Villa Litta di Lainate, quando paradiso e stupore sono vicino casa

Ha proprio ragione chi sostiene che, per fare grandi viaggi, non sia affatto necessario affrontare grandi spostamenti.
Così come ha ragione chi sostiene che, talvolta, possa capitare di conoscere meglio luoghi lontanissimi rispetto a luoghi che abbiamo a pochi chilometri da casa.

Della prima teoria, sono io stessa una convinta sostenitrice – le belle scoperte non dipendono dalla distanza, lo credo fermamente – mentre, per quanto riguarda la seconda teoria, ho un pensiero che non pretendo essere verità assoluta ma che è vero per quanto mi riguarda: il fatto che a volte io non riesca a visitare luoghi vicini e facilmente raggiungibili non è questione di alterigia o superbia, bensì un po’ di semplice quanto banale stupidità.

Come tanti, tendo talvolta anch’io a rimandare visite a luoghi vicini nella sciocca illusione che tanto avrò sempre tempo o modo di farlo: sbaglio, invece, poiché il tempo passa impietoso e intanto perdo occasioni preziose.

È esattamente ciò che è accaduto con la splendida Villa Visconti Borromeo Litta di Lainate: da molto tempo ne sentivo parlare e da altrettanto ne rimandavo la visita.
Per fortuna, è arrivato un graditissimo invito (grazie M.T.) e così, grazie a una piccola e comoda trasferta organizzata per giornalisti e blogger da Milano, ho finalmente colmato questa mia imperdonabile mancanza, pentendomi abbondantemente per il ritardo, vista la meraviglia assoluta del luogo nonché la sua particolarità e unicità.

Non solo: giovedì 19 luglio, in occasione di tale visita, ho potuto assistere alla proiezione di un interessantissimo docu-film su Villa Litta, scritto e diretto da Francesco Vitali con la collaborazione di Claudia Botta. Leggi tutto

Si vede il marsupio? Ricordi Anni Ottanta – Novanta alla riscossa!

Io e il marsupio in un ritratto firmato da Valentina Fazio – grazie

Se, come me, avete vissuto in prima persona gli Anni Ottanta e gli Anni Novanta, sicuramente ricorderete anche voi un accessorio che riporterà subito alla mente quel periodo, nel bene e nel male: il marsupio.

Già, se siano ricordi positivi o negativi, se fosse successo oppure flop, lascio che siate voi a deciderlo: io mi limito a confermarvi ciò che sicuramente avrete già notato da soli.
Ebbene sì, la moda si è innamorata del marsupio ed è grande amore tra un accessorio sicuramente controverso e i marchi dell’industria moda, da quelli più blasonati a quelli del fast fashion.

Ed era controverso soprattutto il marsupio dei già citati Anni Ottanta – Novanta: era un aggeggio un po’ ingombrante e goffo, pensato più per assolvere a una funzione pratica che non per averne una estetica e dunque veniva spesso proposto in tessuti tipo nylon non esattamente accattivanti nonché in colori spesso esageratamente vistosi…

Cosa sia il marsupio è del tutto superfluo spiegarlo così com’è piuttosto scontato spiegare il motivo del suo successo e della sua diffusione: è comodissimo, lascia libere le mani e soddisfa anche i requisiti di sicurezza in quanto consente di portare addosso, in posizione comoda e ben accessibile, i nostri effetti personali. È quasi impossibile da scippare, contrariamente alla borsa appoggiata alla spalla o portata a mano; rispetto allo zaino, indossato sulle spalle almeno nel suo uso più classico, offre invece la possibilità di posizionare il carico in posizione frontale, sempre a favore del senso di sicurezza.

D’altro canto, come in molti altri casi, anche in questo l’essere umano non ha inventato nulla, ma ha piuttosto tratto ispirazione dalla Natura visto che esiste una classe di mammiferi che prende il nome di marsupiali e comprende simpatiche bestiole quali i canguri e i koala.

Ma se nella femmina del canguro è presente una tasca addominale dove i piccoli, che nascono precocemente a causa della scarsa funzionalità della placenta, completano il loro sviluppo sotto la protezione materna, l’essere umano – che spesso cede a tentazioni più utilitaristiche e meno poetiche, diciamo così – ha pensato di copiare il marsupio per portare oggetti quali soldi, documenti, chiavi di casa e via discorrendo. Ah, cellulare!

Ma dicevo che il problema del marsupio umano (e forse anche il motivo della sua sparizione per quasi due decenni) è la goffaggine nonché l’essere ingombrante: ecco che i marsupi di nuova generazione risolvono anche questi problemi, diventando più piccoli pur restando capienti e soprattutto diventando più aggraziati e accattivanti poiché scelgono di strizzare l’occhio anche alla funzione estetica. Uno di quei casi, insomma, in cui funzione e forma si prendono amichevolmente a braccetto, evviva!

Il marsupio 2018 risulta così vincente per due caratteristiche principali: versatilità e, appunto, estetica.

Versatilità perché, adesso, si può indossare in tanti modi diversi: come dicevo, il marsupio classico si portava in vita o sui fianchi, mentre i modelli più attuali conservano la caratteristica di essere portati a corpo ma si possono portare anche crossbody (ovvero a tracolla in modo trasversale) oppure, nella posizione classica, assolvono alla funzione che appartiene anche alle cinture, ovvero possono creare un punto vita laddove non c’è e perfino su giacche e cappotti. Ancora, si possono agganciare ai passanti di gonne, pantaloni e jeans oppure possono essere dotati di una cinghia che diventa tracolla e li trasforma in piccole borse, rendendoli così accessori dalla doppia anima.

Estetica perché i marsupi non sono più da nascondere, anzi, al contrario, sono da esibire con disinvoltura perché, oltre a essere utili, sono diventati visivamente piacevoli e dunque completano l’outfit: insomma, l’accessorio un po’ trash e un po’ kitsch della moda Anni Ottanta – Novanta diventa invece un oggetto desiderabile e non importa che sia di una grande firma o di un marchio low cost. Ciò che conta è che abbia un’impronta contemporanea per colori, materiali e dettagli.

