Prova costume? Dico il mio deciso “NO, GRAZIE” e vi spiego perché

Capita tutti gli anni, piuttosto puntualmente: pare che il caldo dia alla testa a molti, perfino nelle redazioni di giornali prestigiosi e stimati.

L’anno scorso è capitato con Chloë Moretz, attrice e modella statunitense, presa di mira da Io Donna, il femminile del Corriere della Sera.

Un femminile, ebbene sì, ovvero un giornale che dovrebbe stare dalla parte delle donne e assecondare la loro emancipazione sotto tutti i punti di vista.

Ebbene, Io Donna pubblicò una foto che ritraeva Brooklyn, figlio di David e Victoria Beckham, mano nella mano con Chloë, sua fidanzata: sotto, fu messa una didascalia che li definiva coppia dell’estate nonché un ulteriore commento molto illuminato e illuminante.

Quale? «Sono inseparabili. L’attrice non si separa mai neppure dagli shorts. Peccato non sia così magra da poterli indossare con disinvoltura.»

Lei, Chloë, ovvero una ragazza nata nel 1997, oggi 20enne, l’età della freschezza e di un pizzico di sana impertinenza, anche nel guardaroba, soprattutto se estivo.
Una ragazza con una corporatura assolutamente normale e sana.

Poco tempo dopo, come se non fosse bastato questo episodio davvero poco edificante, è stato un altro giornale a farsi portatore di un altrettanto inqualificabile capitolo di quella che mi è apparsa come una gara perversa al body shaming.

In occasione dei Giochi Olimpici di Rio de Janeiro, capitò infatti che, nella specialità del tiro con l’arco, il trio delle atlete italiane fosse stato sconfitto in semifinale: l’eliminazione delle azzurre Claudia Mandia, Lucilla Boari e Guendalina Sartori fu elegantemente – sì, sono ironica – sottolineata da Il Resto del Carlino.

Come? «Il trio delle cicciottelle sfiora il miracolo olimpico.»

Cicciotelle.

Tre atlete, brave e capaci tanto da gareggiare ai Giochi Olimpici, ridotte ai loro corpi, ridotte a una manciata di chili in più o in meno, in una specialità – tra l’altro – in cui avere un certo tipo di corporatura è normale.

Non ho parole, sul serio.

Rimasi talmente scossa da dedicare un post qui nel blog ai due episodi (dopo aver ritrovato la parola), incluso il racconto del frettoloso dietrofront di Io Donna e la sospensione dall’incarico del direttore della sezione sportiva de Il Resto del Carlino.

Sopra: <em>Io Donna</em> e gli shorts di Chloe Moretz / Sotto: <em>Il Resto del Carlino</em> e il commento sulle atlete olimpiche (photo credit Rudy Bandiera)
Sopra: Io Donna e gli shorts di Chloe Moretz / Sotto: Il Resto del Carlino e il commento sulle atlete olimpiche (photo credit Rudy Bandiera)

Caldo o non caldo, constato – con grande tristezza – come e quanto la fisicità femminile sembri essere diventata una delle ossessioni della società contemporanea, tanto da far diventare il body shaming atteggiamento avvallato perfino da giornali di illustre tradizione, lo ripeto, e non da testate di chiaro stampo scandalistico (non che sarebbe perdonabile o giustificabile, per carità).

In un momento storico e sociale in cui si dovrebbe cercare più che mai di far leva sull’accettazione e sul concetto di salute e benessere, tutto ciò è – a mio avviso – gravissimo: quale razza di messaggio può mai arrivare alle donne, soprattutto alle giovani e giovanissime, le più fragili in materia di autostima?

Ma non è finita, amici miei: se lo scorso anno l’ossessione sembrava essere quella per il corpo (soprattutto delle donne, ma esistono episodi altrettanto tristi ai danni dei signori uomini), quest’anno l’attacco tocca maggiormente la posizione femminile nella società e non è certo cosa meno becera e fastidiosa – anzi.

E ho – purtroppo – tre esempi concreti.

