Gender gap vs women empowerment: la moda non è un lavoro per donne?

È da un bel po’ (precisamente da qualche mese) che medito sul contenuto di un articolo di Pambianco.

Dovete sapere che detta rivista è una delle mie preferite e che non manca mai tra le letture quotidiane: dunque, se intitola un articolo ‘Allarme gender gap, la moda non è un lavoro per donne’, ecco che Pambianco attira immediatamente la mia attenzione anche perché si tratta di un argomento che mi sta particolarmente a cuore.

Cosa sostiene l’autorevole magazine nell’articolo datato 22 maggio?

Viene citato uno studio intitolato ‘The glass runway’, redatto dal Council of Fashion Designers of America (CFDA), Glamour e McKinsey & Company: in questo studio si afferma che, sebbene le donne rappresentino l’85% delle laureate presso i principali istituti di moda americani, i ruoli chiave ricoperti da nomi femminili sono ben pochi.

Il mondo della moda – rincara la dose Pambianco – ha recentemente mostrato interesse per le diversità di orientamento sessuale e di taglia, ma non abbastanza per il gender gap.

Con gender gap si intende l’insieme di tutte quelle differenze che si riscontrano a livello di condizioni economiche e sociali (dall’istruzione fino all’accesso al lavoro) e che influenzano la vita degli esseri umani in base al loro genere di appartenenza: in parole povere, parliamo di disparità di condizione tra uomini e donne.
E generalmente, quando si parla di gender gap, si tende (purtroppo) a osservare l’esistenza di maggiori penalizzazioni a sfavore delle donne rispetto agli uomini.

«Non ne parliamo molto perché c’è la sensazione che tutti ne siano già a conoscenza, ma a volte è necessario dire qualcosa affinché le persone non facciano finta sia un problema inesistente», ha dichiarato Diane von Fürstenberg, presidente dello stesso CFDA.

I dati contenuti nello studio ‘The glass runway’ sono alquanto desolanti.
I salari delle donne del settore sono meno alti proprio perché a guadagnare di più sono funzionari che ricoprono ruoli all’apice delle aziende e questi funzionari, solitamente, sono uomini (il cane che insegue la sua coda e gira in circolo, insomma): sembra dunque che il settore moda non ostacoli l’ingresso delle donne, bensì l’avanzamento di carriera.

A oggi, è soprattutto il digitale a vantare una maggior presenza di donne in ruoli di spessore – ma guarda un po’…
Realtà online di successo come Rent the runway, Moda Operandi, Glossier e The RealReal sono tutte gestite da donne che, però, sono spesso anche le ideatrici.

Anche in termini di direzione stilistica la disparità è forte.

Fatta eccezione per le fondatrici di storiche maison e per le eredi di famiglie altrettanto storiche (mi vengono subito in mente Alberta Ferretti, Miuccia Prada, la stessa Diane von Fürstenberg, Veronica Etro, Silvia Venturini Fendi, Lavinia Biagiotti Cigna, Donatella Versace, Beatrice Trussardi) e fatta eccezione per le fondatrici di brand più recenti ma ormai affermati (e qui penso a tre delle più celebri, Stella Jean della quale ho parlato spesso, Stella McCartney e Viktoria Beckam), le donne a capo di importanti brand del lusso sono ancora in netta minoranza.

Tra le poche, spiccano i nomi di Sarah Burton (da Alexander McQueen), Maria Grazia Chiuri (da Dior, premiata tra l’altro con lo Swarovski Award for Positive Change ai British Fashion Awards 2017 come avevo raccontato qui per ADL Mag), Clare Waight Keller (da Givenchy, appena premiata nella categoria Stilista Britannico dell’Anno ai British Fashion Awards 2018)Natacha Ramsay-Levi (da Chloé).