A proposito… ma com’è tornato in auge il marsupio?
Anche se l’estate che stiamo vivendo pare essere il suo momento di trionfo, in realtà le prime avvisaglie risalgono almeno al 2017.
Tra i primi a proporlo c’è stato Kim Jones, all’epoca designer di Louis Vuitton (e oggi creative director di Dior Homme): a gennaio dello scorso anno, Jones ha riproposto il marsupio da uomo in una versione logata in collaborazione con Supreme, uno dei marchi culto più amati dai giovanissimi.
Da quel momento, il marsupio è apparso di nuovo in molte sfilate uomo e donna: a proporlo, nomi del calibro di Valentino, Armani, Gucci e poi Kenzo, Stella McCartney, DKNY, Marni, ognuno dando una propria interpretazione.

In fondo, la storia del marsupio non è recente e varie forme sono rintracciabili dalla preistoria lungo tutto il Medioevo fino ad arrivare alle tenute militari, incluse quelle delle due Guerre Mondiali del Novecento: occorreva arrivare all’epoca di Instagram perché il marsupio, accessorio amato per esempio da turisti e viaggiatori quanto finora odiato dal fashion system, conquistasse a sorpresa le passerelle di moda e, contemporaneamente, i cosiddetti influencer, prendendosi la propria grande rivincita, sebbene al costo di cedere anch’esso a velleità estetiche e non più solo puramente funzionali.

Come sempre, però, attenzione agli eccessi: in tempi moderni, rischiamo spesso di estremizzare capi e accessori che dimostrano di avere successo.
Sto pensando, per esempio, alla ciabatta marsupio: ebbene sì, il colosso Nike ha annunciato l’intenzione di reinterpretare il suo classico modello di ciabatta, la Benassi, in una nuova versione che fonde due degli accessori più desiderati del momento e che – fino a non molto tempo fa –  non erano certo considerati tra i più cool…

Immaginate una ciabatta (o slider) tipo piscina e immaginate che la striscia che fascia il piede abbia una zip e che nasconda una piccola tasca per riporre monete, chiavi o magari un badge.
Nelle ultime stagioni, la moda ha ridato mordente a ciabatte e marsupi e, complici gli stilisti che li hanno proposti sulle loro passerelle, li ha attualizzati: eccoli ora di nuovo in auge e, con un colpo di genio (genio del bene o del male?), Nike annuncia l’unione dei due accessori, fusi in un unico nuovo dirompente oggetto che sembrava pronto a conquistare (o colonizzare…) l’estate 2018.
E invece, a oggi, nonostante annuncio e vari articoli (perfino da parte del blasonatissimo Vogue…), sul sito ufficiale di Nike non se ne trova traccia: che siano rinsaviti (ehm…), cioè, che abbiano cambiato idea?

Ai posteri l’ardua sentenza, mentre io confesso il mio peccato: ebbene sì, da brava teenager di fine Anni Ottanta – inizi Novanta, non ho potuto che gioire del ritorno del marsupio dal look rifatto.

E l‘ho adottato abbondantemente: già quest’inverno, il primo è stato un marsupio nero con piccole borchie color oro (qui, qui, qui).
Subito dopo, ne è arrivato uno rosso, piatto, con macro borchie argento (qui, qui, qui, qui, qui).
Ne ho anche uno azzurro in pelle che ha doppia funzione, marsupio e borsa (qui), e ne ho un altro nero, piccolo quanto una sorta di tasca (qui, qui, qui).
E infine ne è arrivato un ultimo, il quinto (per ora…), molto simile a quelli dei miei anni adolescenziali, ma con due differenze fondamentali: lo vedete nella foto qui sopra, si porta crossbody, proprio come vuole la tendenza più contemporanea, ed è tutto glitterato (qui, qui, qui) come piace a me, piccola glittering woman 😀 😀 😀

In tutto ciò, mi viene in mente una cosa: qualcuno ha pensato di intervistare Giorgio Panariello chiedendogli il suo parere circa il ritorno del marsupio?
Nella galleria degli ironici personaggi caricaturali inventati dal famoso attore toscano (e inseriti anche nel suo film Bagnomaria del 1999), figura infatti anche Pierre, animale da discoteca tutto marsupio e poco cervello, dotato di un look eccessivo e diventato famoso per lo slogan «Si vede il marsupio???».
E bravo Panariello che, con grande ironia, ha fatto del marsupio un punto cruciale, comprendendo il suo ruolo di oggetto sintomo di un micro fenomeno di moda e dunque anche sociale: nel mio piccolo, non potevo che rendergli omaggio con il titolo di questo post a sua volta sospeso tra serio e faceto 😉 🙂

Oggi più che mai, vale il suo tormentone «Si vede il marsupio???» e accertatevi che la risposta sia 😀

Manu

Shine bright like… Deyemond??? Allora scegliete Eilish di Alice Canapa!

Ammiro chi, oggi come oggi, ha l’ardire di lasciare il certo per l’incerto.
Ammiro chi, oggi come oggi, rinuncia a un mestiere diciamo prestigioso (tipo medico, avvocato, commercialista, ingegnere..) per inseguire i propri sogni (tipo aprire un piccolo brand artigianale).
Ammiro chi ha questo ardire o questa follia, lascio a voi decidere di quale delle due cose si tratti.

Anche per esperienza personale, vi dico che ci vuole una dose di entrambi quasi nella stessa misura: ebbene sì, ammetto che bisogna essere un po’ pazzerelli per rinunciare, oggigiorno, a un posto fisso con stipendio certo, per esempio, eppure non è detto che la sicurezza economica sia tutto o che ci garantisca felicità.
Io, nel posto fisso, stavo rischiando di impazzire e di consumarmi, giorno dopo giorno e anno dopo anno, e ho fatto una scelta folle eppure coraggiosa, composta per una metà di rinunce e per l’altra metà di riconquista della mia vita.
Tornerei indietro? No, mai. Sono più felice oggi? Sì e posso dirlo dopo aver provato entrambe le situazioni.
Ho fatto la scelta giusta? Sì, ho fatto la scelta giusta per me (non pretendo che lo sia in assoluto) e lo dimostra il fatto che, nonostante nessuno sia libero al 100% da un qualche fardello (nel mio caso l’eterna incertezza economica da lavoro autonomo), affermo con decisione e sicurezza che non tornerei indietro e che sono più felice ora (e non di poco) rispetto a quando prendevo 14 mensilità da stipendio fisso pagato con puntualità ogni 27 del mese.