Ad aprire le danze è stata la fotografia scelta da Vogue Italia per rappresentare e diffondere il Photo Vogue Festival 2017, ovvero il festival dedicato alla fotografia di moda e che il 15 novembre inaugurerà la sua seconda edizione dopo essere stato lanciato nel 2016.

Qual è la foto scelta? Una donna sdraiata per terra, tenuta ferma da un piede maschile che le schiaccia la gola.

No comment.

Di fronte alla scelta di tale immagine (che se volete potete vedere qui in un post di FashionTimes, rivista che è stata tra coloro che si sono subito mossi), il web non è rimasto a guardare: sono stati moltissimi i commenti di dissenso che hanno veicolato il pensiero che quella immagine nulla avesse a che vedere con l’idea di arte e moda che il Festival dovrebbe invece diffondere.

Molti hanno (giustamente!) osservato come lo scatto fosse associabile a un messaggio non esattamente lodevole, quello di una donna oggetto, con un’immagine che incoraggiava la discriminazione offensiva e stupida nonché la violenza in un’epoca in cui, purtroppo, l’argomento della violenza di genere è fin troppo attuale.

Perché uso il passato? Perché – per fortuna – a Vogue hanno intelligentemente considerato il malumore serpeggiante nel web e hanno cambiato la cover nel sito, vedere per credere.

Il secondo esempio viene dal settimanale Panorama che, per il numero uscito il 13 luglio, ha pubblicato una cover intitolata «Non si trova più un buon partito da sposare» con la foto di una ragazza in abito da sposa che piange disperata.

Caso mai il messaggio non fosse chiaro, ci pensa la didascalia.

«C’era una volta l’uomo ideale, con un lavoro ben pagato e sicuro. Complice la crisi e la rivoluzione tecnologica, ora non è più così. Ecco dove guardare per assicurarsi un ‘tesoro’ di marito.»

In altre parole, nel 2017, anziché assecondare l’evoluzione dall’unico modello di famiglia una volta possibile (quello che prevedeva necessariamente marito lavoratore – moglie casalinga – figli) a un modello che sia un tantino più aperto e moderno, anziché assecondare l’emancipazione femminile, il caro Panorama preferisce invece spalleggiare il luogo comune secondo il quale le donne debbano accasarsi come loro unica prospettiva, naturalmente con un tesoro di marito.

Figuriamoci, neanche a prendere in considerazione di studiare e costruirsi un proprio futuro né di fare un matrimonio d’amore.

Ha ragione la mia amica Silvia che, nel suo account Instagram, ha pubblicato un post lievemente inc…, ehm, risentito: complimenti, cari amici di Panorama (altra testata che, tra l’altro, ho sempre considerato di consolidato prestigio), siete riusciti a disegnare un disastroso scenario che odora di sessismo, anzi, proprio parafrasando il vostro nome, parlerei di… panorama desolante.

Il terzo brutto esempio viene purtroppo da ciò che è avvenuto nel web quando la rete BBC ha annunciato l’identità del tredicesimo Doctor Who, la sua serie cult in onda dal 1963 e ripartita nel 2005.

Sarà Jodie Whittaker, «attrice straordinaria, dotata di grande personalità e fascino», a sostituire l’attuale Peter Capaldi a fine 2017: la risposta del web?

«Una femmina che salva il mondo? Maddai»: questo è stato in generale l’urlo retrogrado del web che, stavolta, contrariamente a quanto avvenuto con la cover del Photo Vogue Festival, ha mostrato invece parecchia arretratezza nonché inclinazione agli stereotipi (leggete questo interessante articolo di Vanity Fair).

Ecco, quando leggo certe cose mi viene un pochino di depressione, lo confesso, e mi chiedo perché mi ostino a parlare – e a credere – a cose che suonano talvolta come beffarde illusioni.

Mi riferisco al mio impegno sul fronte di women empowerment, parità di genere, lotta al sessismo e a tutti i condizionamenti sociali e via discorrendo.

Non solo…

Mentre in Italia e in Europa accade quanto sopra, ci sono altre donne che, in giro per il mondo, lottano per libertà che a noi sembrano scontate attraverso varie forme di happening atte a mettere in discussione un ordine tirannico, donne che vengono arrestate per aver indossato una minigonna: succede nella ricca Arabia Saudita, leggete l’articolo de La Stampa.