Faceva parte di questo gruppo anche Phoebe Philo per Céline che è stata però sostituita recentemente da Hedi Slimane: lo stilista francese non solo ha fatto un’operazione di rebranding togliendo l’accento dal brand che ora si chiama Celine, ma – giusto parlando di gender gap... – è stato molto criticato in occasione della sua prima sfilata, accusato di diffondere un’immagine retrograda della donna…

(A proposito di Miuccia Prada, tra l’altro, segnalo che è l’unica donna nella classifica della web reputation dei top manager del fashion. Top Manager Reputation è un osservatorio permanente realizzato da Reputation Manager, società che si occupa dell’analisi, gestione e costruzione della reputazione online di aziende, brand, istituzioni e figure di rilievo pubblico. Ogni mese, viene monitorata la reputazione online delle figure all’apice delle principali aziende italiane: in novembre, la stilista-imprenditrice si è piazzata al quinto posto nel ranking, settore moda, che vede in pole position Remo Ruffini e al secondo Diego Della Valle. Se volete, date un occhio qui. Da una parte, la notizia mi fa chiaramente piacere, dall’altro mi fa pensare quanto tutto ciò di cui vi sto parlando sia vero, visto che Miuccia è – lo ribadisco – l’unica donna in classifica…)

Insomma, afferma Pambianco, la moda è un’industria che ruota prevalentemente su prodotti per donne acquistati da donne eppure viene amministrata esclusivamente – o quasi – dagli uomini.

Per me che tanto credo nel women empowerment (e che ne spesso ne parlo), questo è decisamente un colpo dritto dritto allo stomaco, perché la moda è il mondo che amo e in cui mi muovo, la mia dimensione ideale, il mio sogno – ed è invece proprio quello che mi dà la delusione più grande quanto alla questione gender gap.

Forse – aggiungo io – l’unico settore della moda in cui va un po’ meglio per noi donne (e non solo a livello storico) è quello della comunicazione, dagli uffici stampa (fondati e condotti da parecchie donne) alle giornaliste (incluse le direttrici di alcune delle testate più potenti tra cui Vogue con Anna Wintour negli Stati Uniti e la scomparsa Franca Sozzani in Italia).

Ma aggiungo anche altri dati e altra carne al fuoco.

Non voglio scendere ora e qui nel merito dei numerosi scandali sessuali che, a partire dal caso del produttore Harvey Weinstein, hanno portato alla nascita di movimenti – e hashtag – quali #Metoo e #Timesup.

È però doveroso sottolineare che molti di questi scandali sessuali si sono purtroppo consumati in seno alla moda coinvolgendo professionisti di ogni tipo, a partire da fotografi del calibro di Terry Richardson, Bruce Weber, Patrick Demarchelier, Mario Testino e fino ad arrivare allo stylist e direttore creativo Karl Templer.

Gli scandali hanno avuto tale portata che, dopo aver deciso di non lavorare più con alcuni fotografi, il colosso editoriale Condé Nast ha anche istituito un codice di condotta per i suoi shooting fotografici ed è nata Humans of Fashion, una Ong che vuole occuparsi delle molestie nel mondo della moda.

Non va meglio in casa dei vari marchi di moda, sportswear incluso.

L’imprenditore Paul Marciano, co-fondatore del marchio Guess, dopo aver a lungo respinto le accuse mossegli dalla top model Kate Upton, è stato dapprima sospeso da ogni incarico operativo (dopo aver fatto crollare del 17% il titolo in borsa…) e si è infine dimesso.

Le dipendenti donne di Nike hanno sviluppato un questionario per raccogliere testimonianze di episodi di discriminazione e sessismo verificatisi nella sede di Beaverton, in Oregon: i risultati di questa indagine interna sono arrivati nelle mani del numero uno di Nike, Mark Parker, il quale ha dovuto prendere atto della situazione.

D’altro canto, lo stesso capo delle risorse umane di quello che è il primo player dello sportswear al mondo (Monique Matheson, una donna) aveva già evidenziato l’importanza per Nike di accelerare sulla parità di genere.

Ci sarebbe da chiedersi se ci sia un’ipocrisia di fondo in tutto ciò: possibile che nessuno sapesse degli abusi e dei soprusi?

Sono indecisa sulla risposta e, d’altro canto, c’è invece chi continua a buttare benzina sul fuoco, come lo stilista Karl Lagerfeld che, qualche mese fa, si era dichiarato ‘stufo’ di #MeToo e aveva scatenato una nuova polemica…

Ecco perché – in questo scenario – parlo di delusione e di colpo allo stomaco.

E dire che, proprio come afferma Pambianco, in effetti la moda è un’industria che ruota fortemente attorno a prodotti per donne e dunque dovrebbe rispettare noi donne – e non prevaricarci! – e dovrebbe darci voce – e non cercare di spegnerla!