Con questo, non pretendo di dare lezioni di vita a nessuno, lo voglio dire molto chiaramente: ogni caso è a sé e, se qualcuno mi chiedesse consiglio, non suggerirei mai né l’una né l’altra scelta, ma suggerirei piuttosto di essere molto onesti, sinceri e obiettivi per quanto riguarda le proprie personali esigenze e i propri personali obiettivi.
Per questo dico di aver fatto la scelta giusta ma giusta per me.

Detto tutto ciò, ammetto di avere un debole e un’attrazione verso tutti coloro che hanno avuto il coraggio e la follia necessari per fare il grande salto cambiando il corso di una vita che poteva sembrare già tracciata: mi piace raccontare le loro storie e, stavolta, desidero raccontarvi quella di Alice Canapa, la fondatrice del brand Eilish.

Ancora una volta, le nostre strade, la mia e quella di Alice, si sono incrociate grazie al web e, precisamente, grazie a Instagram: conducendo le solite ricerche di oggetti e persone che siano capaci di catturare il mio immaginario, sono capitata sul suo account e sono stata colpita da tre sue affermazioni.

La prima – «Creo gioielli per portare nel mondo un po’ di autoironia», argomentazione che mi piace moltissimo perché considero l’autoironia come un ingrediente fondamentale in ogni impresa.
La seconda – «Credo fermamente negli unicorni», dimostrazione che Alice crede – come me – che ciò che spesso viene considerato impossibile possa invece diventare possibile.
La terza – «Glitter addicted»… e vuoi dirlo, cara Alice, a una che ha chiamato il suo spazio web A glittering woman? 😀

Detto fatto, in cinque minuti, dopo aver curiosato tra le foto di Instagram, ho cliccato sul link del negozio virtuale di Eilish su Etsy, il portale dedicato ad artigianato e vintage: lì ho scoperto un bel po’ di cose.

Alice racconta di essere nata nel luglio del 1987 a Osimo, uno splendido paesino nelle campagne marchigiane, vicino ad Ancona: è un’artigiana orafa ed è la fondatrice – appunto – del brand Eilish.

La sua passione per l’arte orafa nasce in parte grazie alla mamma che è amante dei gioielli e in parte per un grande amore di Alice stessa per tutto ciò che è a artigianato.
Accantonata la laurea in ingegneria (vedete che il mio citare gli ingeneri in principio non era poi del tutto casuale..), la nostra Alice ha capito che il suo lavoro doveva essere quello di orafa: si è rimessa a studiare e, dopo un diploma in oreficeria, ha cominciato pian piano a costruire il suo laboratorio.

Per Eilish, fa tutto da sola: disegna e crea i gioielli che sono principalmente in argento e ottone, gestisce i negozi online, spedisce, cura i social (l’account Facebook oltre al già citato Instagram) e i contatti con i clienti.
Il tutto avviene nel suo studio, «accanto al caminetto, al primo piano della mia casa».

I suoi gioielli rigorosamente artigianali parlano (molto) di lei: la sua follia (e lo dice lei!), la sua autoironia, il suo amore per il glitter e per il colore rosa…tutto si mescola aiutandola a creare accessori particolari e che non passano certo inosservati, perché i pezzi Eilish nascono con lo scopo di far sentire unica ogni donna grazie a un design moderno pensato per brillare in ogni occasione.

Negli ultimi anni, Alice ha anche cominciato a tenere dei workshop attraverso i quali insegna tecniche base di oreficeria: la sua idea è far capire che ogni persona è in grado di creare qualcosa con le proprie mani, anche chi si definisce negato (devo andare a trovarla…).
Dato il successo di questi workshop, all’inizio del 2014 e sempre a Osimo, è stata tra le fondatrici dell’associazione culturale Il Canapaio, un luogo in cui vengono organizzati laboratori in cui i creativi, locali e non, insegnano la loro arte.
Insomma, Il Canapaio (vi lascio anche l’account Instagram) è uno splendido esempio di vero spirito di condivisione, proprio come piace a me.

Forse, qualche lettore particolarmente attento (grazie ) ricorderà quando ho raccontato della mia malattia (ehm…) mania per gli occhi: infatti, tra le creazioni di Alice, ho scelto e acquistato (per ora…) un pezzo della linea Deyemond, ironico gioco di parole tra diamond e eye.
Nella foto in apertura, vedete pertanto la sottoscritta che indossa la collana con occhio in argento 925 disegnato da Alice: la nappina si può scegliere in cinque diverse varianti colore, mentre l’occhio è disponibile anche nella versione ottone placcato oro giallo.

Se vi piace la collana, la trovate qui e potrete apprezzare anche il motto scelto da Alice per questa sua linea, giocando un po’ con il ritornello di un celebre brano della cantante Rihanna: Shine bright like a diamond è diventato Shine bright like Deyemond.

Lo confesso: adoro Alice nonché la bravura e l’ironia che ha riversato in Eilish.

Meno male che non ha fatto l’ingegnere anche se, magari, sarebbe stata bravissima anche a fare quello.

Manu

Con Leonardo da Vinci Parade iniziano a Milano le celebrazioni vinciane

Ricordo molto bene l’emozione provata quando, grazie al Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia di Milano, ho incontrato un vero androide, illustre, unico e con le sembianze di uno degli uomini più famosi non solo del Rinascimento, ma di tutta la storia umana: il pittore, ingegnere e scienziato Leonardo da Vinci.

Nel 2015, il Museo – che tra l’altro è intitolato proprio al grande genio – ha infatti ospitato un androide che si avvale di tecnologie di mimica facciale di ultima generazione: il robot, a grandezza naturale e con una verosomiglianza davvero impressionante, veniva dal Giappone, progettato dal team di Minoru Asada, Direttore Robotica di Neuroscienze Cognitive dell’Università di Osaka.