Sembra che la ragazza sia stata poi rilasciata – così almeno dichiarano le autorità saudite.

Ecco, mentre accade tutto ciò, in Europa e in Arabia, nel web e nelle strade, noi donne occidentali (ma anche uomini, diciamolo pure un’altra volta che tocca un po’ tutti, purtroppo) crediamo di essere libere e continuiamo invece a farci tiranneggiare da tante (troppe) forme di schiavitù mentale e sociale.

Se state pensando «ma cosa va dicendo questa pazza, noi viviamo in Paesi liberi e non in Arabia Saudita», vi menziono allora un altro esempio, magari stupido eppure concreto e molto pratico.

Menziono le due terribili parole che tanto incutono terrore a noi occidentali (tutti o quasi) in questo periodo pre-vacanze, parole che ci riportano tra l’altro alla questione body shaming.

Prova costume.

Ebbene sì, la famigerata, temibile, fatidica prova costume che si avvicina con le tanto agognate ferie estive.

La scadenza più temuta, per molti perfino più temibile del termine per la presentazione della dichiarazione dei redditi o degli esami di maturità.

Quella che ci fa tremare neanche fosse la temibile polizia religiosa saudita altrimenti detta Comitato per la promozione della virtù e la prevenzione del vizio (non commento tale nome, è meglio).

Quotidiani, settimanali, mensili, magazine, riviste, nel web e su carta: di qualsiasi tipo siano i giornali che leggiamo, ovunque non ci viene consigliato altro che diete e strategie per avere un perfetto corpo da spiaggia e per arrivare vincenti (?!) alla prova costume.

E non è una mania nuova, ogni anno l’argomento torna in auge e tiene banco, come il peggiore dei tormentoni.

Tant’è che, già lo scorso anno, scrissi un articolo per SoMagazine, con il mio deciso no, grazie alla schiavitù mentale della prova costume.

E così, in nome di questo spauracchio che terrorizza donne e uomini (in questo la prova costume è democratica…), da settimane leggiamo titoli tipo «Perdi due chili in meno in una settimana» oppure «I consigli dell’esperta per dimagrire senza rinunce».

Si parla infatti solo – o quasi – di dimagrire in base a rimedi dell’ultimo minuto oppure si fa la radiografia alle celebrità, alla ricerca di un centimetro di cellulite o di altri inestetismi (che parola orrenda).

Altri giornali ancora danno enfasi a fenomeni assurdi, come il thigh gap.

Cos’è? È quello spazio di qualche centimetro tra una coscia e l’altra che ossessiona soprattutto milioni di adolescenti in tutto il mondo e che sui social è diventata una specie di regola secondo la quale, stando in piedi, le cosce non devono mai toccarsi, lasciando un varco in mezzo alle gambe.

Mi dicono i bene informati che, dallo scorso anno, a tenere banco sul web c’è un’ulteriore tendenza che si chiama ab crack: consiste nello sfoggiare un solco sugli addominali, una sorta di crepa che parte dal seno e arriva all’ombelico, frutto – parrebbe – di un duro allenamento in palestra.

Pensate che lo sconforto che la solo idea di scoprirci in spiaggia può generare sulla nostra autostima ha addirittura un nome: è stato chiamato bikini blues e si avvicina a una patologia.

Secondo uno studio realizzato in Australia da Marika Tiggemann, psicologa presso la Flinders University, al momento di scoprirsi – e ancor più in quello della scelta del costume da bagno – il cervello si sdoppia, separando la mente razionale dal corpo: in poche parole, prendiamo letteralmente le distanze da quest’ultimo per valutarlo come un oggetto distinto, bersaglio di critiche ingenerose e spesso molto negative.

Come a dire che i peggiori giudici di noi stessi… siamo proprio noi, come ho scritto in tante altre occasioni.

