Hillary Clinton e i significati di un tailleur dai dettagli viola

Hillary Clinton e il marito Bill in occasione del Concession Speech del 9 novembre 2016 a New York (Photo Getty Images through Vogue)

Lo ammetto: dopo l’esito delle elezioni negli Stati Uniti, sono rimasta sotto shock per qualche giorno, al punto tale da non riuscire a scrivere nemmeno due righe sui social, Facebook, Twitter oppure Instagram.
In particolare, sono scioccata dalla schiacciante vittoria di Donald Trump, ammetto anche questo; sono però ugualmente basita davanti a certi commenti e ad alcune reazioni sia pro sia contro il nuovo presidente.
Si sente e si legge di tutto: c’è perfino chi sostiene che non si possa parlare di una vera vittoria di Trump, quanto piuttosto di una sconfitta – pesantissima – della Clinton poiché il voto non sarebbe una scelta da leggere in positivo, bensì un rifiuto deciso e categorico diretto alla esponente del partito democratico. Mi spaventa il fatto che ciò possa essere la verità, mi sembra terribile votare non a favore di qualcuno in cui crediamo, ma contro un altro candidato.
Si parla anche di un ulteriore messaggio, ovvero della saturazione della gente rispetto alla politica, ai suoi giochi e ai suoi protagonisti più consumati, come Hillary, appunto: qualcuno si spinge fino ad affermare che tutto ciò influenzerà anche il referendum italiano del prossimo 4 dicembre.
Vedete, non so se invidiare chi nutre tutte queste certezze: io ho piuttosto una montagna di dubbi e interrogativi e nutrivo molte speranze sul fatto che, finalmente, un Paese come gli Stati Uniti fosse pronto a dare fiducia a una donna. Ora, morta la speranza, mi pongo un ennesimo quesito: gli americani hanno ragione? Hillary Clinton è una donna tanto pessima da non poterle dare fiducia e lo è al punto tale da preferirle un uomo considerato mediocre e non all’altezza da molti, perfino all’interno dello stesso partito repubblicano del quale fa parte?
In fondo, desiderio di una donna presidente a parte, ho nutrito io stessa diversi dubbi sulla candidatura e su certi atteggiamenti di Hillary (in parte ne avevo parlato anche qui nel blog a proposito di donne e politica): forse, la Clinton non era davvero la candidata giusta affinché il sogno, mio e di molti altri, si avverasse.
Oggi come oggi, dubbi personali a parte, faccio comunque fatica a comprendere fino in fondo la scelta degli americani, un popolo che stimo per molti motivi; eppure, pur non comprendendo e non riuscendo a condividere la loro scelta finale, non mi piace nemmeno chi dà loro degli idioti oppure degli ignoranti o ancora degli ottusi senza analizzare le ragioni profonde di questo voto.
No, non ci sto e non accetto tali generalizzazioni, così come non le accetto mai e in nessun caso.
Siccome mi piace colmare la mie lacune ascoltando gli altri, in tutti questi giorni sono stata zitta e mi sono posta in ascolto proprio per cercare di capire le ragioni dei cittadini degli Stati Uniti: per esempio, ho ascoltato spiegazioni a mio avviso interessanti grazie a Kay Rush, giornalista nonché conduttrice radiofonica e televisiva che stimo.
Kay è statunitense (è nata a Milwaukee nello Stato del Wisconsin) anche se è naturalizzata italiana: può ben dire di conoscere la mentalità americana ed è dunque in grado di tastare il polso dei suoi connazionali.
Ai microfoni di Radio Monte Carlo, Kay ha offerto punti di vista ai quali non avevo pensato o che non avevo considerato, proprio perché, non essendo americana e non vivendo negli Stati Uniti, sicuramente non posso conoscere a fondo l’animo di quel Paese (e mi permetto di dire che di questo dovremmo tenere conto tutti prima di esprimere giudizi basati su conoscenze sommarie e non dirette).
Il primo motivo per cui Hillary non è stata apprezzata da molti è il comportamento che tenne quando suo marito Bill, allora Presidente degli Stati Uniti, fu coinvolto nello scandalo con Monica Lewinsky: gli americani, ha spiegato Kay, amano le donne forti, orgogliose e indipendenti, quindi non hanno apprezzato che la Clinton sia rimasta sposata per ragioni giudicate di mero interesse politico. Inoltre, i cittadini statunitensi amano che alla Casa Bianca ci sia una vera coppia e una vera famiglia, condizioni non più riconosciute ai Clinton. Infine, un ulteriore motivo è una certa altezzosità della quale si accusa Hillary che si è un po’ messa su un piedistallo: prova ne è, secondo la giornalista, il fatto che la Clinton non si sia recata in diversi Stati durante la campagna, facendo sospettare di essere arrogante al punto tale da dare per scontata la vittoria in alcuni luoghi. L’ha fatto perfino in Illinois, il suo Stato di nascita, dove era (forse) ciecamente convinta di poter vincere proprio per un motivo di origini.
Ma gli americani non sono sciocchi (come afferma sbagliando qualcuno) e Hillary, insomma, pagherebbe oggi lo scotto del suo atteggiamento, le accuse di chi la taccia di essere una guerrafondaia (vedere il suo ruolo di Segretario di Stato in un periodo in cui il Paese è stato protagonista di molti interventi bellici) e le sue scelte all’epoca del Sexgate.
Anche il ritardo con il quale la Clinton ha fatto la telefonata di resa (quella con cui ogni candidato statunitense sconfitto ammette tale condizione) non è stato visto di buon occhio in un Paese in cui prendere atto della chiusura dei giochi è un gesto importante che apre la nuova fase che subentra a campagna elettorale e votazioni finite.
Anche in questo caso, si sono sprecate illazioni di ogni tipo, genere e grado, mentre già si iniziano a fare confronti (spesso impietosi e imbarazzanti) tra la First Lady uscente Michelle Obama e Melania Trump, la nuova padrona di casa alla White House.
Sinceramente, a me tutto ciò un po’ infastidisce, quasi quanto i risultati delle elezioni stesse ed esattamente come e quanto sono stata infastidita dalle polemiche (a mio avviso di bassissimo livello) che sono seguite all’ultima cena data da Barack Obama e che ha visto la partecipazione di Matteo Renzi, il nostro Presidente del Consiglio.