Da eterna curiosa e affamata di conoscenza quale sono, Leonardo è per me una figura importantissima e avere l’occasione di vedere da vicino quel robot che parlava e interagiva grazie a software sofisticatissimi ha rappresentato un’esperienza particolarissima (che ho raccontato qui).

Il Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia è un luogo che amo particolarmente poiché racconta storie di scienza, tecnologia e industria senza preconcetti: vide la luce il 15 febbraio 1953, sotto la spinta di un gruppo di industriali lombardi guidati dall’ingegner Guido Ucelli.

L’idea di Ucelli era quella di dotare l’Italia, al pari degli altri grandi Paesi europei, di un museo che raccontasse «il divenire del mondo» a partire da uno sguardo di unità della cultura: questa idea di dialogo senza barriere tra cultura umanistica e artistica e cultura tecnico-scientifica ispira ancora oggi le scelte e il piano strategico di sviluppo dell’istituzione meneghina e rappresenta uno dei motivi alla base del mio amore.

Il nome di Leonardo da Vinci accompagna il Museo fin dalla sua inaugurazione avvenuta con una grande mostra che celebrava il cinquecentenario della nascita del grande genio vissuto tra il 1452 e il 1519: Leonardo è infatti il miglior simbolo di quella continuità tra i due lati della cultura, espressioni differenti quanto complementari della creatività umana, fortemente presenti nella vita e nell’operato del genio di Vinci. Leggi tutto

Elogio del micro: Giovanna Checchi e i suoi Little Bit Bijoux

Come si evince facilmente dalle foto che condivido attraverso il mio account Instagram e come ammetto molto apertamente, ho una gran passione per gli anelli dalle dimensioni importanti, come li definisco io, o vistosi, come li definiscono (peraltro giustamente) altre persone.
Li amo talmente tanto da averne ricavato anche due post pubblicati nel blog (qui e qui) e, sebbene la mia ormai vastissima collezione (portata avanti con entusiasmo da quando avevo 15 anni) sia estremamente eterogenea quanto a forme, materiali e dimensioni, in effetti a prevalere sono proprio quelli che molti chiamano statement ring oppure cocktail ring – anche se le due tipologie non sono esattamente la stessa cosa.

Statement significa dichiarazione oppure affermazione e, abbinato all’ambito gioiello, va a indicare quei pezzi che, in effetti, sono una sorta di affermazione di importanza o affermazione di visibilità: statement ring indica dunque tutti quei pezzi che si fanno notare e che attraggono lo sguardo, non necessariamente o non esclusivamente per un valore economico, tanto da essere diventato anche un hashtag molto utilizzato proprio in Instagram.

Il discorso è un po’ diverso – e secondo me più affascinante – per quanto riguarda i cocktail ring e soprattutto le loro origini.
Anch’essi grandi, sfacciati ed eccentrici, in origine i cocktail ring erano permessi solo dopo l’ora del tè, da portare rigorosamente alla mano destra.
Cocktail ring, letteralmente anello da cocktail, è la definizione che ha sempre accompagnato il monile dall’epoca del proibizionismo americano, ovvero quel periodo fra il 1919 e il 1933 in cui negli Stati Uniti venne sancito il bando sulla fabbricazione, la vendita, l’importazione e il trasporto di alcool: furono anni in cui divenne estremamente seducente e affascinante l’idea di indossare tali anelli esagerati per partecipare a feste clandestine.
In queste occasioni, in ambienti estremamente selezionati, si poteva esporre tutto ciò che era considerato illegale: per quanto riguarda l’anello, più era prezioso e originale maggiore era il fascino di chi lo sfoggiava, in modo direttamente proporzionale.
I tempi cambiarono, il proibizionismo finì, ma il cocktail ring mantenne il suo fascino e continuò a essere presente nelle feste dell’alta società degli Anni Cinquanta – Sessanta.
Oggi non ci sono più veti assoluti, il galateo non è più vincolante come un tempo e prevale l’espressione della nostra singola personalità: capita che tutti gli anelli grandi vengano definiti cocktail ring in nome di queste intriganti origini e delle dimensioni importanti, ma in realtà, dal punto di vista tecnico, non è proprio così.
Inizialmente, per essere definito da cocktail, un anello doveva infatti essere non solo oltremodo grande ma anche essere dotato di una pietra preziosa incastonata a griffe, quel tipo di montatura che prevede che la gemma venga inserita all’interno di una corona costituita da un numero variabile (in genere da tre a sei) di punte equidistanti che formano una base a forma di cestino: inoltre, andava portato assolutamente a destra, ripeto, all’anulare o al dito medio.
Pian piano, sebbene la rigidità dell’etichetta sia andata scemando, è rimasto proibito portarlo all’anulare sinistro, dito dedicato esclusivamente agli anelli del cuore, ovvero la fede e l’anello di fidanzamento.
Attualmente non è necessario che il cocktail ring sia costoso: rimarrebbe invece valido, per godere dell’appellativo, che conservasse le caratteristiche della grande pietra (che siano gemme oppure pietre semi-preziose oppure cristalli) e della montatura a griffe.
Dunque, sarebbe forse meglio definire i grandi anelli moderni semplicemente come statement ring.

Chiudo qui la divagazione storico-sociale che spero abbia affascinato e incuriosito anche voi, miei cari amici che leggete, e torno a noi …
Scherzando (ma non troppo) affermo spesso che, prima o poi e appena metto da parte un gruzzoletto, consulterò uno psicologo allo scopo di dare un perché alla mia mania per gli anelli enormi… poi, invece, spendo (quasi) tutto quanto in bijou (enormi!) e allora volete sapere una cosa? Mi sono fatta una diagnosi da sola…
Perché mi piacciono gli anelli esagerati?
Ma perché sono esagerata in tutto ciò che mi riguarda: sono fedele a persone, cause e ideali fino allo spasmo, amo con ogni centimetro e ogni grammo della mia persona, sono logorroica, gesticolo troppo, faccio un sacco di smorfie con il viso, sono una collezionista seriale e, quando faccio shopping, a volte compro non una ma due cose… volete mettere il gusto di avere una maglia che mi piace in due colori?
Insomma, sono un vero disastro…
(Ditemi però che non sono l’unica, vi prego, ad avere la mania del doppio colore…)

Non solo, oltre a essere (un tantino) esagerata in ogni mia manifestazione, ho un altro significativo difetto: non ho mezze misure.
Passo da un estremo all’altro e dunque passo dalla passione per i bijou fuori misura alla passione per quelli piccoli, leggeri, delicati, poetici, ovvero quelli che riescono, in pochi centimetri e in maniera inversamente proporzionale alle loro dimensioni micro, a contenere e sussurrare milioni di suggestioni.

