Genius Loci, la mostra dedicata a Franco Moschino è ad Abbiategrasso

È un periodo molto particolare. Un periodo di confusione, lo definirei. In vari ambiti e anche nella moda.

È un periodo in cui nella moda, per esempio, si alternano continui e sempre più frequenti cambi di direttori creativi in seno a tanti brand illustri. Anche dal punto di vista culturale vengono proposti prodotti che, anziché fare chiarezza, offrono visioni pasticciate e pasticcione. Giusto per fare un nome: concordo completamente con l’analisi di Giuliana Matarrese (qui) a proposito di The New Look, il biopic di Apple+ che avrebbe potuto (o dovuto) raccontare la vita di Christian Dior.

Insomma, la moda si trova decisamente in stato confusionale, ahimè, sotto tanti punti di vista, ed è sempre più difficile comprendere in quale direzione vada. Specchio dei tempi, direbbe qualcuno. Non è un pensiero infondato e lo condivido.

Ecco, in mezzo a questa confusione che trovo spesso disturbante, restano ben poche certezze. Una di queste è lo studio della storia della moda. E non solo per conoscere il passato, ma anche per cercare chiavi per interpretare il presente e provare a ipotizzare il futuro.

Certo, le risposte non sono purtroppo da cercare in biopic come quello su Dior (che delusione, lo avevo tanto aspettato…). Le risposte possono invece venire da eventi ben organizzati, come tante belle mostre attualmente in corso. Per esempio, quella su Walter Albini a Prato, della quale mi sono recentemente occupata (qui). Oppure quella su Franco Moschino, ovvero la mostra della quale desidero parlare oggi. Leggi tutto

Ritmi sostenibili, sostenibilità verso innovazione, cultura e intrattenimento

La parola sostenibilità è una delle più utilizzate – e oserei aggiungere abusate – degli ultimi anni.

È però necessario utilizzarla bene, comprendendo fino in fondo quanto sia preziosa: riconduce a temi estremamente importanti e comporta rispetto e consapevolezza.

Come anticipavo nel post precedente e nell’ottica di essere sempre più attiva sul fronte sostenibilità sociale e ambientale, ho accettato molto volentieri l’invito a partecipare a un talk intitolato Ritmi Sostenibili.

Il talk è stato pensato e organizzato da Demood, collettivo che si pone un preciso obiettivo: celebrare creatività e bellezza in ogni forma.

Sempre in evoluzione, Demood ha le sue radici nelle Marche, regione in cui si incontrano natura e genio umano: ogni membro mette a disposizione il proprio talento e le proprie esperienze per realizzare progetti caratterizzati da sperimentazione e dinamismo.

Il loro progetto di punta è il Mood Festival e lo scorso anno ho raccontato (qui) che si tratta di un evento che nasce con l’idea di portare le atmosfere delle grandi rassegne musicali nel cuore delle colline marchigiane.

Mood Festival giunge quest’anno alla sua nona edizione: si terrà il 21 e 22 luglio al Castello della Rancia di Tolentino (qui tutti i dettagli) ed è accompagnato da una serie di novità tra le quali in primis il talk Ritmi Sostenibili che si è tenuto il 10 giugno presso il Campus Simonelli. Leggi tutto

Perché ho partecipato al talk “Ritmi Sostenibili” voluto da Demood

Oggi vorrei condividere alcune riflessioni riguardo moda e abbigliamento con voi, cari amici che mi fate l’onore di leggere questo spazio web, e vi spiegherò poi anche il motivo di questa condivisione.

Parto da un presupposto.

Il rapporto con l’abito accompagna l’uomo (e gli antenati più prossimi) da sempre perché risponde a un’esigenza di tipo primario, ovvero correlata alla nostra sopravvivenza: fin dai tempi delle caverne, abbiamo compreso di aver bisogno di coprirci per proteggerci e difenderci poiché siamo gli unici esseri a non essere dotati di un bagaglio protettivo e difensivo intrinseco che è invece proprio di altri animali.

Non abbiamo pelo o pelliccia, corazza, artigli e la nostra pelle non è da sola sufficiente a difenderci dalle intemperie, dal freddo e dal caldo: l’uomo ha dunque compreso velocemente di avere bisogno di completare ed equipaggiare il proprio corpo con qualcosa di esterno.

