Fashion Victims, quelle VERE vivono, lavorano (e soffrono) in India

Era il 24 aprile 2013 quando il Rana Plaza, edificio commerciale di otto piani, crollò a Savar, sub-distretto di Dacca, la capitale del Bangladesh.
Le operazioni di soccorso e ricerca si conclusero con un bilancio dolorosissimo: 1.134 vittime e circa 2.515 feriti per quello che è considerato il più grave incidente mortale avvenuto in una fabbrica tessile nonché il più letale cedimento strutturale “accidentale” nella storia umana moderna.
Com’è tragicamente noto, il Rana Plaza ospitava alcune fabbriche di abbigliamento, una banca, appartamenti e numerosi negozi: nel momento in cui furono notate delle crepe, i negozi e la banca furono chiusi, mentre l’avviso di evitare di utilizzare l’edificio fu ignorato dai proprietari delle fabbriche tessili.
Ai lavoratori venne addirittura ordinato di tornare il giorno successivo, quello in cui l’edificio ha ceduto collassando – e per questo ho messo “accidentale” tra virgolette…

Lo voglio ripetere: nel crollo, persero la vita 1.134 persone e ci furono oltre 2.500 feriti.

Molte delle fabbriche di abbigliamento del Rana Plaza lavoravano per i grandi committenti internazionali e questo orribile sacrificio di vite umane ha squarciato il velo di omertà che copriva, a mala pena, pratiche che moltissimi, in realtà, conoscevano da tempo e fingevano di non vedere.

Chi ha buona memoria, ricorderà forse che di tutto ciò ho già scritto lo scorso anno; continuerò a farlo, continuerò a scriverne finché sarà necessario, fino a quando non ci sarà un vero cambiamento, così come continuerò (anche questo come ho già fatto l’anno scorso) a scrivere di Fashion Revolution, il movimento presente in 102 Paesi nel mondo che è stato fondato da Carry Somers (stilista per oltre 20 anni con il brand Pachacuti che ha rivoluzionato il concetto di trasparenza nell’ambito della catena produttiva nella moda) e da Orsola de Castro (voce autorevole della moda sostenibile con il suo marchio From Somewhere fondato sul concetto di upcycling).

Nel 2013, dopo la tragedia del Rana Plaza, Carry e Orsola hanno deciso di fondare Fashion Revolution, organizzazione che conduce una costante campagna di sensibilizzazione rivolta soprattutto al consumatore finale: promossa attraverso stampa e social media, prevede eventi che siano mirati a promuovere il concetto di moda etica e di sostenibilità.

Nell’ottica di tale campagna e insieme a Fashion Film Festival Milano nonché in occasione della Fashion Revolution Week 2019 (22-28 aprile), Fashion Revolution ha promosso martedì 23 aprile la proiezione di “Fashion Victims”, docu-film di Chiara Ka’Hue Cattaneo e Alessandro Brasile.

Il documentario “Fashion Victims” è ambientato nel Tamil Nadu, ovvero uno dei 29 stati che compongono l’India: questo stato si trova nel sud del Paese e qui milioni di adolescenti e di giovani donne lavorano nell’industria tessile, dalla filatura alla tessitura del cotone fino alla confezione di capi di abbigliamento, per il mercato locale e internazionale.

Queste adolescenti e giovani donne provengono spesso da zone povere e rurali dove non ci sono fonti di reddito alternative (o sufficienti) né per loro né per le loro famiglie, anche a causa del persistente declino dell’agricoltura: è in questi villaggi che i cosiddetti “broker” agiscono da intermediari tra le aziende (alla ricerca di una manodopera numerosa e docile) e una popolazione locale sempre più disperata, reclutando ogni anno migliaia di ragazze.

Le ragazze vengono portate nelle aziende dove, oltre a lavorare, sono costrette anche a vivere negli ostelli o dormitori annessi alle fabbriche: tutto ciò prende il nome di “Sumangali scheme”.

Secondo questo “schema”, le ragazze devono lavorare da tre a cinque anni, con turni estenuanti che arrivano anche a venti ore al giorno e in condizioni pericolose; sono private della libertà di movimento e di comunicazione con il mondo esterno e non ricevono uno stipendio mensile, ma solo una modesta somma di denaro per le esigenze quotidiane. Al termine del periodo stabilito, dovrebbero ricevere il pagamento cumulativo di quanto hanno guadagnato nel corso degli anni, una somma che equivale a circa cinquecento – ottocento euro.

Ora vi chiederete – spero – perché questo sistema prenda il nome di “Sumangali scheme”.

Il termine Sumangali significa “donna sposata” oppure, in lingua Tamil, “donna felicemente sposata”: il denaro guadagnato serve a questo, perché le ragazze sognano di poter usare quel denaro come dote per il proprio matrimonio.

Pensate che, già nel 1961, l’India ha emanato il Dowry Prohibition Act, una legge che vieta di dare o accettare la dote (dowry in inglese), ovvero il tesoretto di contanti, gioielli, elettrodomestici, mobili, biancheria, stoviglie, utensili e altri oggetti conferiti dai genitori della sposa nell’ottica di consentire ai neo-sposi di iniziare la propria coabitazione: sebbene da parecchi decenni l’India abbia dunque approvato delle leggi per contrastare la pratica della dote, esse sono state oggetto di critiche a causa della loro scarsa efficacia visto che la pratica – illegale, ripeto – è tuttora molto diffusa.

E sebbene la legge del 1961 sia stata poi confermata dalla riforma del diritto di famiglia del 1975, la tradizione della dote e il suo corollario di sangue continuano a essere fuori controllo in vaste regioni dell’India: nel Paese, si uccide ancora a causa di una dote ritenuta insufficiente oppure si diventa appunto vittime del “Sumangali scheme”.