E così, stavolta, un’amante del macro si innamora del micro e ne fa un sincero elogio per un motivo ben preciso: Giovanna Checchi, l’anima di Little Bit Bijoux, il marchio che vi presento, è capace di miniaturizzare mondi interi – soprattutto fiori e origami – racchiudendoli in piccole sfere, semisfere, boccette da portare al dito, al collo, al lobo.

Classe 1981, stilista freelance di abbigliamento per bambini, Giovanna vive a Milano con il suo compagno e i loro bimbi.
Si definisce curiosa e sognatrice, appassionata di viaggi, disegno, musica e DIY (l’acronimo di do it yourself, equivalente dell’italiano fai da te).
Creatività e fantasia sono eterne costanti della sua vita.

Quello da stilista di abbigliamento bimbo è un lavoro che Giovanna ama, ma desiderio e bisogno di creare direttamente con le mani l’hanno portata a dar vita a Little Bit Bijoux.
Nel suo negozio su Etsy, il grande portale particolarmente dedicato al fai da te, si possono trovare i suoi bijou interamente fatti a mano, realizzati con passione, amore e cura per il dettaglio (letteralmente!): l’intento è offrire un prodotto bello, originale e ben rifinito, pezzi unici come unica è l’ispirazione da cui nascono e unica è la personalità di ogni donna che sceglierà di indossarli.

I fiori utilizzati sono tutti veri, pressati, essiccati e trattati in modo tale che rimangano invariati nel tempo.
Alcuni sono raccolti e lavorati direttamente da Giovanna, altri vengono da lei acquistati da fornitori di sua fiducia, esperti e competenti.
Anche i piccolissimi origami – soprattutto gru e barchette – racchiusi sotto le campane di vetro sono opera delle sue pazienti manine e sono realizzati con carte di riso esclusivamente di origine giapponese.
Non solo: Little Bit Bijoux nasce per soddisfare sogni e desideri, quindi le richieste dei clienti sono ben accette e Giovanna fa fronte anche a ordini personalizzati.

Chi mi conosce sa che, monili a parte, il mare è forse la mia più grande passione: nonostante sia nata in una grande città, mi trasferirei volentieri in un posto di mare e dico di avere l’acqua salata nelle vene insieme al sangue.
Amo il mare in ogni stagione e a qualsiasi latitudine: amo tutto ciò che me lo ricorda, la sabbia, le conchiglie, le barche – e non solo quelle vere.
Quand’ero bambina mi hanno insegnato a fare le barchette di carta e ne ero tremendamente affascinata: credo di averne fatte a centinaia, forse a migliaia, di ogni dimensione e colore.
Quando ho visto quelle in miniatura di Little Bit Bijoux… non ho potuto resistere.
Ho contattato Giovanna e le ho chiesto, oltre al pendente, se fosse possibile avere un anello poiché adoro combinare questi due monili: lei ha accettato e ha creato un anello che ha fatto decisamente capitolare una fan sfegatata degli statement ring.

Vi lascio con piacere il link di Little Bit Bijoux su Etsy (il negozio, tra l’altro, è aperto dal 2014) nonché il link del relativo account Facebook e il link di quello Instagram che è il luogo virtuale in cui prediligo fare ricerche e che – come in tanti altri casi – mi ha fatto trovare Giovanna: poi, siccome lei è di Milano come me, sono andata a trovarla di persona e lì, trovando una persona appassionata, entusiasta e capace, è scattata la seconda scintilla che ha fatto sì che io abbia deciso di scrivere di lei.
Se volete i miei stessi monili, quelli che vi mostro nella foto che apre il post, qui trovate la collana con la sabbia e la barchetta e qui l’anello.

Ah, a proposito di acquisti doppi…
Ma se, visto che amo gli origami, dopo la barchetta, io acquistassi anche la collana con la gru?
(Non c’è nulla da fare, sono proprio incorreggibile…)

Manu

Antica Sartoria, il sogno di Giacomo Cinque da Positano al mondo

Undici anni fa, in agosto 2007, trascorsi un periodo di vacanza nei pressi di Salerno.
Mi portarono a visitare le perle della splendida Costiera Amalfitana, da Atrani a Cetara, da Maiori a Ravello, da Praiano a Vietri, da Amalfi a Positano: proprio a Positano, ebbi occasione di conoscere il marchio Antica Sartoria innamorandomene perdutamente.
Raramente avevo visto in vita mia un luogo così colorato, fantasioso e allegro, in Italia e all’estero, e naturalmente feci degli acquisti.

Nonostante l’Antica Sartoria di Positano avesse lasciato in me una profonda impressione, nel tempo non ho più avuto occasione di visitare alcun punto vendita, almeno non fino a quest’anno quando mi sono trovata per qualche giorno a Sestri Levante (alloggiando per la seconda volta al b&b La Terrazza sui Fieschi): lungo la via dello shopping della bella cittadina ligure, ho visto alcune vetrine coloratissime e ho subito capito che si trattava di uno dei negozi del marchio che mi aveva rubato il cuore tanti anni prima.

Inutile dirvelo: sono entrata e, tra una chiacchiera e l’altra con il simpaticissimo personale che lavora in negozio, ho fatto acquisti tra cui la gonna e la borsa (adagiata sulla panchina) che potete vedere nella foto qui sopra che risale allo scorso 3 giugno a Verbania sul Lago Maggiore.
In verità, sono tornata anche il giorno dopo, ripensando ad altri articoli che avevo lasciato in negozio: il bottino finale, oltre a gonna e borsa, è stato di due collane (qui e qui), un paio di orecchini e una candida camicia in lino per mio marito (e della quale ci siamo innamorati entrambi).