Ben presto, però, l’abito ha assunto ulteriori e numerose connotazioni, andando a raccontare la posizione sociale piuttosto che un ruolo professionale, come per esempio avviene nel caso delle divise, da quelle militari fino a quelle del personale medico. Leggi tutto

Una Venere isolata, il romanzo che fa dialogare la moda con il mistico

La moda è una materia superficiale ed è superficiale preoccuparsi troppo di cosa ci si mette addosso.

L’abito non fa il monaco.

Quante volte abbiamo sentito pensieri simili? Spesso.

Da quanto tempo si lotta (e lotto) contro questi pensieri che sono in realtà luoghi comuni? Da parecchio.

Sono luoghi comuni, esatto, perché se è vero che dedicarsi agli abiti non equivale certo a salvare vite umane, per carità, è altrettanto vero che ciò che ci mettiamo addosso non solo riesce a parlare di noi, ma racconta anche la società e il tempo in cui viviamo.

La moda e gli abiti raccontano la storia dell’uomo e l’evoluzione della società intersecandola e attraversandola profondamente: è un linguaggio potente al punto che, anche solo osservando la foggia degli abiti in un quadro o in una foto, possiamo procedere a una sua collocazione temporale certa e precisa se conosciamo la storia del costume.

Pertanto non sempre l’abito fa il monaco (sebbene divise, uniformi e vesti ecclesiastiche siano in realtà strettamente connesse con la persona che le indossa e con il mestiere che fa), certo, ma sicuramente conoscere l’alfabeto attraverso il quale la moda si esprime è importante, senza contare che la moda è un lavoro concreto che dà da mangiare a moltissime persone in tutto il mondo, da chi produce ciò che indossiamo a chi lo vende nei negozi passando per una  lunghissima filiera di mestieri e figure professionali. Leggi tutto

Endelea, bellezza e concretezza di un brand davvero etico e sostenibile

Durante la MFW, ho avuto modo di incontrare Francesca De Gottardo, fondatrice di Endelea:
vi racconto perché questo è un brand davvero etico e sostenibile.

Si è da poco conclusa l’edizione di Milano Moda Donna con cui stilisti e marchi hanno presentato le loro proposte per la prossima primavera / estate 2023.

Devo fare una confessione: a parte i marchi emergenti, non ho visto gran cose che mi abbiano fatto venire voglia di investire tempo per raccontarle oppure cose che mi abbiano fatto nascere il desiderio di possederle.

È vero, sono stata contenta di aver potuto osservare che (finalmente) è tornata l’atmosfera frizzante che caratterizzava la fashion week prima della pandemia (e la mia città ne aveva bisogno), ma sono altrettanto scontenta di dover prendere nota del rovescio della medaglia, ovvero di un’occasione perduta: dopo un intero mese di sfilate (il discorso non vale quindi solo per Milano) si è vista sicuramente tanta ricchezza, a volte al limite dell’ostentazione, ma pochissima creatività intesa come reale innovazione e cambiamento.

Insomma, dopo le sperimentazioni (se vogliamo imperfette e in alcuni casi anche abbastanza azzardate) delle stagioni di pandemia, la moda si sta nuovamente richiudendo in sé stessa, tra clienti super facoltosi e occhio costantemente (se non unicamente) puntato al fatturato. Leggi tutto

WearMe30Times, quando un gioco è molto più di un gioco

L’etichetta del progetto WearMe30Times su una maglia

Da diverso tempo, ormai, mi interesso di moda (mia immensa passione da sempre) non solo dal punto di vista del processo creativo, ma anche e soprattutto per quanto riguarda le sue interazioni con ogni settore della nostra vita – e in particolare dal punto di vista della sostenibilità sociale e ambientale.

Desidero pertanto condividere con voi, cari amici, il racconto di un evento al quale ho partecipato recentemente e che si è tenuto presso il quartier generale di H-Farm qui a Milano per lanciare una innovativa campagna di sensibilizzazione contro gli sprechi nel settore moda: mi riferisco al progetto WearMe30Times.

L’evento – in formato fisico e digitale – ha visto presenti in sala i due partner promotori dell’iniziativa, ovvero Walfredo della Gherardesca, CEO di Genuine Way, e Aurora Chiste, CEO di Maakola; era inoltre presente in collegamento web Holly Syrett di Global Fashion Agenda.

