archivio).

Non solo, come altre persone che desiderano tenere a bada i propri difetti, anch’io adotto piccoli trucchi in tal senso: una strategia molto comune è quella di lasciare che il difetto in questione si espanda in una piccola mania tutto sommato innocente.

Volete sapere la mia? La personalizzazione di oggetti con il mio nome o iniziali o monogramma o, ultimamente, con Agw, ovvero l’acronimo del nome del blog.

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Si vede il marsupio? Ricordi Anni Ottanta – Novanta alla riscossa!

Io e il marsupio in un ritratto firmato da Valentina Fazio – grazie

Se, come me, avete vissuto in prima persona gli Anni Ottanta e gli Anni Novanta, sicuramente ricorderete anche voi un accessorio che riporterà subito alla mente quel periodo, nel bene e nel male: il marsupio.

Già, se siano ricordi positivi o negativi, se fosse successo oppure flop, lascio che siate voi a deciderlo: io mi limito a confermarvi ciò che sicuramente avrete già notato da soli.
Ebbene sì, la moda si è innamorata del marsupio ed è grande amore tra un accessorio sicuramente controverso e i marchi dell’industria moda, da quelli più blasonati a quelli del fast fashion.

Ed era controverso soprattutto il marsupio dei già citati Anni Ottanta – Novanta: era un aggeggio un po’ ingombrante e goffo, pensato più per assolvere a una funzione pratica che non per averne una estetica e dunque veniva spesso proposto in tessuti tipo nylon non esattamente accattivanti nonché in colori spesso esageratamente vistosi…

Cosa sia il marsupio è del tutto superfluo spiegarlo così com’è piuttosto scontato spiegare il motivo del suo successo e della sua diffusione: è comodissimo, lascia libere le mani e soddisfa anche i requisiti di sicurezza in quanto consente di portare addosso, in posizione comoda e ben accessibile, i nostri effetti personali. È quasi impossibile da scippare, contrariamente alla borsa appoggiata alla spalla o portata a mano; rispetto allo zaino, indossato sulle spalle almeno nel suo uso più classico, offre invece la possibilità di posizionare il carico in posizione frontale, sempre a favore del senso di sicurezza.

D’altro canto, come in molti altri casi, anche in questo l’essere umano non ha inventato nulla, ma ha piuttosto tratto ispirazione dalla Natura visto che esiste una classe di mammiferi che prende il nome di marsupiali e comprende simpatiche bestiole quali i canguri e i koala.

Ma se nella femmina del canguro è presente una tasca addominale dove i piccoli, che nascono precocemente a causa della scarsa funzionalità della placenta, completano il loro sviluppo sotto la protezione materna, l’essere umano – che spesso cede a tentazioni più utilitaristiche e meno poetiche, diciamo così – ha pensato di copiare il marsupio per portare oggetti quali soldi, documenti, chiavi di casa e via discorrendo. Ah, cellulare!

Ma dicevo che il problema del marsupio umano (e forse anche il motivo della sua sparizione per quasi due decenni) è la goffaggine nonché l’essere ingombrante: ecco che i marsupi di nuova generazione risolvono anche questi problemi, diventando più piccoli pur restando capienti e soprattutto diventando più aggraziati e accattivanti poiché scelgono di strizzare l’occhio anche alla funzione estetica. Uno di quei casi, insomma, in cui funzione e forma si prendono amichevolmente a braccetto, evviva!

Il marsupio 2018 risulta così vincente per due caratteristiche principali: versatilità e, appunto, estetica.

Versatilità perché, adesso, si può indossare in tanti modi diversi: come dicevo, il marsupio classico si portava in vita o sui fianchi, mentre i modelli più attuali conservano la caratteristica di essere portati a corpo ma si possono portare anche crossbody (ovvero a tracolla in modo trasversale) oppure, nella posizione classica, assolvono alla funzione che appartiene anche alle cinture, ovvero possono creare un punto vita laddove non c’è e perfino su giacche e cappotti. Ancora, si possono agganciare ai passanti di gonne, pantaloni e jeans oppure possono essere dotati di una cinghia che diventa tracolla e li trasforma in piccole borse, rendendoli così accessori dalla doppia anima.