Per giorni, non si è parlato di altro che dei vestiti di Agnese Landini Renzi e di Michelle Obama, del loro peso, della loro taglia e della loro forma fisica, della loro bruttezza e / o bellezza (delle signore e dei vestiti), dei brand scelti e via discorrendo.
Voi direte: sarai contenta, ti occupi di moda. Eh no, cari amici, non mi piace che gli abiti vengano usati per discorsi banali, triti e superficiali né mi piace che vengano usati per giudicare le persone.
Visto che penso che sia un linguaggio, mi piace che la moda sia tirata in ballo per fare analisi stimolanti e interessanti in grado di aggiungere nuovi piani di lettura e inediti spunti di riflessione: la critica fine a sé stessa e che sfiora il pettegolezzo mi annoia e mi nausea, invece, e chi mi legge d’abitudine lo sa.
E allora, oggi, desidero terminare questo mio piccolo e personale sunto di riflessioni (e domande) in veste di semplice cittadina del mondo condividendo con voi una prospettiva interessante che mi si è aperta grazie a Vogue: parlo di un articolo scritto da Nicole Phelps, autorevole firma del celebre giornale di moda.
L’articolo della Phelps si intitola “The Color Purple: Parsing the Meaning of Hillary Clinton’s Concession Speech Suit” e approfondisce la scelta del completo – e soprattutto del colore – scelto dalla esponente democratica per il Concession Speech, ovvero per il discorso di resa che segue la famosa (o famigerata) telefonata della quale ho parlato anch’io qui sopra.
La Clinton ha scelto di indossare per l’occasione un completo pantalone firmato da Ralph Lauren, stilista che l’ha spesso vestita nei ultimi due anni: il colore dei dettagli (revers e blusa di seta) è un vibrante viola ed è la stessa sfumatura – fa notare la giornalista nel suo articolo – della cravatta indossata dal marito Bill presente alle sue spalle (come si vede nella foto qui in alto).
Il viola, afferma la Phelps, non si può considerare una scelta casuale, visto che si tratta di una tinta che ha significati sia sociali sia culturali: questo colore è spesso associato ad ambiti diversi (dalla magia al soprannaturale, dalla spiritualità al misticismo) con accezioni anche molto diverse tra loro.
In alcune religioni (come in quella cattolica), il viola è considerato il colore del lutto, del cordoglio, della penitenza. In effetti, ricordo bene l’impressione che suscitavano in me i paramenti funebri di questo colore quand’ero bambina, soprattutto quando il portone del palazzo in cui vivevo veniva addobbato con pesanti drappi in velluto che annunciavano la morte di un inquilino.
È anche (purtroppo) alla base di alcune superstizioni: penso a come il viola sia considerato di cattivo auspicio nel mondo dello spettacolo. Conoscete il perché? Tutto nasce nel Medioevo quando, nei quaranta giorni della Quaresima contraddistinti dai paramenti liturgici di colore viola, venivano vietate tutte le rappresentazioni teatrali: erano quindi giorni di disagio economico per gli attori che vivevano di quel guadagno. L’avversione, quindi, ha motivazioni storiche precise e fondate, sebbene oggi esse non abbiano più senso (e per questo scrivo purtroppo parlando di superstizione, oltre al fatto che, personalmente, amo il viola).
La Phelps continua poi la sua analisi parlando delle suffragette, termine con il quale si indicavano le appartenenti ai movimenti di emancipazione femminile nati per ottenere il diritto di voto per le donne (dalla parola suffragio nel suo significato di voto): queste donne indossavano spesso il viola insieme al bianco (la purezza) e al verde (la speranza).
E, naturalmente, il viola è anche il colore che si ottiene quando si combinano il blu, la tinta della calma, e il rosso, la tinta dell’energia; guarda caso, blu e rosso sono anche, rispettivamente, i colori che rappresentano i democratici e i repubblicani.
«La nostra nazione è più profondamente divisa di quanto pensassimo, ma credo ancora nell’America e ci crederò sempre. Se ci credete anche voi, dobbiamo accettare questo risultato e guardare al futuro. Donald Trump sarà il nostro presidente: gli dobbiamo una mente aperta e la possibilità di guidare.»
Così ha detto la Clinton con solennità durante quello che verrà ricordato da molti come il suo discorso più dignitoso ed elegante, soprattutto a chiusura di una stagione elettorale che, purtroppo, ha invece conosciuto momenti molto bassi da entrambe la parti.
«Per me, nonostante la sconfitta devastante, gli abiti abbinati dei Clinton sembravano i primi passi coraggiosi per riunire il nostro Paese oggi triste e distrutto», ha dunque concluso Nicole Phelps sintetizzando la scelta del viola.
Amo la conclusione alla quale giunge la sua analisi e spero sia veramente così, che quel viola simboleggi non cordoglio e nemmeno penitenza, bensì una ritrovata voglia di coesione che tenda all’armonia pur partendo da elementi profondamente differenti. Lo spero per gli Stati Uniti e lo spero per il mondo intero.
Se così fosse, tutto ciò rappresenterebbe – come afferma la giornalista – qualcosa di intelligente ed elegante, in ogni senso e direzione possibile. Nonché – aggiungo io – un’ottima dimostrazione di coerenza tra linguaggio verbale (le parole pronunciate) e non verbale (gli abiti scelti).
Ecco, queste sono le analisi giornalistiche che mi piace leggere, questi sono gli approfondimenti di moda e costume che amo e che sento in grado di arricchire e ampliare la visione di tutti noi.
È per tali motivi che ho voluto condividere una cosa certo frivola e leggera rispetto al quadro complessivo, lo so bene, ma non per questo stupida o superficiale: stupidità e superficialità si legano all’abbigliamento solo quando riduciamo tutto a stereotipi scontati, noiosi e riduttivi come, per esempio, quando ci limitiamo a parlare solo di taglie.

