Cara Maria Vittoria Albani… questo è solo un arrivederci…

Stamattina, al mio risveglio, ho ricevuto una notizia per me scioccante, ovvero la scomparsa di Maria Vittoria Albani, colei che è stata giustamente definita la signora del gioiello moda italiano dalla professoressa Alba Cappellieri in un bellissimo articolo per Preziosa Magazine.

Si è spenta a 89 anni, per un brutto male.
«È stata creativa e combattiva, lucidissima fino a pochi giorni fa.»
Così ha scritto la persona che mi ha dato la notizia: vi confesso che, avendo avuto l’immenso onore di conoscere questa donna straordinaria, minuta di fisico ma vulcanica quanto a testa e cervello, non sono affatto sorpresa della vitalità che ha dimostrato fino all’ultimo.

Ho incontrato Maria Vittoria Albani per la prima volta quattro anni fa, in marzo 2015, quando il Museo del Bijou di Casalmaggiore, in collaborazione con Bianca Cappello, storica e critica del gioiello, ha allestito un’importante e bellissima mostra interamente dedicata a Ornella Bijoux, l’azienda fondata nel lontano 1944 da Maria Vittoria e dalla mamma Piera.

Anno dopo anno, la loro creatura si è trasformata in una griffe di costume jewellery mondialmente riconosciuta e che viene considerata una tra le più ricercate e apprezzate da intenditori e appassionati.

All’epoca, nel 1944, Maria Vittoria aveva solo 14 anni e la mamma, Piera Albani, era rimasta vedova: rilevare un campionario di bigiotteria fu per loro l’inizio di una nuova avventura – che continua ancora oggi con Simona e Marta, rispettivamente figlia e nipote di Maria Vittoria – e di una nuova vita.

I primi tempi furono all’insegna di grandi sacrifici: il campionario era sistemato in bauli e portato in giro in bicicletta per essere mostrato ai vari rivenditori e, in un’Italia in gran parte distrutta, le due donne si avventurano fino al sud, spesso ottenendo fortuiti passaggi.

Nonostante la giovanissima età, Maria Vittoria mostrò una straordinaria attitudine al disegno e alla composizione creativa e, già agli inizi degli Anni Cinquanta, divenne ufficialmente la disegnatrice di Ornella Bijoux: nel 1957, vinse il “Primo Concorso Nazionale Sorelle Fontana per l’Accessorio nell’Alta Moda”.

La storia di Ornella Bijoux si fonde dunque con le vicissitudini italiane: parla di coraggio, di autentico spirito imprenditoriale in un momento difficilissimo come quello del secondo dopoguerra, parla di due donne straordinarie e coraggiose che sono state artefici del proprio destino in un’epoca in cui nemmeno esisteva l’espressione women empowerment.

Quel pomeriggio del 21 marzo 2015, a Casalmaggiore, mi sono innamorata immediatamente di Maria Vittoria: a folgorarmi è stato proprio il suo carattere, un mix di vitalità, energia, entusiasmo, tenacia, volontà, talento, carisma, verve, competenza, il tutto condito da un’immensa gentilezza.

Le uniche cose che Maria Vittoria Albani non possedeva erano infatti la spocchia e l’arroganza: sono sempre stati gli altri a riconoscerle l’indiscussa importanza e grandezza.

Tornata a casa, ho scritto un post raccontando della mostra e narrando tutta la lunga e gloriosa storia di Ornella Bijou, Piera e Maria Vittoria, una storia costellata di successi e grandi realizzazioni: il titolo eloquente che ho scelto, “Ornella Bijoux, un’autentica icona italiana”, racconta tutta la mia ammirazione.

Un paio di mesi dopo, sono andata a trovare Maria Vittoria nel suo laboratorio di Milano: ricordo come fosse ieri la mia enorme emozione nel poter entrare nel suo mondo, quanto fossi onorata del fatto che lei avesse accettato di accogliermi nel suo regno.
La foto che vedete qui in alto è stata scattata proprio quel giorno: il sorriso racconta la mia felicità meglio di mille parole e, al collo, porto una delle creazioni di Maria Vittoria, una delle tante che lei mi ha permesso di provare nonché la mia preferita.
Anche quella volta, dai racconti e dalle scoperte, è nato un post intitolato “Maria Vittoria Albani, vorrebbe adottarmi?”.