Estetica perché i marsupi non sono più da nascondere, anzi, al contrario, sono da esibire con disinvoltura perché, oltre a essere utili, sono diventati visivamente piacevoli e dunque completano l’outfit: insomma, l’accessorio un po’ trash e un po’ kitsch della moda Anni Ottanta – Novanta diventa invece un oggetto desiderabile e non importa che sia di una grande firma o di un marchio low cost. Ciò che conta è che abbia un’impronta contemporanea per colori, materiali e dettagli.

A proposito… ma com’è tornato in auge il marsupio?
Anche se l’estate che stiamo vivendo pare essere il suo momento di trionfo, in realtà le prime avvisaglie risalgono almeno al 2017.
Tra i primi a proporlo c’è stato Kim Jones, all’epoca designer di Louis Vuitton (e oggi creative director di Dior Homme): a gennaio dello scorso anno, Jones ha riproposto il marsupio da uomo in una versione logata in collaborazione con Supreme, uno dei marchi culto più amati dai giovanissimi.
Da quel momento, il marsupio è apparso di nuovo in molte sfilate uomo e donna: a proporlo, nomi del calibro di Valentino, Armani, Gucci e poi Kenzo, Stella McCartney, DKNY, Marni, ognuno dando una propria interpretazione.

In fondo, la storia del marsupio non è recente e varie forme sono rintracciabili dalla preistoria lungo tutto il Medioevo fino ad arrivare alle tenute militari, incluse quelle delle due Guerre Mondiali del Novecento: occorreva arrivare all’epoca di Instagram perché il marsupio, accessorio amato per esempio da turisti e viaggiatori quanto finora odiato dal fashion system, conquistasse a sorpresa le passerelle di moda e, contemporaneamente, i cosiddetti influencer, prendendosi la propria grande rivincita, sebbene al costo di cedere anch’esso a velleità estetiche e non più solo puramente funzionali.

Come sempre, però, attenzione agli eccessi: in tempi moderni, rischiamo spesso di estremizzare capi e accessori che dimostrano di avere successo.
Sto pensando, per esempio, alla ciabatta marsupio: ebbene sì, il colosso Nike ha annunciato l’intenzione di reinterpretare il suo classico modello di ciabatta, la Benassi, in una nuova versione che fonde due degli accessori più desiderati del momento e che – fino a non molto tempo fa –  non erano certo considerati tra i più cool…

Immaginate una ciabatta (o slider) tipo piscina e immaginate che la striscia che fascia il piede abbia una zip e che nasconda una piccola tasca per riporre monete, chiavi o magari un badge.
Nelle ultime stagioni, la moda ha ridato mordente a ciabatte e marsupi e, complici gli stilisti che li hanno proposti sulle loro passerelle, li ha attualizzati: eccoli ora di nuovo in auge e, con un colpo di genio (genio del bene o del male?), Nike annuncia l’unione dei due accessori, fusi in un unico nuovo dirompente oggetto che sembrava pronto a conquistare (o colonizzare…) l’estate 2018.
E invece, a oggi, nonostante annuncio e vari articoli (perfino da parte del blasonatissimo Vogue…), sul sito ufficiale di Nike non se ne trova traccia: che siano rinsaviti (ehm…), cioè, che abbiano cambiato idea?

Ai posteri l’ardua sentenza, mentre io confesso il mio peccato: ebbene sì, da brava teenager di fine Anni Ottanta – inizi Novanta, non ho potuto che gioire del ritorno del marsupio dal look rifatto.