Perché ciò che accade attraverso tale schema o pratica è ben diverso dalla promessa con la quale vengono attratte le ragazze: la realtà è fatta di ambienti non sicuri, mancanza di qualsiasi tutela, condizioni disumane, pressione psicologica, incidenti sul lavoro che comprendono perdita di arti (come le dita) con conseguenti amputazioni, mancati pagamenti. Fino ad arrivare agli estremi, ovvero violenza sessuale, tentativi di fuga, suicidi e omicidi fatti poi magari passare per suicidi.

Attraverso il documentario “Fashion Victims”, nel raccontare ciò che per qualcuna è il proprio passato e per altre il presente e il futuro, sono le ragazze stesse a tracciare il quadro della crudeltà quotidiana di un sistema produttivo nel quale le vere fashion victim – le vittime della moda sono proprio loro, violate in vario modo nel corpo e nell’anima e private di sogni, speranze, progetti.

Alessandro Brasile e Chiara K. Cattaneo, gli autori di “Fashion Victims”, non sono documentaristi, ma entrambi si sono ritrovati a lavorare sulla filiera tessile indiana: lui, fotografo, aveva scattato alcuni servizi insieme a delle ONG locali, mentre lei si occupa da dieci anni di cooperazione.

Sono state proprio le ONG a chiedere loro di far conoscere questa storia di cui si sa poco.

I sistemi di certificazione che dovrebbero garantire la legalità della filiera e dei processi produttivi si concentrano, in realtà, nella fase iniziale (la coltivazione) o finale (il confezionamento), ovvero le fasi più tracciabili, mentre quello della filatura è un segmento complesso dal punto di vista logistico, difficile da tracciare: è quello a cui si sono interessati Alessandro e Chiara.

«Essendo un segmento inesplorato – raccontano – è come se ci fosse mano libera per uno sfruttamento che, anche se non a livello giuridico, rasenta condizioni di schiavitù.»

E infatti, in “Fashion Victims”, le ragazze che hanno accettato di parlare davanti alla cinepresa raccontano che stare in quelle fabbriche e in quei dormitori è come stare in prigione: dalla fabbrica non ci si licenzia, raccontano. Si scappa o si muore.

Le ragazze raccontano tutto con grande dignità, pudore e compostezza, quasi sempre guardando dritto in camera: alcune di loro vestono l’abito tradizionale indiano, il sari, magari in tessuti non preziosi (ma sicuramente più belli degli indumenti che sono costrette a contribuire a creare) e in colori vivaci che contrastano con i volti e gli occhi tristi e con il tono monocorde della voce.

Ed è questo a provocare un dolore immenso in chi guarda – o almeno così è stato per me: la loro dignità e pudore e compostezza da una parte, l’orrore immenso di ciò che raccontano dall’altra. A raccontare tutto il loro dolore sono gli occhi, nei quali non si leggono né sogni né speranze, e la voce, segnata dal racconto di un destino che considerano ineluttabile, inesorabile, inevitabile e che per molte di loro è in effetti tale (quanto mi pesa scrivere queste parole…).

Un destino ineluttabile, come nel caso della ragazza che ha lasciato due dita in una delle macchine o della ragazza che ha perso la sorella alla quale era legatissima: suicidio, dice la versione ufficiale, mentre si mormora di omicidio seguito a uno stupro…

Difficilmente le ragazze hanno un momento di cedimento: qualcuna smette di parlare per qualche istante, a un’altra scappa una lacrima.

L’orrore è che queste “Fashion Victims” sono adolescenti, teenager; hanno la stessa età dei nostri figli o dei nostri nipoti e ciò che mi è venuto in mente è che la differenza è solo la fortuna di nascere nel posto giusto (diciamo in Occidente) o la sfortuna di nascere in quello sbagliato (diciamo nel Tamil Nadu o nel Bangladesh del Rana Plaza).

Da <em>“Fashion Victims”,</em> foto © Alessandro Brasile (sopra e sotto)
Da “Fashion Victims”, foto © Alessandro Brasile (sopra e sotto)

Come hanno raccontato Chiara e Alessandro al termine della proiezione di “Fashion Victims”, difficile è stato per le ragazze raccontare, difficile è stato per loro due raccogliere le testimonianze, difficile è per tutti noi guardare e ascoltare.

E se Chiara e Alessandro non hanno voluto puntare il dito, magari citando i brand, è perché il loro scopo è diverso.

Per una volta, a essere le protagoniste non dovevano essere responsabilità e accuse e polemiche e discussioni; per una volta, le protagoniste devono essere le ragazze e le donne che di solito sono trasparenti come se non esistessero.

I due autori hanno voluto raccontare storie di persone, di esseri umani che hanno un nome e un cognome perché dare loro uno spessore umano è importante affinché non siano considerate solo numeri di atroci statistiche: infatti, il documentario termina con tante di queste ragazze che ci dicono il loro nome, qualcuna con un piccolo accenno di sorriso.

E, per paradosso, le responsabilità sono in questo modo ancora più evidenti e tali responsabilità sono da distribuire tra tutti – nessuno è esente o può chiamarsi fuori: i brand che alimentano il sistema; gli stati e i governi che devono legiferare ma anche controllare; noi consumatori che possiamo scegliere e dobbiamo avere il coraggio di chiedere ed esigere una trasparenza sempre maggiore a brand e governi.

Per questo il lavoro di un’organizzazione come Fashion Revolution è importante, perché va a incidere proprio su noi consumatori che dobbiamo conoscere e tenere alta l’attenzione, dobbiamo esigere che di tutto ciò si parli per fare sì che i brand non possano più ignorarci; perché se noi tutti sapessimo chi ha fatto i nostri abiti, chi sono le persone che ci sono dietro, quali sono i loro nomi e i loro volti, allora sarebbe difficile ignorare la loro sofferenza.

Voglio dirvi una cosa.

Guardando “Fashion Victims” ho ascoltato ragazzine poco più grandi di mia nipote che ha dieci anni (e non smetto di pensare alla ragazzina con le dita della mano amputate da una macchina o alla ragazzina che soffriva per la sorella morta) esprimere desideri che riguardano quasi esclusivamente la famiglia e solo in minor misura loro stesse (sapere i propri cari felici, potere dare loro serenità, poter vedere una sorellina più piccola studiare, imparare l’inglese per potersi raccontare meglio).