Non me ne voglia la mia mamma – che adoro – né Simona, la vera figlia: quel titolo affettuosamente scherzoso voleva esprimere tutta la mia stima per una donna la cui creatività mi faceva desiderare di poter essere una figlia adottiva, io che ho scelto il nomignolo glittering woman.

Di quel pomeriggio nel suo laboratorio conservo anche un paio di ricordi nitidi e inediti che oggi condivido.

Il primo è che mi confessò di non indossare gioielli, con la sola eccezione delle spille: questa cosa mi incuriosì molto, mi incuriosì il fatto che la signora del gioiello moda non fosse anche un’utilizzatrice.

Il secondo ricordo è relativo a quando, prima di andare via, mi invitò a scegliere un suo pezzo: voleva farmi un regalo e il suo pensiero così gentile e delicato mi fece emozionare.
Non dimenticherò mai il suo sguardo intenerito davanti alla mia emozione che credo le avesse fatto comprendere quanto la ammirassi.

Da allora, negli anni, ci siamo incontrate tante volte, soprattutto in occasione degli eventi culturali legati a moda e gioiello: ci salutavamo sempre con grande entusiasmo e simpatia, una simpatia che sentivo essere reciproca.

In tali incontri, non mancavo di ammirare la sua innata eleganza senza fronzoli, ricordando ciò che mi aveva confessato quel pomeriggio in laboratorio: è vero, non portava gioielli se non qualche spilla eppure, per tutta la sua vita, ha sempre saputo con estrema precisione cosa noi donne amiamo indossare.
Tutto ciò grazie a un fiuto istintivo e infallibile, a un gusto squisito, a una curiosità inarrestabile e infinita: ed ecco perché, a 89 anni, Maria Vittoria è scomparsa essendo ancora giovane e vitale.

Non dimenticherò mai la sua energia e il suo entusiasmo.
Incontrarla e conoscerla, ascoltarla, visitare il suo laboratorio, aprire con lei cassetti e vetrine scoprendo infinite meraviglie: considero tutto ciò uno dei grandi regali che la vita mi ha fatto.

Ho scritto tanti post dedicati alle mie icone scomparse, uomini e donne che tanto hanno fatto nell’ambito dell’ingegno e della creatività.
In alcuni casi, ho avuto la fortuna di stringer loro la mano almeno una volta, come accadde con Krizia; in altri casi, nonostante la possibilità di vari incontri, non ho mai avuto l’ardire di farmi avanti, come accadde con Elio Fiorucci; in due casi, quelli di Angelo Marani e Maria Vittoria Albani, il dolore della scomparsa è aggravato dal fatto di aver avuto l’onore di intrattenermi e chiacchierare con loro in varie occasioni.

Ecco perché, oggi, mi sento un po’ orfana: sento di aver perso quella mamma adottiva per affinità elettiva.
Naturalmente, con tutto il mio più grande rispetto per il dolore della vera famiglia alla quale mi unisco in un affettuoso abbraccio.

Manu

Postilla del 30 aprile…
Ieri sono stata alla funzione in onore di Maria Vittoria Albani e il parroco della Chiesa di Santa Maria Segreta ha detto tante cose che hanno colpito il mio cuore, come quando ha parlato di lei come di una persona nella quale molti riconoscevano una figura di confidente e di riferimento all’insegna di una maternità diffusa (non ero poi folle a percepirla come una sorta di mamma adottiva per affinità elettiva…) o come quando l’ha descritta come persona capace di un’ironia leggera (specificando che è cosa ben diversa dalla superficialità e che, al contrario, è la rara capacità di saper distinguere le cose davvero serie riuscendo a ironizzare con leggerezza) o come quando ha raccontato di come si era inventata le spillette per il gruppo scout…
Che donna!
«Commemoriamo con la testa e ricordiamo con il cuore»: così ha concluso e non c’è dubbio che Maria Vittoria sarà ricordata con tanto cuore