L’entusiasmo riscosso dalla gonna attraverso il mio account Instagram (qui, qui, qui e qui) è stato davvero tanto e caloroso, dandomi conferma di quanto lo stile di Antica Sartoria piaccia a moltissime persone in modo assolutamente trasversale: piace perché è uno stile libero, caratterizzante ma anche da caratterizzare e vivere a modo proprio, un po’ hippie un po’ bohémien un po’ gipsy, sicuramente libero da frontiere e barriere di qualsiasi tipo, culturali oppure etniche.
Io lo identifico con i colori del nostro splendido sud ma, allo stesso tempo, mi ricorda quelli dell’America Latina e dell’Africa.

Tutto ciò mi ha fatto venire il desiderio di indagare meglio sul brand e su Giacomo Cinque, il fondatore, condividendo la storia con voi, amici che state leggendo, una storia che affonda le proprie origini negli Anni Sessanta quando, oltre al movimento hippie (o hippy), Positano sperimentava e lanciava l’interessante fenomeno dell’omonima Moda Positano.

In quegli anni, quando si partiva per una gita al mare, frequentemente non ci si sentiva a proprio agio a causa dell’abbigliamento da città, naturalmente formale ma inadatto alla Costiera: come per incanto, il clima in questa baia dorata è infatti sempre mite e quindi chi arrivava andava subito alla ricerca di parei, bermuda, pantaloncini, costumi e tutto quanto poteva essere utilizzato in spiaggia o in barca.
E così, i primi negozi di ceramiche e souvenir nati proprio in Costiera venivano assaliti da richieste del genere: essendo per tradizione e origini storiche degli ottimi commercianti, gli abitanti inventarono la cosiddetta Moda Positano improvvisandosi sarti e tagliuzzando foulard, asciugamani di lino e cotone, qualche volta saccheggiando i corredi delle spose e trasformando lenzuola finissime ricamate a mano e vecchi centrini da tavolo fatti a tombolo o a uncinetto in particolarissimi ed estrosissimi abiti da sera.
Questa moda sicuramente stravagante venne apprezzata fin dai primi momenti proprio perché diversa e impensabile dai celebrati e blasonati sarti e stilisti di Milano, Torino, Firenze, Roma.
In seguito, aiutati dalla naturale bellezza del luogo e avendo un carnet di ospiti stravaganti e facoltosi che (forse avendo già tutto) nutrivano grande voglia di diversità, i pezzari (così furono definiti) andarono a rifornirsi nei mercatini dell’usato poiché i corredi familiari erano finiti.
E furono proprio gli improvvisati sarti commercianti che, aiutati da imprenditori del calibro di Benetton e Fiorucci, inventarono il tinto in capo: la tintura in capo è una tecnica che consiste nel tingere un capo di abbigliamento già confezionato e questo richiamò l’attenzione di molti stilisti che producevano capi in bianco che venivano poi tinti successivamente a seconda delle esigenze proprio a Positano.
Negli anni, iniziarono a fiorire tante piccole botteghe e a questo punto posso introdurre Giacomo Cinque.

Nato a Positano, Cinque vive la sua infanzia nel momento clou, ovvero i fantastici Anni Settanta, e assorbe come una spugna tutta l’energia positiva e colorata di quell’epoca: giorno dopo giorno, cresce la sua passione per l’abbigliamento e lui passa con curiosità da un laboratorio all’altro nel momento dei pezzari e delle loro pezze.
Frequenta l’accademia di moda e, tra lezioni di storia dell’arte e del costume e lezioni di stilismo e modellismo, decide che tessuti, colori e filati sarebbero stati il suo mondo.
Giacomo Cinque riversa così tutto l’amore per i ricami e l’arte proprio nell’abbigliamento, iniziando a realizzare (come fa ancora oggi) capi stravaganti e qualche volta irripetibili.
Decide di vestire le vacanziere in giro per tutto il mondo, le immagina come allegre sirene in grado di ammaliare i più restii Ulisse tra tessuti colorati, pizzi bianchi e talismani portafortuna.
Nel frattempo, siamo arrivati ai primi Anni Ottanta e le sue creazioni diventano un fenomeno moda ambito da tutte le aziende locali e dai compratori che arrivano da tutto il mondo, tanto da essere corteggiato come una star.

Tenacia, gusto, tecnica, passione, intuito, umiltà e amore per il proprio lavoro sono gli ingredienti che decretano il suo successo e, dopo aver lavorato per quasi tutte le aziende positanesi come stilista, Giacomo Cinque decide di produrre una propria linea, spostando la produzione da Positano all’India, creando insieme al socio Riccardo Ruggiti il marchio Antica Sartoria con cui oggi vende il suo prodotto in tutti i negozi (qui trovate l’elenco) posizionati vicini ai mari del mondo o dove, per la bellezza dei luoghi e per cultura (Roma, per esempio), si fanno le vacanze o regna lo spirito festaiolo.
Sì, perché Giacomo Cinque ama definirsi come il sarto per le feste: «chiamatelo – si dice sul sitoe ve ne organizzerà una».

Perché ho deciso di parlarvi di Giacomo Cinque e della sua Antica Sartoria?

Il primo motivo ve l’ho detto: amo le sue creazioni e so di non essere l’unica.

Il secondo motivo è lo spirito imprenditoriale ed etico: vista l’esigenza – e la mancanza – di sarte e corredi, Cinque si è aperto alla continua scoperta di nuovi posti dove produrre con il nostro gusto e la nostra cultura, tenendo i prezzi accessibili a un turista attento ai dettagli.
Quindi Antica Sartoria produce oggi in tutto il mondo e vende in tutto il mondo, ma con il cuore e lo spirito positanesi e italiani. Ecco perché parlo di imprenditorialità ma anche di etica.