È anche vero che, già in passato, la moda non è si sempre rivelata amica delle donne, anzi, al contrario; ha spesso acuito fisicamente il cosiddetto gender gap e la storia del costume è purtroppo piena di capi che hanno mortificato, nascosto, ingabbiato e imprigionato il corpo della donna in tempi neanche troppo lontani, per esempio durante l’Ottocento con il corsetto e la crinolina.

Crinolina, 1860-1870 (Jacoba de Jonge Collection in <a href="https://www.momu.be/en/" target="_blank" rel="noopener noreferrer">MoMu – Fashion Museum Province of Antwerp</a> – Photo by Hugo Maertens, Bruges – Source <a href="https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Crinoline,_1860-1870._MoMu_-_Fashion_Museum_Province_of_Antwerp,_www.momu.be._Photo_by_Hugo_Maertens,_Bruges.jpg" target="_blank" rel="noopener noreferrer">Wikipedia Commons</a> – file licensed under the <a href="https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0/deed.en" target="_blank" rel="noopener noreferrer">Creative Commons Attribution-Share Alike 3.0 Unported</a>)
Crinolina, 1860-1870 (Jacoba de Jonge Collection in MoMu – Fashion Museum Province of Antwerp – Photo by Hugo Maertens, Bruges – Source Wikipedia Commons – file licensed under the Creative Commons Attribution-Share Alike 3.0 Unported)

Nel XIX secolo e soprattutto nel periodo della cosiddetta Restaurazione (il processo di ristabilimento del potere dei sovrani assoluti in Europa, tra il 1814 con il Congresso di Vienna e i moti del 1830-1831) si diffuse una moda dagli indumenti pesanti, rigidi e fastosi, che spinse le dame a coprirsi interamente.
Si indossava il corsetto, nonostante la disapprovazione e lo sdegno generale dei medici visto che era stretto, soffocante e deleterio per la salute della donna che lo portava.

Sotto, per dare l’impressione di avere la vita ancora più sottile, le signore abbinavano gonne a campana, allacciate alla vita e svasate sul fondo: la mania per l’ampiezza della gonna divenne così eccessiva da rendere necessario il dover ricorrere alla crinolina, un supporto utile a sorreggere il volume dell’abito.

Per spiegare quale oggetto di tortura fosse il corsetto (o busto), riporto nuovamente (le avevo già menzionate qui) le significative parole di Thorstein Bunde Veblen, economista e sociologo statunitense (1857 – 1929).
«Il busto – scriveva Veblen, grande ritrattista della classe agiata – è sostanzialmente uno strumento di mutilazione al fine di ridurre la vitalità del soggetto e di renderla evidentemente inadatta al lavoro.»
Ecco il punto: rendere la donna inadatta al lavoro.
Durante tutto l’Ottocento, la donna doveva avere il cosiddetto vitino di vespa con una circonferenza che non superava i 40 centimetri, in netto contrasto con l’ampiezza delle gonne.
Non ho sbagliato: 40 centimetri, ovvero una follia ed ecco perché le donne svenivano, sfiancate (letteralmente!) da corsetti soffocanti e crinoline dal peso eccessivo.

Tra i sostenitori della crinolina viene ricordato Charles Frederick Worth (1825 – 1895), sarto inglese trapiantato a Parigi: alle idee di Worth si oppose poi un altro celeberrimo stilista, Paul Poiret (1879 – 1944).

Attorno al 1910, Paul Poiret decise di rivoluzionare il campo sartoriale abolendo decisamente il busto e proponendo una linea stile impero, con la vita alta e la gonna stretta e lunga.
«Ho dichiarato guerra al busto», scrisse Poiret nelle sue memorie e mi piace ricordare che, in quegli stessi anni, una straordinaria donna italiana condusse la stessa battaglia contro il corsetto qui nel nostro Paese: si tratta di Rosa Genoni e ho raccontato a lungo di lei qui.

Il danno peggiore del corsetto era quello arrecato agli organi interni che, per effetto della costrizione, potevano addirittura spostarsi dalla loro posizione naturale: in alcuni casi più gravi, gli effetti erano devastanti, come emorragie interne, costole rotte, problemi digestivi e di costipazione.
Qualcuno attribuì addirittura al corsetto anche la capacità di causare isteria e melanconia, ma su questo non esistono riscontri medici e scientifici.