Fashion Victims, quelle VERE vivono, lavorano (e soffrono) in India

Era il 24 aprile 2013 quando il Rana Plaza, edificio commerciale di otto piani, crollò a Savar, sub-distretto di Dacca, la capitale del Bangladesh.
Le operazioni di soccorso e ricerca si conclusero con un bilancio dolorosissimo: 1.134 vittime e circa 2.515 feriti per quello che è considerato il più grave incidente mortale avvenuto in una fabbrica tessile nonché il più letale cedimento strutturale “accidentale” nella storia umana moderna.
Com’è tragicamente noto, il Rana Plaza ospitava alcune fabbriche di abbigliamento, una banca, appartamenti e numerosi negozi: nel momento in cui furono notate delle crepe, i negozi e la banca furono chiusi, mentre l’avviso di evitare di utilizzare l’edificio fu ignorato dai proprietari delle fabbriche tessili.
Ai lavoratori venne addirittura ordinato di tornare il giorno successivo, quello in cui l’edificio ha ceduto collassando – e per questo ho messo “accidentale” tra virgolette…

Lo voglio ripetere: nel crollo, persero la vita 1.134 persone e ci furono oltre 2.500 feriti.

Molte delle fabbriche di abbigliamento del Rana Plaza lavoravano per i grandi committenti internazionali e questo orribile sacrificio di vite umane ha squarciato il velo di omertà che copriva, a mala pena, pratiche che moltissimi, in realtà, conoscevano da tempo e fingevano di non vedere.

Chi ha buona memoria, ricorderà forse che di tutto ciò ho già scritto lo scorso anno; continuerò a farlo, continuerò a scriverne finché sarà necessario, fino a quando non ci sarà un vero cambiamento, così come continuerò (anche questo come ho già fatto l’anno scorso) a scrivere di Fashion Revolution, il movimento presente in 102 Paesi nel mondo che è stato fondato da Carry Somers (stilista per oltre 20 anni con il brand Pachacuti che ha rivoluzionato il concetto di trasparenza nell’ambito della catena produttiva nella moda) e da Orsola de Castro (voce autorevole della moda sostenibile con il suo marchio From Somewhere fondato sul concetto di upcycling).

Nel 2013, dopo la tragedia del Rana Plaza, Carry e Orsola hanno deciso di fondare Fashion Revolution, organizzazione che conduce una costante campagna di sensibilizzazione rivolta soprattutto al consumatore finale: promossa attraverso stampa e social media, prevede eventi che siano mirati a promuovere il concetto di moda etica e di sostenibilità.

Nell’ottica di tale campagna e insieme a Fashion Film Festival Milano nonché in occasione della Fashion Revolution Week 2019 (22-28 aprile), Fashion Revolution ha promosso martedì 23 aprile la proiezione di “Fashion Victims”, docu-film di Chiara Ka’Hue Cattaneo e Alessandro Brasile.

Il documentario “Fashion Victims” è ambientato nel Tamil Nadu, ovvero uno dei 29 stati che compongono l’India: questo stato si trova nel sud del Paese e qui milioni di adolescenti e di giovani donne lavorano nell’industria tessile, dalla filatura alla tessitura del cotone fino alla confezione di capi di abbigliamento, per il mercato locale e internazionale. Leggi tutto

Dr. Martens tra storia, curiosità, amore per loro e la collezione SS 19

Ho raccontato in varie occasioni come, dopo lunghi anni, la grande e folle storia d’amore tra me e le scarpe con tacco alto sia terminata senza ripensamenti né ritorni di fiamma.

Nessun evento tragico è alla base di questa fine: semplicemente, la nostra vita cambia e noi cambiamo così come mutano i nostri gusti e le nostre esigenze. Rivendico per tutti noi il diritto di evolverci e anche di cambiare idea.

Da quando ho abbandonato i tacchi alti, il mio amore si è riversato ancor di più su stivali, stivaletti, biker boots, anfibi, ballerine e sandali ai quali si sono aggiunte le sneaker che, un tempo, indossavo solo per le attività sportive.

Tutte le calzature che scelgo sono oggi unite da una caratteristica comune, ovvero quella di variare dal rasoterra (che porto con molta moderazione in quanto non è salutare quanto il tacco troppo alto) a tacchetti o rialzi o piccole zeppe che oscillano fra tre e massimo cinque centimetri, l’altezza che viene considerata ideale da molti ortopedici e podologi.