Manu

 

Se volete leggere l’articolo di Nicole Phelps per Vogue: qui.

 

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Manu

Mi chiamo Emanuela Pirré, Manu per gli amici di vita quotidiana e di web. Sono nata un tot di anni fa con una malattia: la moda. Amo la moda perché per me è una forma di cultura, una modalità di espressione e di comunicazione, un linguaggio che mi incuriosisce. Scrivo e creo contenuti in ambito editoriale, principalmente proprio per la moda. Insegno (Fashion Web Editing, Storytelling, Content Creation) in due scuole milanesi. Vivo sospesa tra passione per il vintage e amore per il futuro e sono orgogliosa della mia nutrita collezione di bijou iniziata quando avevo 15 anni. Per fortuna Enrico, la mia metà, sopporta (e supporta) entrambe, me e la collezione, con pazienza e amore. Oltre a confessare un'immensa curiosità, dichiaro la mia allergia a pregiudizi, cliché, luoghi comuni, conformismo e omologazione. Detesto i limiti, i confini, i preconcetti – soprattutto i miei – e mi piace fare tutto ciò che posso per superarli. La positività è la mia filosofia di vita: mi piace costruire, non distruggere. Moda a parte, amo i viaggi, i libri e la lettura, l'arte, il cinema, la fotografia, la musica, la buona tavola e la buona compagnia. Se volete provare a diventare miei amici, potete offrirmi un piatto di tortellini in brodo, uno dei miei comfort food. Oppure potete propormi la visione del film “Ghost”: da sognatrice, inguaribile romantica e ottimista quale sono, riesco ancora a sperare che la scena finale triste si trasformi miracolosamente in un lieto fine.

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