Una bellissima <a href="https://www.instagram.com/p/BVGOkFfFKmv/" target="_blank" rel="noopener noreferrer">illustrazione</a> che parla di tanti modelli possibili opera di Tyler Feder, brava artista americana che trovate su <a href="https://www.instagram.com/tylerfeder/" target="_blank" rel="noopener noreferrer">Instagram</a> e su <a href="https://www.etsy.com/shop/roaringsoftly" target="_blank" rel="noopener noreferrer">Etsy</a>
Una bellissima illustrazione che parla di tanti modelli possibili opera di Tyler Feder, brava artista americana che trovate su Instagram e su Etsy

Non so voi, ma io mi sento accerchiata, assediata, ossessionata e, a questo punto, vorrei condividere alcune considerazioni.

Prima considerazione: questa espressione è davvero orribile e mi piacerebbe tanto sapere chi l’ha inventata.

Prova costume? E cosa dobbiamo provare? E a chi? E perché?

Siamo forse frutta o verdura o carne esposta in bella mostra sui banchi di un supermercato?

«Mi dia due etti di pesche, per favore, e che siano belle mature.»

«Mi dia mezzo chilo di fettine di pollo, per favore, tagliate sottili.»

«Signora, ci sono 50 grammi in più di prosciutto, cosa faccio, lascio?»

Così si fa al supermercato.

Vogliamo questo?

Ribelliamoci!

Seconda considerazione: coerente rispetto a quello che è sempre stato il mio messaggio, rivolgo a noi tutti un unico invito, ovvero vogliamoci bene. Ma sul serio.

Sussurro – anzi, pronuncio con voce chiara – l’invito a non essere vittime della prova costume: cerchiamo di condurre una vita il più possibile sana sempre, non due o tre mesi prima delle vacanze al mare, e cerchiamo di evitare ciò che sappiamo farci male. E se qualche volta facciamo degli strappi alla regola non condanniamoci ed evitiamo sensi di colpa e rimorsi – quelli sì fanno davvero male!

Perseguiamo gli obiettivi di salute e reale benessere, sempre, tutto l’anno, non solo pensando al costume e alla spiaggia, per rispetto verso noi stessi e verso quel corpo che è il nostro unico involucro per tutto il tempo che ci è concesso su questa Terra, eppure non facciamo diventare ciò una mania e l’unico scopo, per giunta spesso solo estetico ed esteriore.

Curare salute e benessere significa anche essere giusti con noi stessi, severi quando serve ma talvolta anche indulgenti.

Concediamoci qualche sbavatura, qualche imperfezione. Accettiamoci, con pregi e difetti.

Non facciamoci tiranneggiare dai luoghi comuni che ci vorrebbero perfetti a tutti i costi, qualunque sia il prezzo da pagare: ricordiamoci sempre che il primo passo per stare bene è piacere a noi stessi più che agli altri, essere ironici e non prenderci troppo sul serio, perché ammettere i propri difetti è un punto di forza e non di debolezza.

Terza considerazione: anziché sbirciare foto di improbabili thig gap e ab crack, anziché sognare su foto di presunte perfezioni magari ottenute a colpi di Photoshop più che in palestra, guardiamo piuttosto gli esempi sani offerti da persone che sanno mettersi in gioco e sorridere e cerchiamo di praticare una migliore empatia con il nostro prossimo.

Se imparassimo a praticare un po’ più di solidarietà e comprensione gli uni verso gli altri e se anziché puntare il dito e deridere pensassimo invece a sorridere – lo ripeto – prima di tutto di noi stessi… se riuscissimo a fare tutto ciò saremmo più leggeri, in tutti i sensi, più empatici, e credo che la prova costume non avrebbe più alcun senso di esistere.

Pensiamoci la prossima volta, magari prima di scrivere un commento pesante nei confronti di qualcuno…

Certo, quando il sarto francese Louis Réard pensò al costume più ridotto, ovvero il bikini, sapeva benissimo di fare qualcosa che avrebbe fatto scandalo, ma di certo non immaginava che saremmo arrivati alla prova costume con relativa demonizzazione di cellulite, imperfezioni e inestetismi (ho già scritto che trovo siano parole bruttissime?).

Sopra: Louis Reard, il papà del bikini / Sotto: Micheline Bernardini, la modella del primo bikini
Sopra: Louis Reard, il papà del bikini / Sotto: Micheline Bernardini, la modella del primo bikini

Quando il bikini fu presentato al mondo, esattamente il 5 luglio del 1946, non fu infatti accolto benissimo – e certo non perché si pensasse a cellulite e prova costume.