L’evento si è aperto proprio con l’intervento di Holly che ci ha esposto uno studio – realizzato da Global Fashion Agenda insieme a McKinsey – che analizza nel dettaglio l’impatto ecologico globale dell’industria della moda, andando a identificare e dividere le varie voci di tale impatto, dalla produzione al consumo: da questa analisi deriva una riflessione importante, ovvero che una rilevante parte del problema non risiede solo nell’ambito produttivo, ma nelle abitudini di consumo, ovvero negli sprechi legati al poco utilizzo dei capi acquistati e della rapida sostituzione degli stessi. Leggi tutto

Mario Dice e il suo sguardo a Marsha P. Johnson per la SS 2021

Avete mai sentito parlare di Marsha P. Johnson?

Scomparsa nel 1992 in circostanze tuttora non del tutto certe, è stata un’attivista per i diritti LGBTQI+ ed è nota per aver partecipato alle rivolte dello Stonewall Inn del 1969, quelle che hanno poi dato inizio al Pride Month.

Era nata il 24 agosto del 1945 a Elizabeth, nel New Jersey, con il nome di Malcolm Michaels Jr.: dopo aver ottenuto il diploma, si trasferì a New York con pochi dollari in tasca, andando a vivere nel Greenwich Village dove iniziò a lavorare in un locale come performer.
A New York cambiò legalmente il suo nome in Marsha P. Johnson: la lettera P era una risposta, secondo il suo stesso racconto, a coloro che chiedevano quale fosse il suo genere sessuale, ovvero stava per «pay it no mind», «non pensarci».
Da drag queen iniziò ad allestire spettacoli che, date le sue ristrettezze economiche, non erano caratterizzati né da grandi costumi né da trovate scenografiche: molti ricordano però come si adornasse spesso il capo con fiori freschi.

Arrivò il 28 giugno 1969, quando alcuni poliziotti fecero irruzione nello Stonewall Inn, bar del Greenwich Village la cui clientela era composta soprattutto da gay, lesbiche e transgender.
Le irruzioni della polizia nel locale non erano una novità ed erano abbastanza frequenti: era infatti un’epoca in cui l’omosessualità era considerata diffusamente come un comportamento deviato ed era illegale in 49 stati americani.
Quella sera, però, molte persone si opposero all’arresto e, in poco tempo, fuori dal locale si riunì una folla e dalle urla si passò agli scontri fisici.
Sul posto arrivò un gruppo più numeroso di agenti, ma anche la folla aumentò fino a raggiungere migliaia di persone: lo scontro continuò fino alle prime ore del mattino e poi a intermittenza per altre cinque notti. Leggi tutto

Pensieri sul futuro delle sfilate dopo una stagione di fashion week… anomale

MFW & sfilate nella locandina di CNMI (Fonte pagina Facebook)

Agli studenti dei miei corsi racconto come il concetto di sfilata sia cambiato nel tempo, con particolare attenzione a ciò che è successo alle sfilate in Italia.

Il 12 febbraio 1951 fu una sfilata a sancire ufficialmente la nascita della moda italiana, precisamente la sfilata organizzata dall’imprenditore Giovanni Battista Giorgini per i buyer americani a Firenze.
L’intraprendenza di Giorgini, la qualità dei capi presentati, la reputazione dei compratori invitati, l’appoggio di alcuni giornalisti tra i quali la nostra Irene Brin che lavorava in quegli anni per la prestigiosa rivista americana Harper’s Bazaar: furono questi gli elementi che contribuirono a decretare il grande successo dell’evento soprattutto oltreoceano, negli Stati Uniti.
Giorgini intitolò l’evento First Italian High Fashion Show e lo ospitò presso Villa Torrigiani, la sua residenza privata di Firenze: la seconda sfilata si tenne sempre nel 1951 a luglio, stavolta nei saloni del Grand Hotel di Firenze, mentre dal 1952 fu la Sala Bianca di Palazzo Pitti a ospitare due stagioni di sfilate ogni anno, una a gennaio e l’altra a luglio.

Fu necessario aspettare quasi vent’anni perché le sfilate si spostassero definitivamente a Milano e ciò avvenne precisamente nel 1969, quando nacque Milanovendemoda.
La manifestazione venne varata dagli agenti e dai rappresentanti commerciali del settore abbigliamento consociati in Assomoda: il proposito era quello di aprire un dialogo diretto con i buyer a Milano ovvero la città in cui, in quegli anni, cominciavano a moltiplicarsi le sedi degli stilisti e dove di conseguenza si respirava una grande vitalità in ambito moda.