Non crediate che la crinolina fosse più innocua.
A differenza di altri capi di abbigliamento, la crinolina fu indossata dalle donne di ogni classe sociale e, tra le sue problematiche, vi era l’alta infiammabilità: oltre all’incendio, la crinolina poteva provocare anche altri tipi di incidenti, come impigliarsi tra le ruote delle carrozze e non sono rare vignette che mostrano germi e microbi che una gonna che striscia per terra è in grado di catturare.

Se volete saperne di più su questo argomento, mi permetto di suggerire un libro bellissimo: si intitola Fashion Victims – The Dangers of Dress Past and Present ed è stato scritto da Alison Matthews David (potete trovarlo qui).

<em>Fuoco: gli orrori della crinolina e la distruzione della vita umana</em> (illustrazione, circa 1860, photo credit Wellcome Library, Londra)
Fuoco: gli orrori della crinolina e la distruzione della vita umana (illustrazione, circa 1860, photo credit Wellcome Library, Londra)

Avrete notato che, qui sopra, ho scritto la frase le signore abbinavano gonne a campana, frase che fa pensare che siano state le donne stesse a volere tutto ciò e – forse – in parte è vero: la donna ha sofferto così a lungo di una condizione sociale sfavorevole da arrivare al punto che, spesso, siamo state noi stesse convinte di non poter avere altro ruolo – e altro abbigliamento.

Ma, a un certo punto, la donna ha compreso che la moda poteva diventare un’amica, poteva essere uno strumento.
E tale è diventata in un momento in cui affermare il proprio pensiero – o la propria indipendenza – non era ancora né facile né scontato.

La moda si è trasformata piano piano in mezzo per comunicare molte cose, a partire dall’identità, e finalmente la donna ha compreso di poter scegliere forme e colori: è stato l’inizio di un processo di liberazione e – come ho scritto in altre occasioni – di un processo a doppio senso, ovvero la moda ha avuto influenza sull’emancipazione femminile e l’emancipazione femminile ha avuto influenza su moda e abiti.

(Per inciso: insieme a quello della maestra, il mestiere di sarta è stato uno dei primi a permettere alle donne di avere un lavoro e un ruolo fuori dal contesto domestico.)

Perché dobbiamo ricordare sempre che i nostri abiti sono la prima cosa che le persone vedono di noi e tali abiti parlano di noi e per noi ancora prima che possiamo aprire bocca: fanno parte della cosiddetta comunicazione non verbale, così come ne fa parte il linguaggio del nostro corpo, dunque pose e gesti.
In tutto ciò io non vedo un limite, ma una possibilità, a patto di esserne consapevoli e, dunque, a patto di scegliere liberamente cosa vogliamo comunicare attraverso abiti che ci rappresentino veramente.

Oltre a Rosa Genoni, ho raccontato di altre donne che hanno compreso tutto ciò e che l’hanno sfruttato in senso positivo lottando contro il gender gap anche attraverso i capi di abbigliamento.

Ho raccontato, per esempio, di Amelia Bloomer (qui), attivista e scrittrice che nella seconda metà dell’Ottocento lanciò i Bloomers, i primi pantaloni da signora ispirati alla tradizione turca (e ripresi poi anche dallo stesso Poiret a inizio Novecento); ho raccontato anche di Elizabeth Arden, pioniera di quell’industria cosmetica che va da sempre a braccetto con la moda e ho raccontato (qui) come sia stata una delle fautrici della definitiva affermazione del rossetto rosso come simbolo di consapevolezza della nostra forza e capacità.

Detto tutto ciò…

Possiamo accettare di tornare indietro?

Potremmo mai accettare di tornare a tempi in cui un corsetto serviva a rendere la donna inadatta al lavoro?

Certo che no, lo reputiamo impensabile, ma a mio avviso non è neanche accettabile che oggi il gender gap consista nel rendere difficile a noi donne l’accesso ai posti chiave della moda: a me sembra una forma insopportabile in quanto più sottile e più subdola…