Tra le mie scarpe preferite ho citato gli anfibi e, in questo caso, si tratta di una passione immensa che coltivavo fin da ragazzina nonostante, allora, mia mamma non volesse saperne di comprarmi le calzature al centro dei miei desideri, ovvero gli anfibi Dr. Martens.

Se non me li voleva comprare era sicuramente perché – assolutamente in buona fede – pensava che quegli stivali stringati dalla spessa suola a carrarmato non fossero adatti a una ragazzina piuttosto riservata e dal look poco alternativo o aggressivo, mentre in quegli anni il nome Dr. Martens andava un po’ a identificare la cosiddetta cultura underground, quella che si è posta in antitesi e in alternativa alla cultura di massa: le Dr. Martens sono state in effetti le calzature che hanno identificato e accomunato talune sottoculture tra le quali punk, skinhead, grunge, metallari.

Naturalmente, mi sono rifatta da adulta, perdonando mia mamma per la mancanza di cui ho sofferto: sto scherzando, naturalmente, sul fatto di definire la mia come una sofferenza, mentre non scherzo affatto quando mi auguro che mia mamma possa perdonare (o meglio comprendere) il fatto che la sua ex-ragazzina quasi bon ton si sia trasformata in una donna un po’ ribelle, sicuramente allergica a certi diktat come «tacco alto = femminilità». Leggi tutto

Quattro imprenditori lucchesi rilanciano Tessieri, storica azienda italiana

Servono belle notizie.
Servono storie belle e vere che fungano da esempio e che siano d’incoraggiamento.
Serve positività.

Per questo, oggi, scelgo di condividere una storia che mi è stata sottoposta.
Non c’entra nulla con la moda, ma c’entra con il talento, la capacità, il saper fare, il Made in Italy, la tradizione e il coraggio dell’innovazione.

C’entra un prodotto unico nel suo genere, immutato da oltre cento anni, c’entrano quattro imprenditori lucchesi legati da una lunga e profonda amicizia, c’entra una storia artigiana che è parte integrante della storia manifatturiera italiana, c’entra il desiderio di investire in un prodotto storico e di grande prestigio.

Sono questi gli ingredienti alla base della nuova avventura d’impresa che vede come protagonisti la Premiata Fabbrica di mattonelle A. Tessieri & C., nata a Lucca nel lontano 1902, e un gruppo di amici oggi alla guida della società: Piergiorgio Tessieri (socio maggioritario, proprietario della Publiartex e pronipote di Alfredo, fondatore della fabbrica), Manuel Vellutini e Marco Pierallini (entrambi vicepresidenti esecutivi della Wolters Kluwer CCH Tagetik) e infine Alessandro Mennucci (amministratore delegato della Toscotec).

Dapprima, nell’aprile 2017, è stato Piergiorgio Tessieri a diventare socio unico dell’azienda, raccogliendo il testimone dal cugino Francesco che, nella Tessieri, è cresciuto tramandando il sapere artigiano per oltre sessant’anni. Ed è stato sempre lui, qualche mese fa, a voler coinvolgere nella compagine societaria gli altri tre imprenditori, suoi amici storici e a loro volta legati da un grande amore nei confronti delle mattonelle Tessieri: così, dopo oltre cento anni di attività, la Tessieri ha aperto per la prima volta il proprio capitale a persone non di famiglia.

«Ho una duplice missione: da una parte, garantire la continuità di una storia cominciata con il mio bisnonno Alfredo nel 1902 e arrivata fino a me che, di questa famiglia e di questa azienda, rappresento la quarta generazione; dall’altra, preservare la bellezza delle mattonelle, l’artigianalità di un manufatto che è rigorosamente fatto a mano in tutto il suo processo produttivo, con le stesse lavorazioni, gli stessi stampi, le medesime formulazioni di oltre cento anni fa.»

Così racconta Piergiorgio che spiega anche come un pavimento Tessieri sia sinonimo di prestigio, raffinatezza, qualità e come rappresenti una storia che contiene i tratti distintivi del Made in Italy e dell’alto artigianato manifatturiero che si distingue per tradizione, eccellenza e connotazione storica, tanto che l’azienda può dire di aver resistito anche al passaggio di due grandi guerre.