Ascoltando tutto ciò… io mi sono vergognata e forse non sono stata l’unica visto l’applauso commosso e imbarazzato che ha segnato il momento in cui le ragazze hanno detto i loro nomi e, subito dopo, l’assordante silenzio.

Mi sono vergognata, profondamente, tre volte e in tre modi distinti.

Come persona che abita nel lato privilegiato del mondo.

Come appassionata di moda che ha troppi capi nel proprio armadio.

Come professionista che lavora nell’ambito moda.

Da <em>“Fashion Victims”,</em> foto © Alessandro Brasile: ritratto di Vimina, ex operaia di una filanda
Da “Fashion Victims”, foto © Alessandro Brasile: ritratto di Vimina, ex operaia di una filanda

Non mi rassegno né alla condizione e al dolore di queste ragazze né al fatto di vergognarmi (condizione comunque passiva): naturalmente, non mi sveglio ora, è da tempo che osservo, mi informo, mi documento, raccolgo dati, studio.

È da tempo che non mi ritrovo in tanti aspetti della moda e che non mi riconosco in tutta una serie di meccanismi; oggi desidero allora condividere con voi un insieme di riflessioni che sto maturando da un po’ e che ho messo a fuoco anche grazie alla visione di “Fashion Victims” e grazie alla Fashion Revolution Week.

Chiedo perdono già da ora per la lunghezza del post (che tuttavia è necessaria per l’importanza e la vastità dell’argomento) e ringrazio fin da ora chi arriverà in fondo; so che saranno in pochi a farlo ma se anche solo una persona lo farà e se anche solo una persona deciderà di smettere di vergognarsi per fare qualcosa di concreto, allora ne sarò lieta.

Un passo alla volta, una goccia per volta perché il flusso delle idee si trasformi nel fiume del cambiamento.

E vi dico subito un’altra cosa: non ho da offrirvi né certezze assolute né risposte certe, posso solo condividere con voi – come se ragionassi a voce alta – i miei dubbi, le mie perplessità, le mie domande.

Che dite… partiamo?

Partiamo, dai.

PRIMA RIFLESSIONE: IO & LA MODA

Inizio dicendo che chi mi conosce bene sa quanto io ami la moda e quanto abbia combattuto per guadagnarmi e ritagliarmi un mio (piccolo) spazio in questo ambito: considero la moda come una forma di cultura, una modalità di libera espressione e di comunicazione personale e sociale, un linguaggio istantaneo e immediato che amo e rispetto.

Penso che l’estetica non possa e non debba essere slegata dall’etica e dai contenuti: la moda non è mera apparenza, può (e per me deve) essere anche sostanza ed essenza.

In quanto linguaggio con un proprio codice, la moda può suscitare emozioni; può provocare, indignare, sorprendere, affascinare; può perfino guidare o accompagnare i grandi cambiamenti della società, come ho raccontato spesso.

Perché per me i vestiti non sono fatti per farci apparire più giovani o più magri: i vestiti sono suggestioni e sogni tradotti in stoffa e noi, a nostra volta, possiamo sceglierli affinché ci rappresentino, attraverso la nostra interpretazione e personalizzazione, attraverso sottrazioni o aggiunte, per comunicare con gli altri e per raccontare chi siamo.

La moda non dovrebbe dunque essere MAI e in NESSUN CASO dolore e morte ed è quindi per me un’enorme sconfitta essere consapevole del fatto che ciò che per me è linguaggio, sogno e suggestione diventa invece incubo per molti, procurando loro dolore, sfruttamento, disagio, sfruttamento e perfino morte.

SECONDA RIFLESSIONE: FASHION VICTIM… LOCUZIONE DA USARE CON CAUTELA

Da questo amore – e rispetto – per la moda nasce la mia ancestrale antipatia per la locuzione fashion victim quando usata – erroneamente! – per definire chi è appassionato di moda.

Nell’abusata espressione fashion victim c’è una connotazione di imposizione e di passività nella quale non mi riconosco affatto: mi fa pensare a qualcosa che viene subito, affrontato e vissuto senza reazione e senza personalità, senza interagire, come un’influenza malevola e fatale alla quale non ci si può sottrarre.

Non subisco affatto la moda né la subiscono coloro ai quali guardo come miei modelli.

D’altro canto, la mia antipatia verso il termine fashion victim è più che fondata e giustificata: come ho raccontato in un post dedicato al grande Oscar de la Renta in occasione della sua dolorosa scomparsa, fu proprio il designer di origine dominicana a coniare la locuzione fashion victim e lo fece per descrivere quelle persone spesso prive di senso critico nell’ambito delle mode in generale e, più specificatamente, nell’abbigliamento; persone insicure che acquistano capi d’abbigliamento e accessori di moda solo per sentirsi accettate e integrate nella società.

Tale fenomeno esiste naturalmente da molto tempo prima che nascesse la locuzione coniata negli Anni Ottanta dall’indimenticabile de La Renta.
In passato vari studiosi di costume hanno compreso che l’uomo seguiva (e segue) le mode per essere considerato parte di un gruppo: già Georg Simmel (1858-1918), filosofo e sociologo di origine tedesca, nel suo scritto intitolato La moda, sosteneva che le tendenze nascessero sotto la spinta del processo di imitazione.

E qui arriva il paradosso che detesto: vedo molte persone (donne e uomini, giovani e meno giovani) che si descrivono proprio così nei loro profili social da Facebook a Instagram, non realizzando – credo – quanto fashion victim abbia un’accezione negativa…

Non menziono nemmeno quanto mi vada il sangue al cervello quando qualcuno prova a definirmi o chiedermi se io sia una fashion victim…

Ditemi: chi mai potrebbe desiderare essere una fashion victim, neologismo d’autore con il quale vengono identificati i soggetti che seguono, in modo passivo e acritico, qualunque dettame della moda tanto da diventarne “vittime” per via della loro vulnerabilità di fronte al materialismo e alla caducità oggi studiata a tavolino, i due principali eccessi della moda e le sue caratteristiche che meno amo? Chi mai potrebbe auspicare di divenire “vittima”, da un lato dei pregiudizi sociali e dall’altro degli interessi dell’industria della moda?