Antica Sartoria non è una moda di passaggio e supera i trend – e qui abbiamo il terzo motivo del mio apprezzamento: è un sodalizio magico tra la creatività del fondatore e l’abilità di artigiani (soprattutto indiani) produttori da secoli di cotoni e sete, artisti nel colore e coadiuvati da abili ricamatrici.

E a dimostrare che questa formula funziona c’è anche il numero di fan su Facebook, oltre 23mila, e su Instagram, quasi 52mila, merito – a mio avviso – di una filosofia che definirei ancora una volta hippie e bohémienne, in contrasto con un’epoca un po’ tesa e spesso difficile quale è la nostra e in cui ai figli dei fiori si sono (purtroppo) sostituiti hater, troll e leoni da tastiera…

E detta filosofia piacevolmente libera e leggera in senso buono è perfettamente riassunta dallo slogan «moda mare per amare».

Ecco, magari proviamo (almeno ogni tanto) a tornare a mettere fiori nei nostri cannoni.

Manu

Quando Rolling Stone ci invita a fare la nostra scelta…

Quella che vedete qui sopra è la copertina di luglio 2018 di Rolling Stone Italia, in edicola da oggi.
E io vorrei dire qualcosa in merito, soprattutto a chi sostiene che tale copertina sia esagerata, fuori luogo, populista, demagogica, sinistroide. Che si tratti di sciacallaggio, come ho letto da qualche parte.
Quel qualcosa che desidero dire non sono parole mie: le prendo in prestito dal tedesco Martin Niemöller (1892 – 1984), teologo, pastore protestante e oppositore del nazismo.
Le parole – che mi fanno pensare ogni volta in cui le rileggo – sono queste.

«Quando i nazisti presero i comunisti,
io non dissi nulla perché non ero comunista.
Quando rinchiusero i socialdemocratici,
io non dissi nulla perché non ero socialdemocratico.
Quando presero i sindacalisti,
io non dissi nulla perché non ero sindacalista.
Poi presero gli ebrei,
e io non dissi nulla perché non ero ebreo.
Poi vennero a prendere me.
E non era rimasto più nessuno che potesse dire qualcosa.»

Ho scelto i versi originari e originali di Martin Niemöller, ma esistono diverse versioni e anche interpretazioni e reinterpretazioni.
Le sue parole risultano così forti da aver avuto influenza su molte opere venute in seguito, come la canzone Yellow Triangle del cantante di musica folk irlandese Christy Moore; anche il duo musicale scozzese Hue and Cry ha parafrasato la poesia in una propria canzone e i versi hanno avuto un peso anche per la canzone Emigre del gruppo punk statunitense Anti-Flag.

Quando le scrisse, Niemöller si riferiva all’inattività degli intellettuali tedeschi in seguito all’ascesa al potere dei nazisti e agli obiettivi da loro scelti, gruppo dopo gruppo; la poesia è in seguito diventata un monito contro il pericolo dell’apatia sociale e politica, per sottolineare come essa possa trasformarsi in qualcosa che si ritorce proprio contro chi pensa di non essere toccato da certi fenomeni.
Contro chi è indifferente, apatico, chiuso nel proprio guscio che crede sia una protezione.

Io non desidero affatto dirvi cosa dovete pensare, amici che state leggendo.
Cerco di non farlo mai, in nessun ambito e su nessun argomento: mi limito a esporre il mio punto di vista e a esporre quante più possibilità mi vengono in mente.

Non sono dunque qui per dirvi se abbia ragione Matteo Salvini, Rolling Stone Italia o chi si schiera contro la rivista.
Non vi sto dicendo da quale parte stare, vi dirò semplicemente cosa farò io.

Io che credo nella libertà (a partire da quella di parola e di stampa) e che amo i diritti, io che i diritti li voglio per tutti (come ho scritto nel 2015 qui e nel 2016 qui), io che credo nelle persone di buona volontà e di pensiero indipendente, che siano di destra o di sinistra, bianche o nere, omosessuali o eterosessuali, italiane o straniere, io che amo il mio Paese e che lo vorrei vedere progredire veramente; domani, io che ho tutto ciò nella testa e nel cuore, andrò in edicola, comprerò Rolling Stone Italia e lo leggerò (qui trovate un’anticipazione, se volete).
Non solo: continuerò sempre a informarmi e continuerò sempre a tenere testa e cuore aperti.
Darò sempre a me stessa una, dieci, cento possibilità.

E vi dirò anche cosa non farò.

Io non mi farò rinchiudere in un recinto, anzi, non mi ci rinchiuderò da sola, non resterò indifferente, non farò finta che vi siano categorie umane alle quali non appartengo.
O che non mi interessano o che mi infastidiscono o che disturbano i miei interessi.
Io non penserò di essere protetta dal fatto di essere cittadina italiana figlia di cittadini italiani e discendente di cittadini italiani, non mi sentirò protetta dal fatto di essere bianca, di religione cattolica anche se non praticante, eterosessuale e coniugata.
Io non crederò che esista guscio che possa proteggermi.

Rolling Stone è stato fondato negli Stati Uniti 51 anni fa come periodico di musica, politica e cultura di massa.
Dal 1967 porta avanti i concetti di intrattenimento e di impegno sociale: è fallibile, come qualsiasi opera e associazione umana, ma ha tanta passione da darsi lo slogan «Sulla pietra che rotola non cresce il muschio».

Ovvero chi rifiuta di stare fermo sulle proprie posizioni, chi continua a muoversi… chi fa tutto ciò impedisce che il cervello si atrofizzi imprigionato dal muschio dell’indifferenza, dell’inattività, dell’apatia, della pigrizia, dell’indolenza, della paura.

E io chiedo questo, a me e a voi: diamo a noi stessi una chance, non aspettiamo di voltarci e di non trovare anima viva attorno a noi.
Io vedo in tutto ciò, nella copertina di Rolling Stone, un’occasione, una possibilità.
L’importante è non tacere, perché non prendere posizione e non avere un’opinione è cosa che mi terrorizza più di qualsiasi scelta, sicuramente molto più di una persona che la pensi in maniera diametralmente opposta alla mia.

Manu

La sharing economy arriva in spiaggia con la piattaforma Playaya

Mi sono sempre sentita cittadina del mondo poiché sono curiosa verso luoghi, culture e persone e perché trovo motivi per stare bene ovunque.