Réard, l’inventore, sapeva che il suo costume avrebbe avuto effetti dirompenti tant’è che decise di dargli quel nome che richiama l’atollo di Bikini nelle Isole Marshall, il luogo in cui, negli stessi anni, gli Stati Uniti conducevano test nucleari. Il sarto aveva giustamente immaginato che la sua creazione avrebbe avuto effetti altrettanto esplosivi, sebbene in un altro ambito e in diverso modo.

Pensate che Réard ebbe difficoltà a trovare una modella che osasse indossarlo per la presentazione: alla fine, fu Micheline Bernardini, danzatrice e spogliarellista del Casino de Paris, l’unica a prestarsi. E pensate che ci vollero diversi anni perché il bikini fosse accettato negli Stati Uniti, tanto che nel 1951 fu proibito al concorso per Miss Mondo.

Ma nel 1956, il bikini di Brigitte Bardot nel film E Dio creò la donna di Roger Vadim cambiò le cose dando il via alla consacrazione di questo costume.

Dopo di lei, il bikini fu indossato da altre bellissime star del cinema, tra le quali mi piace ricordare Ursula Andress in Agente 007 Licenza di uccidere.

A proposito, aggiungo una curiosità per chi pensa che il bikini sia un appannaggio del Novecento: in realtà, costumi a due pezzi furono indossati già nell’antichità, come risulta dal ritrovamento di affreschi e mosaici di epoca greca e romana. I più antichi risalgono addirittura al 1400 avanti Cristo (se vi va, qui trovate il mio articolo con tutta la storia del bikini, sempre per SoMagazine).

Dalla Bardot alla Andress, donne con splendide curve: supererebbero oggi la prova costume e i suoi moderni criteri tra thig gap e ab crack?

La supererebbero le antiche donne greche e romane?

Non lo so, credetemi…

Brigitte Bardot nel film <em>E Dio creò la donna</em> di Roger Vadim
Brigitte Bardot nel film E Dio creò la donna di Roger Vadim
Sopra: Ursula Andress nel film <em>Agente 007 Licenza di uccidere</em> / Sotto: donna in costume a due pezzi dai mosaici romani di Villa del Casale a Piazza Armerina (photo credit Pavel Krok)
Sopra: Ursula Andress nel film Agente 007 Licenza di uccidere / Sotto: donna in costume a due pezzi dai mosaici romani di Villa del Casale a Piazza Armerina (photo credit Pavel Krok)

Qui sopra, a un certo punto, ho parlato di mia depressione davanti a certi episodi e di come talvolta mi chieda da sola perché ostinarmi a combattere sessismo e stereotipi che si ripetono puntualmente.

Mi è già passata, sapete?

Nel frattempo, infatti, ho ritrovato la grinta e non credo proprio che mollerò, anzi, ve lo do per certo.

Continuerò anche perché uno dei motivi per cui lotto è che certe cose fanno male a tutti, uomini e donne, offendendo qualsiasi persona di buona volontà e di libero pensiero.

E concludo, amiche e amici, con l’ultimo invito fatto nel modo che più mi appartiene, quello tra il serio e il faceto.

Se proprio ci tocca fare una prova costume, scegliamo la strada proposta da certe vignette ironiche che circolano via web: la prova costume dovrebbe essere solo quella che si fa per verificare se il costume stinge oppure se asciuga in fretta.

O, meglio ancora, facciamo nostra una frase che ho letto da qualche parte – e non ricordo più dove e da parte di chi, chiedo scusa – e che mi ricorda la bella vignetta di Tyler Feder che ho inserito qui sopra.