Sono sicura che alla base vi sia un reale malinteso (linguistico), una non-conoscenza; voglio pensare che nessuno aspiri a un rapporto passivo e acritico con la moda che dovrebbe, al contrario, essere al nostro servizio per raccontarci.

Anche perché le VERE “Fashion Victims” sono, purtroppo e loro malgrado, le ragazze raccontate da Chiara K. Cattaneo e Alessandro Brasile, le vere vittime e le nuove schiave di un sistema moda che va cambiato.

TERZA RIFLESSIONE: LA GRANDE ILLUSIONE, OVVERO È TUTTA COLPA DELLA MODA SOPRATTUTTO SE FAST FASHION

A chi pensa che la colpa di tutto ciò (la situazione descritta in “Fashion Victims”) vada esclusivamente alla moda, io mi permetto di dire una cosa: non fatevi trarre in inganno.

Naturalmente, la moda ha enormi responsabilità ma non è l’unica imputata, non è l’unica industria a generare e alimentare queste problematiche: purtroppo, condivide tale colpa con altre produzioni industriali.

Certo, cercare di distogliere l’attenzione puntando il dito altrove, nascondersi dietro scuse patetiche (tipo «non solo noi, anche altri fanno brutte cose») non risolverà i problemi, anzi, al contrario li farà diventare sempre più gravi.

Tuttavia, è giusto sgombrare il campo da malintesi, equivoci e non-conoscenze, quelle che io chiamo “La Grande Illusione”: il settore tessile, infatti, non è solo moda, il settore tessile è trasversale.

Ho avuto modo di mostrarlo e dimostrarlo anche ai miei studenti di Accademia del Lusso, quando lo scorso novembre siamo stati a visitare una mostra intitolata Textile Evolution e ospitata dalla Fabbrica del Vapore di Milano.

Progettata da ICE (Agenzia per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane) in collaborazione con TexClubTec, SMI Sistema Moda Italia e ACIMIT Associazione Costruttori Italiani di Macchinari per l’Industria Tessile, la mostra si è posta l’obiettivo di promuovere le diverse filiere produttive del tessile tecnico e innovativo con particolare focus rispetto al nostro Paese: sebbene all’Italia venga infatti universalmente riconosciuta una buona leadership per creatività, moda, cibo e design, non è invece altrettanto diffusa la conoscenza del contributo, non trascurabile, di quell’innovazione tecnologica da molti anni perseguita in modo continuo e sistematico all’interno di aziende ed enti di ricerca del settore tessile e poi riversata nei settori più disparati.
Le sezioni dell’esposizione sono pertanto state suddivise per settore applicativo: elementi intermedi tessili verso trasporti, edilizia, sport, arredamento, protezione e altro ancora, naturalmente abbigliamento incluso. Potete averne un assaggio qui, nel piccolo album che ho realizzato in quella occasione.

E anche se la mostra si focalizzava sul know how italiano (evviva!), il concetto che desidero sottolineare è che il settore tessile è appunto trasversale e coinvolge settori che, normalmente, non associamo a filatura e tessitura.

Magari ultimamente non avete comprato abiti, magari non siete mai entrati in nessuna catena di fast fashion; e allora pensate di poter stare tranquilli e che le “Fashion Victims” nulla abbiano a che fare con voi.
Ma magari avete comprato delle tende da interni o da esterni o un set di lenzuola. Oppure le sdraio per il terrazzo.
Oppure siete stati dal medico o in ospedale. O avete cambiato il filtro di qualche elettrodomestico o altro macchinario.
Magari avete guardato la Formula Uno ammirando piloti e macchine.
O magari state comprando una casa in costruzione e discutete con i progettisti della questione isolamento termico.
E allora desidero dirvi che dai camici fino a qualche dispositivo medico, dalle tute ignifughe dei piloti fino ai filtri e agli isolanti per l’edilizia… tutto ciò viene o deriva dall’industria tessile.

Non voglio fare terrorismo psicologico, ma io credo che nessuno sia esente o estraneo dal problema e dalle questioni che stanno dietro l’industria tessile, moda o non moda.

È vero, come ho evidenziato io stessa attraverso la citazione della mostra Textile Evolution, le lavorazioni tessili più tecnicamente avanzate e più all’avanguardia si concentrano grosso modo in Italia e in Europa, ma vi dico che non esiste la certezza assoluta che sia sempre e solo così, anche perché l’evoluzione è continua. Insomma, io la mano sul fuoco non la metterei.

Mentre sono in ballo, desidero parlare anche della seconda parte de “La Grande Illusione”: le colpe della moda non risiedono solo nel fast fashion, nella sua nascita e nella sua diffusione, ma appartengono anche al segmento del lusso.

Ancora una volta, vi imploro di non farvi trarre in inganno.

Sul banco degli imputati non ci sono solo i ben noti marchi di moda low cost, bensì anche nomi blasonati fino ad arrivare alle maison di Alta Moda, in alcuni casi accusate di poca chiarezza a proposito delle risorse e delle materie prime utilizzate, spesso con riferimento a quelle di origine animale.

Naturalmente non sono io a dirlo, la microscopica Emanuela Pirré alias Manu alias A glittering woman, bensì studi, vari documenti, statistiche, indagini.

Volete un esempio circa il fatto che anche i brand blasonati non siano sempre innocenti?