<em>Empress Elisabeth of Austria in Courtly Gala Dress with Diamond Stars,</em> olio su tela datato 1865, autore Franz-Xavier Winterhalter (1805 – 1873). <strong>E volete sapere di chi è l’abito? Di Charles F. Worth!</strong> (Dalla collezione della ex residenza imperiale <a href="https://www.hofburg-wien.at/en/" target="_blank" rel="noopener noreferrer">Hofburg</a> a Vienna – Source <a href="https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Empress_Elisabeth_of_Austria_with_diamond_stars_on_her_hair.jpg" target="_blank" rel="noopener noreferrer">Wikimedia Commons</a> – file in the public domain including<a href="https://commons.wikimedia.org/wiki/Commons:Copyright_tags#United_States" target="_blank" rel="noopener noreferrer"> the US</a>)
Empress Elisabeth of Austria in Courtly Gala Dress with Diamond Stars, olio su tela datato 1865, autore Franz-Xavier Winterhalter (1805 – 1873). E volete sapere di chi è l’abito? Di Charles F. Worth! (Dalla collezione della ex residenza imperiale Hofburg a Vienna – Source Wikimedia Commons – file in the public domain including the US)

A questo punto, sono pronta a enunciare la mia teoria: dobbiamo essere noi donne per prime a capire il nostro potenziale e a lottare contro il gender gap e a favore della nostra affermazione.

Possiamo e dobbiamo farlo anche rivendicando il nostro ruolo nella moda, che va dal decidere come vestire ad avere ruoli determinanti nella relativa industria, così come hanno fatto in passato le già citate Rosa Genoni, Amelia Bloomer, Elizabeth Arden – ma potrei citarne tante altre, come per esempio Coco Chanel della quale ho raccontato qui – e così come continuano a fare oggi le figure contemporanee che ho menzionato (nonché altre che aggiungerò a breve).

Sapete cosa prevede in dettaglio la mia teoria?

Io credo che uomini e donne siano differenti ma credo fermamente che questa differenza non rappresenti un problema, bensì un’opportunità, una ricchezza, una risorsa.
Credo nelle persone di buona volontà e di talento, siano esse di sesso femminile o maschile.
Credo che se una donna occupa la stessa posizione lavorativa di un uomo e lo fa con le stesse competenze, la stessa preparazione e le stesse capacità abbia tutto il diritto di avere anche lo stesso compenso.
Credo nella parità di doveri e diritti per uomini e donne.

Credo che molto debba essere ancora fatto affinché uomini e donne vivano gli uni fianco alle altre senza alcun presupposto di superiorità da parte di nessuno, né uomini né donne.
Non voglio essere trattata da ‘quota rosa’, non voglio ottenere un lavoro perché faccio parte di una ‘categoria protetta o da proteggere’ però voglio invece ottenerlo se e quando lo merito.
Non chiedo di avere più opportunità oppure opportunità favorite perché sono donna; semplicemente, non voglio avere meno possibilità perché sono donna.
È diverso. Molto diverso.
A parità di preparazione e competenze, voglio avere le stesse chance che ha un uomo: questa è uguaglianza, ma non voglio fare parte di una minoranza da proteggere o tutelare.

Già, devo ammettere la verità: come ho appena scritto, molto deve essere ancora fatto e quella del gender gap, purtroppo, è una questione ancora aperta e i numerosi equality matters che si presentano in ogni campo e quasi ovunque nel mondo ne sono la (triste) dimostrazione.

Volete una prova pratica?

Nel 2006, il World Economic Forum ha creato il Global Gender Gap Report, uno studio che analizza e mostra ampiezza e portata del divario di genere in tutto il mondo.
Per ogni nazione, l’indice fissa uno standard di tale divario basandosi su criteri economici, politici, di educazione e salute; fornisce inoltre una classifica dei Paesi, permettendo un confronto efficace tra regioni e gruppi di reddito nel tempo.
Le classifiche vengono realizzate per creare maggiore consapevolezza a livello mondiale: la metodologia e l’analisi quantitativa sono destinate a servire come base per la progettazione di misure efficaci per la riduzione delle disparità di genere.

Il 17 dicembre è stato pubblicato il Global Gender Gap Report 2018: se volete approfondire, lo trovate qui.

Volete sapere com’è andata per l’Italia?
Ecco qui il dettaglio, mentre io vi riassumo qualche dato: siamo al 70° posto su 149 Paesi analizzati con un punteggio di 0,706 (i parametri limite sono zero per disparità di genere e uno per la parità).
Non è andata benissimo, insomma, siamo un po’ più su di metà classifica: nel 2006 eravamo al 77° posto su 114 Paesi con un punteggio di 0,646.