Tutti abbiamo un fisico da spiaggia. Basta avere un corpo, basta andare in spiaggia 🙂

E allora…

#BeFree
#BeHappy
#ViveLaDifférence
#EnjoyTheBeachAndTheSun
#LoveYourself

Manu

 

 

 

 

Alcuni miei articoli e/o post – oltre a quelli già citati e linkati qui sopra – a proposito delle mille forme della bellezza, a proposito della varietà dei modelli possibili, a proposito di giudizi affrettati e superficiali, a proposito di body shaming e outfit shaming, a proposito di parole fuori posto:

Per SoMagazine: qui parlo di Francesca Polizzi, curvy model; qui parlo di Advanced Style e di altri esempi significativi di bellezza matura; qui parlo di Boudoir Disability, il progetto di Valentina Tomirotti, giornalista impegnata nel sociale e disabile motoria. Mi fa piacere segnalarvi, sempre su SoMagazine, anche l’articolo della mia collega Federica Santini proprio sulla questione Io Donna – Chloë Moretz di cui ho parlato qui sopra in principio.

Qui nel blog: qui mi sono cimentata in uno shooting… con cicatrici (le mie); qui parlo del calendario Beautiful Curvy; qui parlo di Renée Zellweger e della libertà di stare bene con noi stessi; qui parlo di Cayetana de Alba, di libertà e di ipocrisia; qui parlo di Clio Zammatteo insultata da Giovanni Veronesi perché cicciona e di due modelle speciali, Winnie Harlow alias Chantelle e Jamie Brewer; qui parlo di una pubblicità Saint Laurent ritirata in quanto accusata di mostrare una modella irresponsabilmente magra; qui parlo di Cara Delevingne e di quanto sia facile giudicare le scelte altrui; qui parlo di quanto mi siano sgradite espressioni tipo «sei cessa» o «fai schifo»; qui parlo di come perfino Barbie possa essere un mezzo per cambiare alcuni stereotipi.

 

 

 

 

 

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Manu

Mi chiamo Emanuela Pirré, Manu per gli amici di vita quotidiana e di web. Sono nata un tot di anni fa con una malattia: la moda. Amo la moda perché per me è una forma di cultura, una modalità di espressione e di comunicazione, un linguaggio che mi incuriosisce. Scrivo e creo contenuti in ambito editoriale, principalmente proprio per la moda. Insegno (Fashion Web Editing, Storytelling, Content Creation) in due scuole milanesi. Vivo sospesa tra passione per il vintage e amore per il futuro e sono orgogliosa della mia nutrita collezione di bijou iniziata quando avevo 15 anni. Per fortuna Enrico, la mia metà, sopporta (e supporta) entrambe, me e la collezione, con pazienza e amore. Oltre a confessare un'immensa curiosità, dichiaro la mia allergia a pregiudizi, cliché, luoghi comuni, conformismo e omologazione. Detesto i limiti, i confini, i preconcetti – soprattutto i miei – e mi piace fare tutto ciò che posso per superarli. La positività è la mia filosofia di vita: mi piace costruire, non distruggere. Moda a parte, amo i viaggi, i libri e la lettura, l'arte, il cinema, la fotografia, la musica, la buona tavola e la buona compagnia. Se volete provare a diventare miei amici, potete offrirmi un piatto di tortellini in brodo, uno dei miei comfort food. Oppure potete propormi la visione del film “Ghost”: da sognatrice, inguaribile romantica e ottimista quale sono, riesco ancora a sperare che la scena finale triste si trasformi miracolosamente in un lieto fine.

Glittering comments

Lucia
Reply

Ciao Manu, complimenti per l’articolo.
Mi sembri piuttosto preoccupata per il sessismo, vorrei sapere se credi che sia ancora un problema così presente.
Ciao,
Lucia

Manu
Reply

Ciao Lucia cara e benvenuta 🙂
Grazie davvero per i tuoi graditissimi complimenti.

Vorrei tanto poterti dire che no, non sono preoccupata più di tanto e, invece, devo purtroppo ammettere che sì, sono preoccupata dalla nuova ondata di sessismo alla quale – a mio umile avviso – stiamo assistendo.

E ciò che ancor di più mi preoccupa è che, in realtà, non sono la sola a vedere tale ondata: per esempio, chi ne parla molto è Vanity Fair che ho già citato qui sopra nel post per l’ottimo articolo a proposito della reazione retrograda del web per il nuovo Doctor Who.
Vanity Fair (che è una testata sempre piuttosto attenta su questi argomenti) intitola per esempio un altro suo articolo «La bimba? Futura ballerina, il maschio matematico. Il sessismo non lascia gli spot» e fa una panoramica alquanto preoccupante…
L’articolo firmato da Chiara Pizzimenti (brava!) contiene esempi quasi incredibili ed è una fotografia realistica di una situazione alla quale va decisamente posto un freno.