In quanti ricordano lo scandalo che colpì Moncler, accusata nel 2014 dalla trasmissione Report di spennare (o spiumare) crudelmente le oche per fare i propri piumini, anziché “spazzolarle” o “pettinarle” nel periodo della muta, metodologie indolori?
Io, allora, ne parlai confessando anche tutte le mie personali debolezze e poi, da allora, non ho mai smesso di monitorare la questione, soprattutto per seguire l’andamento della reputation e in particolare della web reputation del marchio (sono studi che fanno parte del mio lavoro in ambito comunicazione).
Ebbene, a costo di attirarmi antipatie e/o insulti, posso dirvi che alle povere oche non ci pensa proprio più nessuno, visto che la crescita di Moncler è sempre stata costante, soprattutto in termini economici (se volete ho le prove di ciò che dico, da anni raccolgo link di articoli sui risultati economico-finanziari di Moncler): certo, per amor di cronaca e di verità, c’è da dire che da allora l’azienda ha accettato di trattare con molte associazioni animaliste e questo è apprezzabile.

Nel mio piccolo, di fast fashion verso alta moda e viceversa avevo già parlato in un ulteriore post (qui), senza difendere né l’una né l’altra, ma semplicemente esponendo alcuni fatti reali e augurandomi che ognuno di noi possa tenere gli occhi ben aperti e la guardia sempre alta – e allora esprimo nuovamente quella mia speranza ora.

Lo ripeto: non facciamoci fregare da “La Grande Illusione”.

Anche perché – in tutta franchezza – io credo che su un Pianeta che si sta rivelando sempre più piccolo non esista qualcosa che non ci riguardi…

QUARTA RIFLESSIONE: LA MIA CONFESSIONE TRA AUTOACCUSA E AUTODENUNCIA

Come ho confessato proprio in occasione del mio post su Moncler e anche in altri contesti, né la mia persona né il mio blog si possono considerare liberi da colpa.
Perché – come molti – anch’io compro talvolta capi fast fashion.
Perché uso borse, cinture, calzature e giacche in pelle.
Perché cerco di evitare la pelliccia ma talvolta ho ceduto.
La mia posizione è dunque ibrida, me ne rendo conto, nonché piena di contraddizioni: ammetto le mie debolezze, eppure vi dico che, anche grazie al mio lavoro nella moda, cerco di tenere gli occhi aperti e cerco di non smettere di pormi domande, costantemente, continuando a mettere in discussione me e le mie idee ogni singolo giorno.

Non sono pertanto qui a fare la predica a nessuno, sia ben chiaro, però voglio fare la mia piccola parte perché non ci si dimentichi del Rana Plaza e delle giovanissime “Fashion Victims” del Tamil Nadu e del Bangladesh (e di ogni altro luogo simile nel mondo), perché non ci si dimentichi delle oche spennate, perché non ci si dimentichi dei brand – e non mi importa che siano fast fashion o Haute Couture – che fanno fare i capi che indossiamo in fabbriche dalle politiche poco chiare o addirittura illegali.

È però ora che io vada oltre e che inizi a pensare seriamente a risolvere le mie contraddizioni, perché se certe contraddizioni possono essere (o sembrare) divertenti e pittoresche per quanto riguarda aspetti prettamente o squisitamente personali non lo sono più nell’ambito moda.
Per niente.

È ora di andare oltre le mie (o le nostre…) debolezze, è ora di pensare seriamente a un sistema produttivo che sia sostenibile in tutti i sensi, dal punto di vista sociale e ambientale.

E ho un piccolo messaggio per chi ritiene stupida me così come tutti coloro che la pensano come me, stupidi, esagerati, sentimentali, illusi, intellettualoidi e qualsiasi aggettivo si voglia usare.

Prima di puntare il dito verso gli altri, prima di parlare di complotti e intrighi a carico di chi fa (come sta accadendo con la giovanissima attivista svedese Greta Thunberg, 16 anni ovvero la stessa età delle “Fashion Victims”), vorrei che queste persone si chiedessero cosa stanno facendo loro per fermare il disastro e qual è la loro proposta e la loro alternativa.

E chiediamoci se persone come Greta non diano fastidio proprio perché fanno e perché, conseguentemente, disturbano la coscienza di chi non fa e si impegna invece a borbottare e a vedere intrighi.

Sarò un’illusa e una sentimentale ma, anche se mi ritrovo a essere appesantita dalla zavorra di un armadio troppo gonfio e ipernutrita da cibi troppo ricchi, io sento ancora l’adolescente che è in me, quella che andava alle manifestazioni per la pace.
E quella adolescente intendo tirarla sempre più fuori, liberandola finalmente dai grassi fardelli dai quali ha talvolta rischiato di essere soffocata.

QUINTA RIFLESSIONE: COSA INTENDO FARE (O ANCHE COSA POSSIAMO FARE)

So che vi avevo detto di non aver risposte o soluzioni da offrirvi.

Ma, dopo aver fatto autocritica ed essermi autodenunciata, ho anche il desiderio di dirvi che cosa cercherò di fare, praticamente, concretamente e in tempi brevi, per evitare che resti tutto bella teoria, cosa intendo fare per sfruttare in modo positivo quella vergogna che ho provato assistendo al film “Fashion Victims”.

Per usare le parole di Fashion Revolution… “Be curious, find out, do something”.

E io inizierò con alcune regole abbastanza semplici.

Lo sforzo più grande sarà quello di comprare meno, in generale; tra questi acquisti ridotti dovranno brillare gli acquisti di qualità.

Per realizzare ciò, intendo modificare il mio rapporto con il fast fashion, mettendo i brand che rappresentano questo segmento sotto una lente di ingrandimento ancora più potente e facendo un’analisi ancora più severa: guarderò ancora meglio le loro etichette e, soprattutto, mi terrò sempre più aggiornata circa le loro politiche di trasparenza.

I mezzi per fare ciò esistono e sono in aumento: le pagine dedicate a sostenibilità e trasparenza sui siti dei vari brand nonché gli strumenti come il Fashion Transparency Index, uno studio messo a disposizione proprio da Fashion Revolution.

È appena stata pubblicata l’edizione 2019 dello studio che analizza la trasparenza dei 200 marchi di moda più grandi: vedete un riassunto nella grafica qui sotto e, sostanzialmente, solo cinque brand segnano un punteggio superiore al 60%, a dimostrazione del fatto che alcuni marchi stanno facendo passi concreti per rivelare di più circa le loro politiche e gli impatti riguardo diritti umani e ambiente, mentre nessun brand raggiunge un punteggio superiore al 70%, a dimostrazione del fatto che c’è ancora molta strada da fare.