E l‘ho adottato abbondantemente: già quest’inverno, il primo è stato un marsupio nero con piccole borchie color oro (qui, qui, qui).
Subito dopo, ne è arrivato uno rosso, piatto, con macro borchie argento (qui, qui, qui, qui, qui).
Ne ho anche uno azzurro in pelle che ha doppia funzione, marsupio e borsa (qui), e ne ho un altro nero, piccolo quanto una sorta di tasca (qui, qui, qui).
E infine ne è arrivato un ultimo, il quinto (per ora…), molto simile a quelli dei miei anni adolescenziali, ma con due differenze fondamentali: lo vedete nella foto qui sopra, si porta crossbody, proprio come vuole la tendenza più contemporanea, ed è tutto glitterato (qui, qui, qui) come piace a me, piccola glittering woman 😀 😀 😀

In tutto ciò, mi viene in mente una cosa: qualcuno ha pensato di intervistare Giorgio Panariello chiedendogli il suo parere circa il ritorno del marsupio?
Nella galleria degli ironici personaggi caricaturali inventati dal famoso attore toscano (e inseriti anche nel suo film Bagnomaria del 1999), figura infatti anche Pierre, animale da discoteca tutto marsupio e poco cervello, dotato di un look eccessivo e diventato famoso per lo slogan «Si vede il marsupio???».
E bravo Panariello che, con grande ironia, ha fatto del marsupio un punto cruciale, comprendendo il suo ruolo di oggetto sintomo di un micro fenomeno di moda e dunque anche sociale: nel mio piccolo, non potevo che rendergli omaggio con il titolo di questo post a sua volta sospeso tra serio e faceto 😉 🙂

Oggi più che mai, vale il suo tormentone «Si vede il marsupio???» e accertatevi che la risposta sia 😀

Manu

Maneki neko, il gatto tra leggenda, cultura popolare e dieci curiosità

Non sono mai stata una persona superstiziosa, anzi, diciamo che le superstizioni mi infastidiscono.

Mi infastidisce che si dica che il viola porti male anche se conosco e capisco l’origine di tale superstizione (ne ho parlato qui) che oggi non ha comunque più alcun motivo di esistere; mi infastidisce ancor di più che si dica che una persona o un animale (poveri gatti neri!) portino male.

Forse, disprezzo le superstizioni (e non parlatemi di malocchio) perché credo che i fautori del nostro destino siamo esclusivamente noi stessi e perché credo che se e quando esistono casi, combinazioni, fortune e sfortune, siamo noi stessi a metterli in moto con le nostre azioni.

L’unica cosa in cui un poco credo è che i sentimenti positivi generino belle energie, mentre è il contrario con quelli negativi: è per questo che sto cercando di imparare, nel tempo, a tenere lontane persone e sentimenti negativi.

Come molti, invece, ho anch’io dei piccoli gesti scaramantici un po’ infantili.

Di solito, se riesco a connettere quando suona la sveglia, metto giù il piede destro dal letto e lo faccio da quando sono ragazzina.

E quando salgo le scale di casa, mi diverto talvolta a mettere i piedi al centro delle piastrelle senza calpestare i bordi. Sì, proprio come fanno i bambini.

Ma nulla che confini con la superstizione, per carità: non credo assolutamente che succeda qualcosa se metto giù dal letto il piede sinistro per primo né se calpesto il bordo della piastrella, sono solo giochetti con me stessa, modi per spronarmi da sola ma sui quali prevalgono sempre ironia e sense of humour.

Nonostante io non sia superstiziosa, da tempo amo però collezionare piccoli oggetti – soprattutto monili – che sono comunemente considerati dei portafortuna: la spiegazione è puramente imputabile alla mia passione per gli oggetti che hanno un senso, un significato, una storia da raccontare.

Questa estate, per esempio, in Grecia, ho fatto incetta di due simboli che amo da sempre: la Mano di Fatima (nota anche come Hamsa o Khamsa o Mano di Miriam a seconda della religione musulmana, dei cristiani d’oriente o ebrea) e l’Occhio di Allah spesso semplicemente chiamato Evil Eye.