Tuttavia, mi sento profondamente italiana e sono molto orgogliosa di essere nata qui: amo profondamente il nostro Paese e credo che esservi cresciuta sia un plus che mi permette di apprezzare bellezza e cultura fin dall’infanzia.
Sono una strenua sostenitrice di tutto ciò che è Made in Italy e lo dimostro anche attraverso questo blog nel quale le creazioni nostrane e il genio di tanti nostri connazionali è raccontato, messo in evidenza, sviscerato.

Proprio perché amo e rispetto profondamente il nostro meraviglioso Paese, sono altrettanto obiettiva nel coglierne e ammetterne i difetti: penso che essere lucidi per quanto riguarda le criticità non sia affatto essere disfattisti bensì, al contrario, sia condizione necessaria per poi agire e risolvere.

La scorsa estate sono stata in Grecia, un altro Paese che amo moltissimo e che ho visitato tante volte (forse anche perché in tante cose assomiglia all’Italia…): tornando da quel viaggio, ho scritto un post in cui ho fatto un confronto mettendo in evidenza una delle criticità delle vacanze nel Bel paese, ovvero la rigidità del sistema spiagge e i prezzi proibitivi del noleggio sdraio-lettini-ombrelloni durante la stagione estiva.

Capite bene che, quando un paio di settimane fa, mi è stato sottoposta Playaya, la prima piattaforma che mira a snellire il sistema di gestione degli ombrelloni sulle spiagge italiane a opera di due intelligentissimi ragazzi italiani… beh, non potevo non accettare di parlarne, per dimostrare una volta di più quanto ci sia un bisogno (ah, ma allora certe cose non le penso solo io!), per dimostrare come la genialità italiana possa arrivare ovunque e per dimostrare come possa farlo attraverso un concetto che mi sta molto a cuore – ovvero quello della sharing economy.

Per caso, miei cari amici che leggete, arrivate sempre all’ultimo minuto e non trovate mai un ombrellone libero?
Siete stufi di stendervi al sole in una delle affollate spiagge libere italiane, cercando uno spazio (risicato) per il vostro telo e trovandovi gomito a gomito con il vicino?
La spiaggia attrezzata è fuori dal vostro budget (dal mio… spesso sì)?
Da oggi bastano pochi click per trovare l’ombrellone e risparmiare (quasi il 50%) sul prezzo di affitto.

Arriva infatti Playaya, la piattaforma che consente di affittare, anche last minute, un ombrellone scontatissimo per stendersi comodamente al sole in uno stabilimento attrezzato, per una giornata o solamente per qualche ora.

L’idea – come accennavo – è di due giovani soci (e fidanzati) torinesi, Stefano (26 anni) e Giulia (23, le due belle facce che vedete qui in alto ⇑) i quali, dopo un anno di intenso lavoro, hanno lanciato Playaya per mettere in contatto chi possiede un abbonamento in uno stabilimento balneare e sa di non utilizzarlo a pieno con chi lo sta cercando magari solo per qualche ora.

Attenzione: Playaya non è una piattaforma di booking bensì di condivisione, in perfetto stile sharing economy.

Il sistema è semplicissimo.
Gli stabilimenti che lo desiderano aderiscono gratuitamente al programma Playaya, mantenendo il completo controllo sulla spiaggia ma consentendo ai propri ospiti di mettere in sharing gli ombrelloni.
Chi affitta l’ombrellone in una spiaggia aderente a Playaya può iscriversi altrettanto gratuitamente alla piattaforma e mettere in rete le giornate, o le ore, che vuole condividere.
Il software Playaya calcola e suggerisce il prezzo di vendita del servizio (con uno sconto che va dal 30% al 50% sul prezzo di listino della spiaggia): chi è alla ricerca di un ombrellone non deve far altro che collegarsi e scegliere ciò che fa al suo caso.

«L’idea – racconta Giulia – ci è venuta l’anno scorso in Sicilia a Giardini Naxos dove mia cugina, che aveva un bimbo piccolo, ci ha prestato l’ombrellone che aveva affittato in uno stabilimento attrezzato poiché non lo utilizzava nelle ore più calde, dalle 12 alle 16. Per noi era semplicemente perfetto: ci svegliavamo tardi e andavamo via giusto in tempo per iniziare a pensare all’aperitivo. Come mia cugina, tantissime famiglie scelgono la comodità di una spiaggia attrezzata, ma non la utilizzano tutto il giorno, o tutti i giorni, lasciando vuoto l’ombrellone. E tantissime persone hanno voglia di stendersi al sole proprio in quelle ore. Di qui l’idea: Playaya sfrutta lo strumento della condivisione e consente, a chi lo desidera, di recuperare in parte i costi del proprio abbonamento in spiaggia offrendolo in sharing.»

Giuro, nonostante scrivere sia il mio mestiere… non avrei mai saputo spiegare meglio e più efficacemente il concetto e i motivi per cui Playaya mi piace: brava Giulia!

Trasparente. Comodo. Sicuro.
Tutte le transazioni sono effettuate tramite PayPal o carta di credito e, ogni martedì, Playaya rimborsa chi ha messo in sharing il proprio ombrellone nella settimana precedente.
Con un vantaggio economico anche per i gestori dello stabilimento che vedono i propri clienti più soddisfatti.

«Abbiamo iniziato – continua Stefano – dalla Liguria, dove moltissimi stabilimenti hanno aderito con entusiasmo alla nostra idea, Loano, Spotorno, Ceriale, Diano Marina, Bordighera, Alassio. Ogni giorno acquisiamo nuove spiagge da tutta Italia!»

E io auguro grande successo alla vostra iniziativa con tutto il cuore, ragazzi, perché lo meritate: siete l’esempio di ciò che sostengo, rilevare una criticità e risolvere con genio, entusiasmo e positività.

E dunque, con estremo piacere e assoluta convinzione, vi lascio il sito Playaya, la pagina Facebook e l’account Instagram.
A breve, Playaya sarà anche una app disponibile su Google Play e Apple App Store.

Manu

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