Per leggere tutto a proposito dello studio cliccate qui e cliccate invece qui per scaricarlo.

Tornando alla lente di ingrandimento di cui stavo parlando: essa non risparmierà i brand del lusso, soprattutto quelli che fanno parte delle grandi holding finanziarie e sono pertanto costretti a ragionare in un’ottica di ricavi e redditività, spesso quasi esclusivamente e perfino a discapito di prestigio, abbassando la qualità esattamente alla stessa stregua del fast fashion.

Al contrario, sempre in un’ottica di maggiore qualità, intendo invece aumentare lo spazio che riservo ai micro brand e alle realtà artigianali, quelle in grado di controllare l’intera filiera produttiva, dalla scelta di filati e tessuti fino alla confezione e alla successiva distribuzione: lo spazio a loro dedicato sarà aumentato sia parlando sempre più di loro qui nel blog (e quindi valorizzando argomenti come talento e capacità) sia acquistando da loro.

Anche a loro, chiederò comunque conto della provenienza dei tessuti – anzi, a maggior ragione.

Nell’ottica di limitare la produzione di ulteriore nuovo abbigliamento (del quale, in effetti, non abbiamo un particolare bisogno), continuerò anche a privilegiare il mio amore per vintage e second hand, dunque valorizzando, reimpiegando e facendo circolare ciò che già esiste: mi sono occupata varie volte della second hand economy attraverso vari articoli e, in particolare, attraverso un post con alcuni indirizzi di Milano che ho testato e per i quali posso quindi mettere la faccia con serenità. Ho anche dedicato una serie di post a una manifestazione che amo molto e che si chiama Next Vintage, a Belgioioso, in provincia di Pavia, e che ha il merito non solo di promuovere l’acquisto bensì la cultura della moda attraverso la sua storia.

Oltre a comprare meno, desidero inoltre ridurre il volume dei miei armadi aumentando la circolarità e la sostenibilità di ciò che contengono.

Questo non vuol dire andare nel mio e nei nostri armadi e, per esempio, buttare capi indiscriminatamente e senza criterio: non fatelo, renderebbe ancora più inutile il sacrificio di chi lavora in certe condizioni. Non è l’estremismo in un senso o nell’altro ciò che di cui abbiamo bisogno.

Come fare, allora?

Prima di tutto, imparando a fare shopping nel mio stesso armadio, quindi riscoprendo, reinventando, valorizzando ciò che già possiedo: vale per me ma forse per tante persone, pensiamo a un nuovo utilizzo, magari a reinventare un capo, cambiando la sua destinazione d’uso o modificandolo, cose che tra l’altro richiedono creatività e personalità.

Scommetto che capita anche a voi di guardare un capo in una vetrina oppure in Instagram o Facebook e di pensare «ho anch’io qualcosa di simile a casa… dove l’ho messo?»: ecco, tiriamo fuori i nostri tesori!

I capi devono vivere e devono essere usati e non sono fatti per stare costantemente (ed esclusivamente) appesi in un armadio: se così è, se un capo non ci rappresenta più, non ci serve più, non ci sta più, allora doniamolo – ovvero applichiamo l’altra alternativa.

Anche in questo caso, cercherò di esercitare un controllo: informarmi su chi sono gli enti che raccolgono i capi usati e cosa ne facciano, informarmi circa le iniziative dei marchi che riprendono i capi usati a scopo riciclo capendo, anche nel loro caso, cosa ne facciano.

Applicherò inoltre il principio “dentro uno fuori uno”, quindi per ogni capo che acquisterò un altro dovrà uscire facendomi però carico del suo destino.

Come avrete notato, la parola che ricorre da una volontà all’altra è informazione: lo faccio già, fa parte del mio carattere e anche del mio lavoro, ma lo farò sempre più continuando a rifiutare gli stereotipi, per esempio, come ho già scritto, quello che vuole che solo la moda sia la responsabile degli scempi nel tessile e dell’esistenza delle “Fashion Victims” oppure quello che sia il settore fast fashion ad avere tutte le responsabilità in ambito moda.

E – a questo proposito – desidero tornare un attimo al Fashion Transparency Index 2019 di Fashion Revolution per citare due esempi che devono farci riflettere circa gli stereotipi.

H&M viene spesso citato tra i marchi di fast fashion responsabili di tutta una serie di gravi mancanze e se cito questo nome è per due motivi precisi.

Il primo è perché ho ricevuto un comunicato stampa che spiega come il colosso del fast fashion abbia ufficialmente introdotto la possibilità di scoprire maggiori informazioni e dettagli riguardanti i propri capi: basta accedere al sito e, per ciascun articolo, cliccare sulla voce “sostenibilità del prodotto” per scoprire una scheda in cui sono elencati elementi quali i materiali utilizzati, il Paese di produzione, i nomi dei fornitori, i nomi e gli indirizzi delle fabbriche e il numero dei lavoratori. Oltre a essere disponibili dal 23 aprile in 47 shop online di altrettanti Paesi in cui il brand è presente, queste informazioni sono accessibili anche nei negozi fisici facendo lo scan del cartellino con il prezzo del prodotto tramite la app H&M.

Questa iniziativa si aggiunge a quelle che H&M ha implementato negli anni (e che avevo in parte elencato qui) nonché al fatto che, secondo il proprio Sustainability Report relativo al 2018, la quota di materiali utilizzati di natura riciclata o sostenibile è arrivata al 57 per cento, con un incremento del 35% in un anno.

E qui arriva il secondo motivo per cui cito il marchio: agli scettici dico che – udite udite – H&M si trova al 5° posto della classifica generale del Fashion Transparency Index 2019 di Fashion Revolution con un punteggio del 61%. Potete controllare voi stessi (rimetto il link) a pagina 4.

Aggiungo che H&M si posiziona bene o molto bene anche nelle singole sezioni di dettaglio.