Fermo restando il mio assoluto rispetto per tutte le religioni, il mio interesse verso questi due simboli è quello di una persona curiosa (di significato, origini e storia) e, conseguentemente, il mio resta un approccio da collezionista appassionata ma non credente. Qui, qui e qui potete vedere alcuni dei miei acquisti, braccialetti e anelli.

Aggiungete a tutto ciò una mia passione (mania…) per l’occhio di per sé stesso che colleziono in ogni forma (ne avevo già parlato qui) et voilà, il gioco è fatto. In fondo, non è un caso se molte civiltà hanno attribuito all’occhio moltissimi significati.

Ultimamente, mi sono appassionata a un nuovo amuleto: il maneki neko, letteralmente gatto che chiama, noto anche come gatto che dà il benvenuto, gatto della fortuna oppure gatto del denaro. O, se preferite l’inglese, lucky cat o fortune cat.

Sicuramente l’avrete visto, è una diffusa scultura giapponese, spesso fatta di porcellana o ceramica (ma ne esistono in plastica, legno, cartapesta, argilla, giada, oro), che rappresenta un gatto con una zampa alzata: si ritiene porti fortuna e per questo motivo si trova molto spesso negli esercizi commerciali e nei ristoranti orientali.

Avete letto bene, ho scritto giapponese: nonostante sia onnipresente nelle varie attività cinesi, l’usanza nasce in realtà in Giappone. Leggi tutto

Un anello anzi mille: perché amo tanto gli anelli / seconda parte

Era il 22 dicembre 2016, quasi un anno fa, quando ho pubblicato un post dedicato a una parte della mia enorme collezione di anelli.

L’anello è un monile che mi affascina a tal punto che, per esempio, ho scritto un articolo per SoMagazine raccontando alcune delle tante declinazioni possibili perché, tra tutti gli oggetti che hanno funzione ornamentale, gli anelli sono forse i più ricchi di significati, sia quelli che scegliamo per noi sia quelli che regaliamo.

Ma né un anno fa nel mio primo post fa né tanto meno oggi ho alcuna intenzione di fare un trattato serio attorno agli anelli (non che quel mio articolo per SoMagazine avesse la pretesa di essere ciò, era solo un piccolo excursus tra storia e curiosità che, tra l’altro, un giorno mi piacerebbe riprendere, approfondire e sviluppare).
Comunque, oggi desidero piuttosto parlarvi del mio rapporto emozionale con gli anelli e ancor di più condividere semplicemente ulteriori foto.

I gioielli in generale e gli anelli in particolare sono pezzi di noi, della nostra vita, del nostro cuore, di momenti speciali e significativi, di chi ce li ha donati e, in alcuni casi, di chi li ha fatti per noi, così come mi capita con alcuni dei designer dei quali ho avuto la fortuna e l’onore di scrivere.

Un anello, per esempio, è spesso veicolo di ricordi e di legami. Leggi tutto

Arm party: la festa è proprio qui, sulle nostre braccia

L’estate è per eccellenza la stagione in cui tornano trend e mode che possiamo considerare veri e propri tormentoni.

Ogni estate ha il motivo musicale che la caratterizza diventando un po’ croce e un po’ delizia (un tormentone, appunto): parallelamente, è la stagione in cui tornano tutti quei trend che farebbero esclamare «avanguardia pura» alla protagonista di una famosa pellicola.

Ricordate Miranda Priestly nel film Il diavolo veste Prada? È così che la temibile e influente direttrice della rivista di moda Runway – proprio esclamando «avanguardia pura» – reagisce davanti alla proposta di una collaboratrice di realizzare un servizio in stile floreale per la primavera.

Oltre allo stile floreale, credo che desterebbero in Miranda la stessa reazione le borse e i cappelli di paglia, i capi a righe o a pois o a quadretti Vichy, le espadrilles o espadrillas. E potrei continuare.