Ho trovato molto interessante anche un articolo di NSS Magazine: intitolato «Emily Ratajkowski è stanca di quanto la nostra cultura ipersessualizzi il corpo femminile», l’articolo vuole farci riflettere non solo su quanto noi esseri umani abbiamo la tendenza a inscatolare ed etichettare rigidamente i nostri simili, ma anche sul fatto che, una volta compiuta tale operazione, abbiamo un’enorme difficoltà a uscire dagli stereotipi che ne conseguono, soprattutto quelli di genere.
(Piccola divagazione: questa nostra umana tendenza a inscatolare e categorizzare le persone è esattamente il motivo per cui me la presi con Giulia Salemi e con la sua performance al Festival del Cinema di Venezia, qui, proprio perché Giulia aveva fatto esattamente il gioco di chi vorrebbe etichettare noi donne…)

Infine, visto che vedo che hai interesse in tale argomento (e ne sono felice, conoscere è il miglior modo per combattere), ti consiglio un interessante gruppo Facebook che si chiama «La pubblicità sessista offende tutti»: lì, troverai (purtroppo!) tanti altri esempi, con la stessa teoria che sostengo io.
Ovvero che il sessismo offende tutti coloro i quali credono nel libero pensiero, siano essi uomini o donne.

Ti ringrazio nuovamente per avermi dato l’opportunità di fare questa aggiunte e sono qui a tua disposizione quando vuoi.

Buon pomeriggio,
Manu

AT
Reply

Ciao,
Ti faccio notare la stessa cosa che ho fatto notare a tutti quelli che hanno attaccato la foto di Vogue Photo Festival, si tratta di una foto di Steven Meisel per un progetto di denuncia del 2006 e rappresenta la violazione dei diritti da parte delle autorità dopo gli attentati dell’11 settembre.
AT

Manu
Reply

Caro o cara AT (perdonami ma dalle iniziali non capisco se io debba usare il maschile o il femminile),
Ti ringrazio molto per il tuo commento perché sollevi un’altra questione sulla quale ero in dubbio e il dubbio era se entrare o meno in un certo ambito.
Grazie perché tu hai eliminato quel dubbio e credo che sì, sia il caso di parlarne e di esplicitare.

Sapevo che quella foto è uno scatto di Steven Meisel, fotografo di chiara fama, così come sapevo che la foto fa parte di un editoriale realizzato – come ottimamente spieghi tu – nel 2006 per Vogue Italia, intitolato State of Emergency, per parlare di alcune limitazioni delle libertà personali, ovvero le limitazioni operate dalle autorità in seguito ai tragici fatti dell’11 settembre 2001.

Ma, a questo punto, ti rispondo esattamente come ho già risposto a una carissima amica in uno scambio privato tra noi.

Se tale immagine poteva avere un senso nel 2006 (lo aveva?), non ne ha alcuno oggi, nel 2017, estrapolata dal suo contesto e collocata altrove in un momento sociale in cui sarebbe estremamente pericoloso se qualcuno pensasse anche solo per un istante che è glamour, che è un’immagine glamour in quanto Vogue l’ha piazzata nella cover di un festival che vuole parlare di comunicazione visiva.
Mi permetto inoltre di dire, con tutto il rispetto possibile verso il lavoro di un fotografo del calibro di Meisel, che a mio avviso il suo messaggio era fuorviante anche nel 2006 e che – sempre secondo me – la foto non aveva senso nemmeno allora.
Potevano esistere altri 100 modi di dire o rappresentare la stessa cosa.

Nessuno, insomma, ha messo in dubbio che potesse essere una foto d’autore.
Ciò che si discute (e che io discuto) è l’opportunità della sua scelta oggi.