Mi sembra giusto citare anche i nomi ai primi quattro posti: Adidas, Reebok, Patagonia, Esprit.

Siete scioccati o quanto meno sorpresi?

E allora do un ulteriore colpo agli stereotipi: purtroppo, sempre a pagina 4, tra i cinque brand che hanno totalizzato un punteggio pari a zero (zero!), trovate un brand che fa parte del cosiddetto ambito lusso…

Sarò gentile e, dato che si tratta di un dato fortemente negativo, non citerò in chiaro il nome: il punteggio zero non meriterebbe il mio scrupolo, ma a questo punto sfido un po’ anche la vostra curiosità e determinazione nel voler scoprire verità scomode.

Sia ben chiara un’altra cosa: non è sufficiente una classifica o un buon posizionamento, so che occorre concretezza sempre maggiore. Ma ho fiducia in Fashion Revolution e credo che voler essere trasparenti sia sinonimo di non aver nulla da nascondere o comunque di voler risolvere le cose, mentre chi non è trasparente mi fa venire brutti pensieri.

Tornando infine ai nostri guardaroba…

Se, contrariamente a me, non avete il problema di un armadio troppo ingombrante (bravi!), le volontà devono restano comunque le stesse: prediligere la qualità, sostenere i piccoli brand, provare second hand e vintage, pretendere chiarezza e trasparenza, tenere gli occhi aperti e informarsi.

SESTA RIFLESSIONE: COSA POSSIAMO FARE OLTRE A UNO SHOPPING PIÙ CONSAPEVOLE?

Lo shopping consapevole non è l’unico aiuto concreto che possiamo dare noi affinché si vada verso il miglioramento e la risoluzione della condizione in cui versano le “Fashion Victims” indiane e di qualsiasi altro Paese nel quale esistano forme similari di moderna schiavitù (dove l’aggettivo “moderna” non ha accezione positiva ma indica solo qualcosa che accade nella contemporaneità).

Anzi, abbiamo detto che lo shopping, oltre a essere consapevole e sostenibile, deve in realtà comunque essere ridotto, contenuto e soppesato attentamente.

Dunque è meglio dedicarsi anche ad altre attività, formandosi e informandosi, perché cultura e informazione sono sempre le due parole magiche.

Io mi permetto di consigliarvi di adoperare fonti certe, autorevoli e di qualità e, se me lo permettete, ne suggerisco due.

La prima è – naturalmente – Fashion Revolution, l’organizzazione della quale vi sto parlando fin dal principio.

Vi lascio i link ai loro canali ufficiali: qui trovate il sito (da dove arrivano le frasi e le infografiche con le quali ho corredato questo post), qui la pagina Facebook, qui l’account Instagram e qui quello Twitter.
Aggiungo anche i canali social di Fashion Revolution Italia: qui la pagina Facebook, qui l’account Instagram e qui quello Twitter.

Vi consiglio inoltre di leggere e firmare il loro Manifesto qui: se lo faccio è perché io per prima l’ho già fatto.

Potete anche aderire alla campagna #whomademyclothes in piena attività in questi giorni della Fahion Revolution Week 2019 (ripeto, 22-28 aprile) e trovate tutte le info su questa campagna e altri modalità di impegno attivo qui.

La seconda fonte è – altrettanto naturalmente – il sito collegato al film “Fashion Victims” nonché la pagina Facebook dove potete trovare aggiornamenti e ulteriore materiale (e dal quale io ho preso le foto e i frame del film, tutto materiale di © Alessandro Brasile).

Dal canto mio posso farvi una promessa solenne: continuerò – come faccio dal 2013 – a occuparmi con passione e coscienza di moda (nonché di costume e società) sotto ogni punto di vista e aspetto, da quelli più leggeri a quelli più impegnati, incluse questioni come gender gap, women empowerment, body shaming; continuerò inoltre a raccontare con gioia la moda che amo, quella del talento, del Made in Italy e dei grandi nomi, italiani ed esteri, che hanno scritto la storia.

Oltre a impegnarmi in una migliore gestione del mio guardaroba, questo è per me il modo più sincero, autentico, efficace, attivo e concreto di oppormi a tutto ciò che non mi piace della moda, nella convinzione che bellezza, correttezza e cultura lastrichino la strada per portare alla liberazione di queste ragazze, delle “Fashion Victims” delle quali mi sento di farmi carico come persona e professionista, affinché la moda non sia mai più schiavitù ma strumento di libertà.

Chiudo questo lungo viaggio condividendo con voi il trailer di “Fashion Victims” e confessandovi un mio grande desiderio: portare il docu-film nella scuola in cui insegno (Accademia del Lusso) perché credo che le nuove generazioni debbano crescere con una mentalità maggiormente e finalmente improntata al rispetto della vita umana.

Ho parlato di questo desiderio con Chiara Cattaneo al termine della proiezione del 23 aprile così come ho chiesto dove altro sarà possibile vedere il film: mi ha detto che, oltre a proporlo ad altri cinema e altre manifestazioni / organizzazioni, lei e Alessandro stanno lavorando per rendere possibile la visione in streaming.

Se siete interessati, seguite i canali social che vi ho indicato qui sopra o anche i miei: non mancheremo di dare notizie e aggiornamenti in merito.

Le ultime parole sono per chi sta leggendo.

Proprio per te, sì.

Grazie di nuovo con tutto il cuore per aver letto fin qui e ricorda: noi contiamo e ogni grande cambiamento è partito in piccolo.

Non arrendiamoci, perché cambiare si può.

La goccia scava la pietra.