Sì, perché tutti questi capi, accessori o fantasie tornano ciclicamente nei nostri armadi e io oserei affermare che più che rappresentare dei trend stagionali sono ormai diventati dei classici senza tempo di cui ogni tanto la moda torna a innamorarsi, come farebbe un’amante capricciosa.

Oltre a ciò che ho già citato, aggiungerei quello che le cosiddette trendsetter chiamano arm party. Leggi tutto

Il rosso? Lo amo e lo porto perché supera le mode e dà energia!

Quando mi chiedono quale sia il mio colore preferito sono sempre un po’ in imbarazzo.

Perché? Perché la risposta è piuttosto articolata.

Prima cosa, vado a estro (o follia…) del momento: succede che, per intere settimane, io non riesca a liberarmi del nero, mentre capitano periodi in cui vesto in maniera piuttosto colorata. Passo da un estremo all’altro, insomma, come mi capita spesso e in diversi ambiti: mai mezze misure, io!

C’è da dire che, anche quando sono nel periodo total black, in genere riservo comunque al colore qualche piccolo spazio o almeno un accenno, per esempio attraverso qualche accessorio.

Sono dunque una persona che ama il colore in generale e che non può farne a meno, sia anche solo a piccole dosi.

E tra i colori non ne ho uno preferito in particolare: mi è capitato di scegliere capi e accessori azzurri, verdi, gialli, arancioni. Amo perfino il viola (tanto!), tinta disdegnata da molti: non sono minimamente superstiziosa.

Se devo invece indicare un colore che non mi è particolarmente gradito, devo ammettere che negli ultimi anni faccio molta fatica a portare il marrone: è strano, anni fa mi piaceva e lo indossavo, spesso e volentieri. Leggi tutto

Il ventaglio: solo vezzo e aria fresca? O c’è di più? (Buona la seconda)

Amo la bella stagione.

Della primavera e dell’estate amo praticamente tutto, ogni loro singolo manifestarsi.

Amo i ritmi che portano.
Amo i colori, i profumi, i sapori.
Amo la luce e amo il fatto che le giornate durino più a lungo.
Amo le serate fuori e le cene conviviali all’aperto. Amo i pranzi sotto le pergole.
Amo i cibi che si consumano d’estate, dai barbecue fino alla frutta, colorata, saporita, allegra.
Amo le vacanze o anche solo le gite al mare, perché d’estate sembra tutto più semplice, perfino essere felici sembra più a portata di mano. E di cuore.

Solo una cosa non mi piace: quando l’afa si fa esagerata e – conseguentemente – ci rende paonazzi, rossi come peperoni troppo arrostiti.
Ciò non è piacevole, lo ammetto, anzi, è piuttosto imbarazzante.

Un po’ per combattere questo inconveniente e un po’ perché amo le vestigia del passato (quando corrispondono a belle abitudini che valga la pena di conservare), parecchi anni fa ho iniziato a collezionare e usare i ventagli.

Non ricordo se io abbia fatto di necessità virtù, come si suol dire, ovvero se abbia iniziato per avere con me uno strumento che possa combattere il caldo o se sia stata semplicemente attratta dalla loro bellezza, dalla loro storia e dai loro molteplici significati.

Sia l’una o l’altra opzione, sta di fatto che, negli anni, ho messo insieme diversi ventagli di vario tipo. Leggi tutto

Vi racconto (e vi mostro) perché amo tanto gli anelli

Mi diverto da sempre a scattare foto dei bijou che possiedo: da qualche anno, condivido dette foto soprattutto su Instagram e in particolare mi diverte pubblicare quelle dei miei anelli.

Tali monili mi affascinano a tal punto che, per esempio, ho scritto di alcune delle loro declinazioni possibili per SoMagazine, una delle testate con le quali collaboro: tra tutti gli oggetti che hanno funzione ornamentale, gli anelli sono forse i più significativi, sia quelli che scegliamo per noi sia quelli che regaliamo.