Siamo il primo Paese al mondo – il primo! – per quantità di donne che si iscrivono a percorsi di formazione terziaria, ovvero università e studi equiparati, e questa è una notizia grandiosa; tuttavia, siamo 118° quanto a economic participation and opportunity, ovvero per partecipazione alla vita economica e opportunità e in questo siamo peggiorati, poiché nel 2006 eravamo 87° (o forse sono migliorati di più gli altri e noi siamo fermi…)

Tornando alla moda…

Da ciò che ho scritto fin qui, sembrerebbe che, dopo essere stata un’amica per le donne aiutandoci ad affermare noi stesse e a trovare consapevolezza e voce, oggi sia tornata a essere un po’ nemica come ai tempi del corsetto, tra minori opportunità e soprusi vari.

Eppure, se da una parte sembra che la moda non sia davvero un lavoro per donne, dall’altro io vedo invece buone possibilità perché lo diventi e perché sia ancora una volta strumento nel superamento del gender gap.

Perché affermo questo?

Per esempio perché so di non essere l’unica a pensare certe cose e soprattutto perché so che tanti uomini sono a favore dell’uguaglianza di doveri e diritti così come sono disgustati da violenza e soprusi.

Cito lo stilista Sergei Grinko che recentemente ha dedicato tutta la sfilata FW 2018 – 19 per affermare a gran voce il suo sdegno verso la questione della violenza sulle donne.

Non solo: se – come raccontavo in principio – è vero che in termini di direzione stilistica dei marchi moda la disparità è tuttora forte, qualche segno positivo arriva invece riguardo posizioni di prestigio sia per quanto riguarda la gestione economico-finanziaria sia per quanto riguarda quella decisionale e organizzativa.

Lo scorso 11 ottobre, si è sparsa per esempio la notizia della nomina del nuovo amministratore delegato dell’iconica maison francese Jean Patou, pronta a rivivere oggi sotto l’ala del colosso LVMH: si tratta di Sophie Brocart, manager che proviene già dalla holding finanziaria in quanto dal 2015 è ai vertici del brand Nicholas Kirkwood, oltre a ricoprire un ruolo di primo piano nello scouting e mentoring di nuovi talenti per il Prix LVMH.

Sempre negli stessi giorni, è giunta la notizia relativa a una giovane donna italiana (italiana, sì!) nominata per un ruolo prestigioso: Elena Carrettoni è stata nominata responsabile del calendario ufficiale della Paris Fashion Week dalla Fédération de la Haute Couture et de la Mode (FHCM), l’equivalente della Camera Nazionale della Moda Italiana (CNMI).

Sarà quindi un’italiana a ricoprire uno dei ruoli più delicati all’interno della Fédération, quello di direttore d’orchestra dei calendari: Elena «avrà il compito di coordinare il calendario della Paris Fashion Week sia donna sia uomo e di quello della settimana della Haute Couture”, così come ha precisato la stessa FHCM in un comunicato stampa ufficiale.

Dopo aver completato gli studi all’Istituto Marangoni di Milano e in seguito ad alcune esperienze lavorative importanti (è stata in Prada dal 2003 al 2006), la Carrettoni si è trasferita a Parigi iniziando a lavorare presso la Fédération già nel gennaio 2007: la sua ascesa nell’organo più prestigioso di una delle capitali assolute della moda non può che essere qualcosa di cui essere orgogliosi.

Belle notizie anche da McArthurGlen che sarà guidato da due donne: il gruppo, che detiene, sviluppa e gestisce outlet, ha reso nota già in settembre la nomina di Susie McCabe come sua prima deputy CEO.
La manager, in precedenza vice-president del retail globale di Under Armour, ha passato 16 anni in Ralph Lauren: nel nuovo ruolo, McCabe riporterà al presidente dell’azienda, JW Kaempfer, e alla CEO Julia Calabrese, che andrà così ad affiancare.
Nel 2017, McArthurGlen ha raggiunto un fatturato di 4,5 miliardi di euro, in crescita del 12,5 per cento: lo dico per sottolineare che il ruolo di McCabe e Calabrese è in seno a un’azienda importante e in pieno fermento.

E se ho evidenziato con tanto scrupolo i cv di Sophie Brocart, Elena Carrettoni e Susie McCabe è perché i loro esempi sono perfetti per dare peso a ciò che ho scritto: a parità di competenze, preparazione e capacità, donne e uomini devono avere lo stesso diritto di accedere a posizioni di prestigio, naturalmente con lo stesso range di compenso.