Manu

 

 

 

«Dio, concedimi la serenità di accettare le cose che non posso cambiare, il coraggio di cambiare le cose che posso, e la saggezza per conoscere la differenza.» (Incipit della Preghiera della serenità del teologo protestante tedesco-statunitense Reinhold Niebuhr, XX secolo)

«Dobbiamo pensare agli abiti come a qualcosa da abitare, con la stessa radice di abitudine, dunque come a qualcosa che ci appartiene profondamente ben oltre l’apparenza.» (Alessandro Brasile, fotografo e autore di Fashion Victims”)

«Quando tutto nell’industria della moda è focalizzato sul profitto, i diritti umani, l’ambiente e i diritti dei lavoratori vengono persi. Questo deve finire, abbiamo deciso di mobilitare le persone in tutto il mondo per farsi delle domande. Scopri. Fai qualcosa. L’acquisto è l’ultimo click nel lungo viaggio che coinvolge migliaia di persone: la forza lavoro invisibile dietro ai vestiti che indossiamo. Non sappiamo più chi sono le persone che fanno i nostri vestiti, quindi è facile far finta di non vedere e come risultato milioni di persone stanno soffrendo, perfino morendo.» (Carry Somers, esperta, stilista e co-fondatrice di Fashion Revolution)

«Fashion Revolution verte sul costruire un futuro nel quale incidenti del genere (tragedia Rana Plaza) non succedano mai più. Noi crediamo che conoscere chi fa i nostri vestiti sia il primo passo per trasformare l’industria della moda. Sapere chi fa i nostri vestiti richiede trasparenza e questo implica apertura, onestà, comunicazione e responsabilità. Riconnettere i legami rotti e celebrare la relazione tra clienti e le persone che producono i nostri vestiti, scarpe, accessori e gioielli – tutto quello che chiamiamo fashion.» (Orsola de Castro, esperta, stilista e co-fondatrice di Fashion Revolution)

«Fashion Revolution vuole essere il primo passo per la presa di coscienza di ciò che significa acquistare un capo d’abbigliamento, verso un futuro più etico e sostenibile per l’industria della moda, nel rispetto delle persone e dell’ambiente. Scegliere cosa acquistiamo può creare il mondo che vogliamo: ognuno di noi ha il potere di cambiare le cose per il meglio e ogni momento è buono per iniziare a farlo.» (Marina Spadafora, coordinatrice di Fashion Revolution in Italia)

«Our future was stolen every time you said that ‘the sky was the limit’ and that ‘you only live once’.» (Greta Thunberg, 16 anni, attivista svedese)

«Quello che serve è la revisione di un intero modello di business, perché il problema è pensare la moda come prodotto usa e getta. È un processo lento, ma è pur vero che per cambiare le tendenze di mercato, per mia esperienza, non serve il 100% dei consumatori: basta una minoranza allargata.» (Chiara Campione, senior strategist head of the Corporate and Consumer Unit di Greenpeace Italia)

 

 

 

 

 

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Manu

Mi chiamo Emanuela Pirré, Manu per gli amici di vita quotidiana e di web. Sono nata un tot di anni fa con una malattia: la moda. Amo la moda perché per me è una forma di cultura, una modalità di espressione e di comunicazione, un linguaggio che mi incuriosisce. Scrivo e creo contenuti in ambito editoriale, principalmente proprio per la moda. Insegno (Fashion Web Editing, Storytelling, Content Creation) in due scuole milanesi. Vivo sospesa tra passione per il vintage e amore per il futuro e sono orgogliosa della mia nutrita collezione di bijou iniziata quando avevo 15 anni. Per fortuna Enrico, la mia metà, sopporta (e supporta) entrambe, me e la collezione, con pazienza e amore. Oltre a confessare un'immensa curiosità, dichiaro la mia allergia a pregiudizi, cliché, luoghi comuni, conformismo e omologazione. Detesto i limiti, i confini, i preconcetti – soprattutto i miei – e mi piace fare tutto ciò che posso per superarli. La positività è la mia filosofia di vita: mi piace costruire, non distruggere. Moda a parte, amo i viaggi, i libri e la lettura, l'arte, il cinema, la fotografia, la musica, la buona tavola e la buona compagnia. Se volete provare a diventare miei amici, potete offrirmi un piatto di tortellini in brodo, uno dei miei comfort food. Oppure potete propormi la visione del film “Ghost”: da sognatrice, inguaribile romantica e ottimista quale sono, riesco ancora a sperare che la scena finale triste si trasformi miracolosamente in un lieto fine.

Glittering comments

rossella kohler
Reply

Grazie, Manu, per questo bellissimo post. Sì, sono arrivata fino in fondo e condivido ogni cosa. Spero che tu riesca a scuotere più coscienze possibile, e insegnando in una scuola il tuo ruolo può essere fondamentale perché sono soprattutto le giovani generazioni da sensibilizzare. Anche se nelle nostre società invecchiate gli acquisti degli anziani hanno ovviamente un grande peso. Comunque mi annoto i tuoi buoni (ottimi) propositi, perché la mia coscienza è già scossa, ma poi nel quotidiano ci si dimentica. Un abbraccio e grazie ancora.

Manu
Reply

Rossella cara,
Mi fa immensamente piacere conoscerti, sei la benvenuta!

Grazie per aver letto (sei eroica per essere arrivata fino in fondo…) e grazie per le tue parole, interessanti e che condivido: è vero, cercare di trasmettere qualcosa di buono alle nuove generazioni sensibilizzandole è importantissimo se non fondamentale, ma non bisogna mai dimenticare le persone più grandi, ovvero tutti coloro che sono nati prima della Generazione Y (o Millennials) e dell’ultimissima Generazione Z.
Sì, ci siamo anche noi (io stessa faccio parte della cosiddetta Generazione X) e i nostri acquisti hanno peso, eccome, e dunque anche noi dobbiamo fare grandi sforzi.
Anche perché hai scritto un’altra grande verità: nel quotidiano ci si dimentica…

Grazie al tuo commento, ho tra l’altro scoperto l’esistenza del tuo blog…
E guarda, sei riuscita a catturare la mia attenzione già a partire dal nome: ora vado subito a curiosare e anzi, voglio lasciare molto chiaramente il link anche a chi passerà da qui, andate su Fantastic Nonna e buona lettura.
Perché credo sul serio nella condivisione…

Un abbraccio anche a me e davvero grazie di tutto,
Manu

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