Ma oggi non ho intenzione di fare un trattato serio (non che quel mio articolo avesse la pretesa di essere ciò, era solo un piccolo excursus tra storia e curiosità che, tra l’altro, un giorno mi piacerebbe riprendere, approfondire e sviluppare): oggi desidero parlarvi più che altro del mio rapporto emozionale con gli anelli e condividere alcune di quelle foto che ho menzionato.

Qualche settimana fa, in un altro post, ho scritto che, per riuscire a catturare la mia attenzione, un gioiello – qualunque esso sia, più o meno prezioso – deve possedere carattere: deve essere in grado di trasmettermi una sensazione, un’emozione, deve affascinarmi, stupirmi, incuriosirmi, sorprendermi, divertirmi.

Deve coinvolgermi, insomma: non apprezzo i gioielli anonimi, scontati, banali e dunque noiosi. Guai, poi, a una mia reazione neutra o indifferente davanti a una creazione. Leggi tutto

A me gli occhi, dal National Geographic agli anelli di Alysha Laurene

Dovete sapere che, tra le mie tante e diverse passioni, nutro da sempre interesse e curiosità nei confronti della scienza e della divulgazione scientifica. Quando nel 1998 nacque la versione italiana di National Geographic, fui una dei primissimi abbonati.
Tra le numerose declinazioni della scienza, mi attrae fortemente la biologia e, in particolare, sono affascinata dal funzionamento del corpo, umano e animale: recentemente, proprio il National Geographic ha catturato il mio interesse grazie a uno splendido articolo firmato da Ed Yong a proposito di occhi e vista.
I cinque sensi sono gli strumenti attraverso i quali esploriamo il mondo e, tra di essi, la vista è per me fondamentale, è il senso su cui faccio più affidamento: sono letteralmente ossessionata dagli occhi e da qualsiasi cosa li riguardi, così ho divorato l’articolo scoprendo moltissime cose, per esempio che, d’istinto, siamo portati a pensare che gli animali vedano come noi.
In realtà, se si va a studiare la loro visione, si scopre che non è così. E d’altra parte, pur avendo tutti quanti lo stesso sistema visivo, noi esseri umani vediamo in modi diversi a causa di fattori che vanno dalla densità di coni e bastoncelli nella retina fino all’integrazione sensoriale del nostro cervello.
Si può insomma affermare che gli occhi siano tra gli organi più diversificati esistenti in natura: il perché di tanta diversità è da ricercare nell’evoluzione nonché nelle più disparate esigenze di ogni singola specie.
Vi faccio qualche esempio tratto dall’articolo.
La sfinge della vite (Deilephila elpenor) ha occhi eccellenti per raccogliere le minime tracce di luce e fanno sì che l’animale possa distinguere i colori dei fiori carichi di nettare anche solo al tenue bagliore delle stelle.
Gli occhi dell’aquila di mare testabianca (Haliaeetus leucocephalus) hanno un potere di risoluzione eccezionale: due volte e mezzo quello degli occhi umani. Hanno retine con due regioni ad alta densità di fotorecettori (noi ne abbiamo una sola) e vedono davanti e di lato contemporaneamente.
La cubomedusa (Tripedalia cystophora) è larga solo 10 millimetri ma ha ben 24 occhi, alcuni semplici sensori di luce, altri dotati di lenti in grado di mettere a fuoco: un contrappeso mantiene l’occhio superiore puntato sempre in alto per individuare cibo e rifugio.
L’occhio sinistro del calamaro Histioteuthis heteropsis è grande il doppio del destro, guarda verso l’alto ed è ideale per individuare prede con la luce che viene da quella direzione: l’occhio più piccolo punta invece in basso, verso l’oscurità, per individuare prede e predatori bioluminescenti.
Il mantello della capasanta Argopecten irradians è cosparso di un centinaio di occhi di uno straordinario azzurro brillante, mentre il record quanto a dimensioni appartiene al calamaro gigante: gli occhi di un Architeuthis dux possono essere grandi fino a 30 centimetri. Leggi tutto

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