E poi conto sul fatto che anche la politica si occupi con più decisione della questione gender gap, lo confesso.

Per questo conto su Alberto Bonisoli, il ministro dei Beni e delle Attività Culturali nel governo Conte.
Bonisoli conta in curriculum diverse esperienze nel settore moda tra cui spicca il ruolo di direttore della Naba, Nuova Accademia di Belle Arti di Milano.
Lo scorso giugno, in occasione di Pitti Uomo, uno dei saloni più importanti per la moda, Bonisoli ha detto qualcosa che ha catturato la mia attenzione: la moda è cultura e come tale va valorizzata in un’operazione estesa a livello di formazione e consapevolezza sul territorio (potete leggere tutti i punti ancora una volta in un articolo di Pambianco).

Ecco, signor ministro, spero che formazione e consapevolezza riguardino anche la delicata questione del gender gap.

Perché io continuo a sperare che, un giorno, guardando a questa nostra epoca ancora lontana (purtroppo) dall’eguaglianza, si possa sorridere, esattamente come oggi si può sorridere pensando a un tempo in cui a noi donne era vietato indossare i pantaloni o in cui eravamo costrette ad annaspare soffocate da corsetti e crinoline.

Ecco perché ho deciso di pubblicare questo post ora, dopo mesi di riflessioni.

Mi sembra il modo migliore per chiudere un 2018 non particolarmente esaltante per quanto riguarda le pari opportunità e per guardare invece con fiducia a un 2019 che, francamente, spero poter essere decisamente migliore, in Italia e non solo.

Manu

 

 

 

 

 

Dedicato alla vibrante e imperitura memoria
di Gabriel Darcangeli.

Questo è un articolo / post al quale tengo molto:
ci ho lavorato per mesi, raccogliendo documentazione e testimonianze,
e tratta un argomento che mi sta particolarmente a cuore:

mi permetto di dedicarlo a un amico speciale
che ha lasciato un vuoto immenso

Ho sempre pensato che dimenticare sia la sventura più grande che possa capitare a noi uomini,
per quanto riguarda la Storia con la S maiuscola
e anche per quanto riguarda la nostra storia personale.
Per questo, fin da bambina, ho iniziato a scrivere e a tenere diari,
per questo tengo questo blog…

Io non dimentico. Non ti dimentico.
28 dicembre 2016 – 28 dicembre 2018:
continuo a avere i brividi di freddo esattamente come due anni fa,
in quel cimitero immenso e assolato…

 

 

 

 

 

Sono emozionata, felice e orgogliosa di veder citato il cuore di questo mio pezzo
(soprattutto pensando che nel frattempo
sono passati ben quattro anni dalla pubblicazione!)
nella tesi di laurea di Giorgia (qui il suo post, 2° foto),
brillante studentessa che mi ha scritto nel 2022
chiedendomi l’autorizzazione in quanto positivamente colpita (qui la storia…)

 

 

 

 

 

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Manu

Mi chiamo Emanuela Pirré, Manu per gli amici di vita quotidiana e di web. Sono nata un tot di anni fa con una malattia: la moda. Amo la moda perché per me è una forma di cultura, una modalità di espressione e di comunicazione, un linguaggio che mi incuriosisce. Scrivo e creo contenuti in ambito editoriale, principalmente proprio per la moda. Insegno (Fashion Web Editing, Storytelling, Content Creation) in due scuole milanesi. Vivo sospesa tra passione per il vintage e amore per il futuro e sono orgogliosa della mia nutrita collezione di bijou iniziata quando avevo 15 anni. Per fortuna Enrico, la mia metà, sopporta (e supporta) entrambe, me e la collezione, con pazienza e amore. Oltre a confessare un'immensa curiosità, dichiaro la mia allergia a pregiudizi, cliché, luoghi comuni, conformismo e omologazione. Detesto i limiti, i confini, i preconcetti – soprattutto i miei – e mi piace fare tutto ciò che posso per superarli. La positività è la mia filosofia di vita: mi piace costruire, non distruggere. Moda a parte, amo i viaggi, i libri e la lettura, l'arte, il cinema, la fotografia, la musica, la buona tavola e la buona compagnia. Se volete provare a diventare miei amici, potete offrirmi un piatto di tortellini in brodo, uno dei miei comfort food. Oppure potete propormi la visione del film “Ghost”: da sognatrice, inguaribile romantica e ottimista quale sono, riesco ancora a sperare che la scena finale triste si trasformi miracolosamente in un lieto fine.