È una foto che – al limite – va spiegata e contestualizzata, tant’è che a Vogue hanno compreso, intelligentemente, e (lo sottolineo nuovamente) l’hanno cambiata.
Per me, resta una brutta immagine (e non parlo dal punto di vista tecnico o qualitativo, ovviamente): posso capire che lo scopo fosse buono, allora, ma il risultato non mi piace. Per niente.

Spero di averti dato una risposta esaustiva perché ci tengo molto, ma – come sempre – sono qui e resto a disposizione per qualsiasi chiarimento.

Ancora grazie e buon pomeriggio,
Manu

Silvia
Reply

Ciao Manu,
Io sono d’accordo con te su tutto!
A volte qualcuno mi dice che sono femminista (anche il mio ex) e io non so se è un complimento o no: siamo femministe?
Brava, ti leggo
Silvia

Manu
Reply

Silvia carissima buondì 🙂
Per prima cosa voglio dirti un enorme GRAZIE (e lo scrivo tutto maiuscolo) per il dono che mi fai leggendomi: grazie, grazie, grazie.

E poi…
Wow, che quesito importante mi poni…

Siamo o non siamo femministe?

Se femminista significa credere che le donne siano migliori o superiori rispetto agli uomini, allora no, non sono femminista.

Sai in cosa credo, invece?
Credo che uomini e donne siano diversi e che questa diversità non rappresenti un problema, bensì un’opportunità, una ricchezza, una risorsa.
Credo nelle persone di buona volontà e di talento, siano esse di sesso femminile o maschile.
Credo che se una donna occupa la stessa posizione lavorativa di un uomo e lo fa con le stesse competenze, la stessa preparazione e le stesse capacità abbia tutto il diritto di avere anche lo stesso compenso.
Credo nella parità di diritti e doveri per uomini e donne.

Insomma non credo di essere femminista, ma sicuramente credo che molto debba essere ancora fatto affinché uomini e donne vivano gli uni fianco alle altre senza alcun presupposto di superiorità da parte di nessuno.
Se qualcuno dovesse considerare questo mio pensiero un indice di femminismo… beh, ok, allora sono femminista.

Spero di averti dato una buona risposta e sono qui per qualsiasi tuo pensiero, dubbio, domanda, riflessione.

Buona giornata e ancora grazie,
Manu

La Ale
Reply

Brava!
Nella trappola però ora ci sono caduti anche quelli di Vanity Fair, hai visto?

Manu
Reply

Ciao Ale e grazie per il complimento.

Sì, ho visto, purtroppo.
Ho visto l’articolo di Vanity Fair intitolato Le star con la cellulite, da Eva Longoria a Hilary Duff nel quale – come si evince facilmente dal titolo – il giornale fa la solita (odiosa) radiografia ad alcune star.

Ho visto e mi è dispiaciuto perché, come ho già avuto modo di scrivere, Vanity Fair è una di quelle testate che dà sempre spazio al women empowerment.
Poi, mi cadono anche loro, scivolando sulla classica buccia di banana.

Vedi, questo mi ha fatto riflettere su quanto sia facile cadere in certi tranelli e su quanto sia invece difficile essere sempre coerenti con noi stessi.
La coerenza è impegnativa e non ammette distrazioni e così succede che neanche Vanity Fair riesca a resistere fino in fondo e che alla fine ceda parlando di prova costume.
Peccato.

Ma oggi voglio essere buona e cercare un lato positivo.
L’articolo si chiude così.
«La prova costume delle più famose, per noi, è comunque superata. Quindi, se siete alle prese con la valigia per le vacanze e state rimandando il temuto confronto con lo specchio, tirate un sospiro di sollievo. Anche le belle e impossibili possono avere qualche cedimento.»
Forse, il loro voleva dunque essere un incoraggiamento, anche se – a mio avviso – non è particolarmente riuscito.
Mi piace infatti poco non solo il lato foto-radiografia, ma anche l’ultimissima frase, ovvero «Del resto, mal comune, mezzo gaudio»: avrei preferito un suggerimento diverso, tipo care donne respingete qualsiasi concetto di prova e non un consolatevi perché non siete le uniche.
Così si dà adito all’esistenza di quella prova, si persevera, ma so di essere pesante 😉

Grazie ancora, Ale, e buona settimana.

Manu

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