Partendo da acqua, terra e minerali, Tessieri produce esattamente da 116 anni mattonelle, in graniglia o pasta di cemento, decorate con disegni di ispirazione Art Nouveau.

Per realizzarle, sono stati creati più di trecento stampi e divisionali, ancora oggi utilizzati abitualmente e grazie ai quali è possibile ottenere centinaia di disegni e combinazioni diverse: mi piace sottolineare che gli stampi consentono non solo la produzione di nuovi pavimenti, ma anche il restauro di quelli più antichi.

Gli artigiani della Tessieri, infatti, possono sostituire qualsiasi mattonella della loro produzione, anche quelle centenarie, riuscendo a ottenere la stessa cromatura invecchiata, dosando i colori secondo uno stile inconfondibile, ogni volta diverso, speciale e unico. Leggi tutto

Creatività a quattro mani tra mamma e figlia con byMo design

Avviso: state per leggere l’ennesima delle storie di talento che amo raccontare qui in A glittering woman ed è una di quelle che hanno tutti gli elementi che preferisco.

Partiamo?
C’era una volta…
No, scusate: ci sono oggi due donne, precisamente una già adulta (che si chiama Laura) e una ancora bambina (che si chiama Viola).
A legarle è uno dei rapporti più intensi che esistano: sono mamma e figlia.

Dalla mente creativa di Laura Moalli, designer e fondatrice del marchio byMo design, nasce You are my Person: potrei forse descriverla come una linea di t-shirt, ma sarebbe limitativo poiché è il risultato di un lavoro a quattro mani e due cuori, quelli di Laura stessa e di Viola, la sua bambina di 9 anni.

Le t-shirt, in cotone bianco e rigorosamente Made in Italy, variano per la lunghezza delle maniche: lunghe, a tre quarti oppure corte.
Ciò che le rende particolari è il fatto di essere dedicate espressamente alle mamme e alle loro bambine: ogni modello, infatti, è disponibile sia per la mamma sia per la figlia, a partire dai 2 fino agli 11 anni, e Laura deve ringraziare la sua bambina perché le stampe che ornano le maglie sono la riproduzione dei disegni che Viola ha realizzato qualche anno fa, quando aveva tra i 5 e i 7 anni.
Viola è dunque una giovane artista in erba che Laura ha saputo riconoscere e coinvolgere in un progetto che, adesso, è il loro. Leggi tutto

Dunia Algeri e la lana baby alpaca, dal Perù alla lavorazione in Italia

Tra le belle scoperte che ho avuto modi di fare durante queste settimane di presentazione delle collezioni autunno / inverno 2019 – 2020 a stampa e blogger, figura senza alcun dubbio Dunia Algeri.

Dunia… siete incuriositi – come me – da questo nome?

Ebbene, partiamo proprio da questo: viene da Delitto e castigo, il romanzo pubblicato nel 1866 dallo scrittore russo Fëdor Dostoevskij e ambientato a San Pietroburgo.

Protagonista del romanzo è Rodiòn Romànovič Raskòl’nikov il quale ha una sorella di nome Avdot’ja Romànovna Raskol’nikova, chiamata anche Dunja o Dùnečka, personaggio di elevato valore morale e descritta come donna molto bella.

I Romani dicevano Nomen omen, sostenendo che nel nome di una persona sia già indicato il suo destino: devo dire che, anche questa volta, la locuzione si conferma come esatta.

Ma torniamo alla nostra Dunia che (brava e bella) è partita da un’idea precisa e virtuosa: rendere omaggio alla nonna paterna Giulia e alla sua expertise.

A Pedrengo in provincia di Bergamo, negli Anni Sessanta, nonna Giulia (le cui foto si trovano anche nell’atelier che ho avuto il piacere di visitare lo scorso 20 marzo, eccone una qui sotto) realizzava maglioni con il suo telaio manuale (anch’esso presente in atelier): Dunia ha deciso di fare la stessa cosa – ovvero splendidi maglioni – ma con un filato molto particolare che si chiama baby alpaca. Leggi tutto

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