Glittering comments

Florisa Sciannamea
Reply

Mia cara immensa amica ho letto e “bevuto” le tue parole, le tue osservazioni sottili e affilate come lame…la tua “arringa” meravigliosa.”Signori giurati dopo tutto questo , qual è la vostra sentenza?”. Bravissima come sempre …mentre leggevo rimestavo dentro il mio calderone di esperienze come fashion designer e la rabbia montava come una tempesta che arriva da lontano. Quante volte, quante volte mi sono scontrata con i dirigenti testosteronici che decidevano cosa potesse piacere e stare meglio alle donne per le quali io creavo. Nulla di ciò che per loro “era giusto e bello” corrispondeva a ciò “che è giusto e bello” per la donna. Ma loro erano i dirigenti, i manager , gli unici a detenere il potere decisionale : i maschi alfa . E non voglio nemmeno scrivere del rapporto con i designer dell’altro sesso o quasi…Noi donne travestite da fantocci informi o da ballerine da lap dance e tutte rigorosamente in taglia 38/40. Le disparità sono notevoli in tutti i settori purtroppo e la battaglia è lunga ancora tantissimoi, ma noi siamo pronte e sul campo da tempo. Solo a pallettoni ci possono fermare …ma forse neanche quelli. Un abbraccio cara grande Manu .<3 <3 <3 bacissimi

Manu
Reply

Florisa, Adorata Amica Mia…

Chi meglio di te avrebbe potuto comprendere le mie affermazioni, soprattutto quelle sottili e affilate, come le hai definite (wow…)?
E dunque permettimi di dirti il mio sincero GRAZIE, scritto proprio così, tutto maiuscolo.

Ma ancora più grande è il ringraziamento per aver condiviso la tua vibrante testimonianza da fashion designer, tanto vibrante, intensa, indignata da rendere superfluo qualsiasi mio commento…
Consentimi solo di sottolineare alcune tue parole forti, è vero, ma dolorosamente vere.
«Noi donne travestite da fantocci informi o da ballerine di lap dance e tutte rigorosamente in taglia 38/40.»

Ahi, fitta di dolore…

Vogliamo rifletterci su questo? Molto seriamente, però.

Con affetto, stima e gratitudine,
Tua Manu – bimba al Luna Park

P.S.: Hai ragione su un’altra cosa… non ci fermeranno, nemmeno a pallettoni. Purtroppo, il viziaccio di ragionare con la nostra testa non l’abbiamo perso finora e credo non lo perderemo più… per fortuna, anche se spesso non ci arreca certo vantaggio, anzi…

Frati Laura Lavinia
Reply

Ciao carissima Manu, come ti avevo già detto, con questo articolo hai proprio superato te stessa. È completo e si capisce tutta la grande ricerca che hai dovuto fare. Ti fa riflettere ed anche un po’ arrabbiare però senza essere polemico. Si riconosce la tua penna, il tuo bisogno di esprimere senza alcun velo quello che pensi ma con la solita sfumatura di ottimismo che caratterizza e dà colore alla tua scrittura. Inoltre sono felicissima che l’hai dedicato ad una persona tanto speciale…
Che altro dire, grazie Manu ❤❤❤

Manu
Reply

Aspetta, Laura cara, aspetta un attimo, ho bisogno di sedermi…
Sono un pochino emozionata e barcollo…

Grazie, grazie, grazie per l’attenzione estrema con cui hai letto questo scritto!
Grazie per l’analisi precisa, per aver parlato di riflessione, di rabbia priva di vena polemica, di bisogno di non avere veli eppure di lasciare la porta aperta all’ottimismo.
E grazie per aver detto che la mia scrittura ha colore: ora posso svenire!

Ma la cosa che più di tutte mi rende felice è sapere che una persona che ha conosciuto Gabriel abbia apprezzato l’omaggio.
Un omaggio nei confronti di una persona che era davvero speciale, poiché era pieno di una vibrante passione; una persona che aveva una penna riconoscibilissima, che amava la verità e che non aveva paura di esporsi.

Dunque il grazie è anche da parte mia, immenso.

Un abbraccio,
Manu

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