Vi racconto una curiosità.
La prima sede della manifestazione fu quella del circo Medini e dunque i marchi si unirono «ai clown e ai giocolieri» in quella che un documento ufficiale di Assomoda stessa definì «un’allegrissima e ironica festa della moda».
Certo, occorre ammettere che – rispetto alla Sala Bianca di Palazzo Pitti voluta negli Anni Cinquanta da G.B. Giorgini – il contrasto risultava alquanto stridente…

Nel giro di qualche anno, Milanovendemoda trovò la propria sede in un nuovo quartiere della città, precisamente a Milano Due presso il Jolly Hotel, un quartiere realizzato da un imprenditore allora emergente (Silvio Berlusconi…): fra circhi e imprenditori rampanti, emergeva all’orizzonte il profilo di quella che un celebre slogan avrebbe poi definito la «Milano da bere». Leggi tutto

Qualche chiacchiera attorno alle cosiddette mascherine fashion…

Quella che vedete qui sopra NON è una foto attuale.

Risale al 18 settembre 2019 ed erano i giorni dell’edizione di Milano Moda Donna (ovvero la settimana della moda o fashion week) che rivelava le collezioni per la primavera / estate 2020.
Ero alla presentazione di Yosono, marchio di borse al quale sono affezionata e del quale ho parlato più volte, nel 2018 (qui) e poi più recentemente presentando (qui) la speciale iniziativa Fuckovid-19.
Era stato allestito un photocall speciale con dei foulard con i quali io e molti altri (editor, giornalisti, stylist, blogger) eravamo stati invitati a giocare reinterpretandoli, mentre il bravissimo fotografo Federico Patuzzi ci immortalava.

A me venne in mente di usare il mio foulard come una sorta di bavaglio, a mo’ di bandito stile Far West: non so bene perché ebbi questo istinto, credo per nascondere almeno parzialmente la faccia stanca che avevo in quei giorni e per mitigare l’imbarazzo che sempre provo quando mi trovo davanti all’obiettivo e non dietro – come invece preferisco.
E credo di averlo fatto anche perché mi divertiva l’idea di comunicare solo con gli occhi e con lo sguardo

Allora era solo un gioco e non potevo certo immaginare che quel gesto di nascondere bocca e naso sarebbe risultato quasi come una sorta di premonizione: oggi, con il cosiddetto senno di poi, ho deciso di scrivere proprio di mascherine, quelle che temo dovremo abituarci a indossare – ahimè – per molti mesi…
E se lo faccio, se ne parlo, è perché, da più parti, sono stata sollecitata a esprimere il mio parere in merito all’idea di fare diventare le mascherine quasi un trend, un oggetto di e alla moda; insomma, parleremo di mascherine fashion.

Ma per giungere a dirvi cosa penso delle mascherine fashion, permettetemi di fare prima alcune considerazioni perché qui c’è un concetto che diventa centrale, che è il nocciolo della questione: quello di mascherare e celare il nostro volto.

Questo nocciolo può essere affrontato sotto molteplici punti di vista, con considerazioni storiche, psicologiche, culturali, sociali e perfino economiche.

Prima di partire, però, faccio una doverosa precisazione.
È per me fondamentale sgombrare il campo da qualsiasi equivoco poiché fare confusione o cattiva informazione è pericolosissimo e non fa parte del mio modo di agire. Leggi tutto

Stato di salute e futuro della moda in tempi di coronavirus

Da tempo, ormai, si parla di quanto sia necessario rivedere il sistema attraverso il quale la moda viene presentata, prodotta, distribuita.

Per quanto riguarda la presentazione e soprattutto le sfilate, si discute animatamente soprattutto circa tempistiche e modalità.
Continuare a sfilare mesi prima come accade ora oppure adottare la modalità cosiddetta ‘see now, buy now’ con la vendita immediata di ciò che sfila? Far sfilare le collezioni moda e uomo separatamente oppure adottare la modalità co-ed, ovvero congiunta?
E poi… quanto servono le sfilate-spettacolo? Si punta troppo sul clamore a discapito dei capi?
E ancora: chi è seduto in prima fila (e sono sempre più influencer e nuove celebrità) distoglie l’attenzione facendo parlare – anche in questo caso – di chi è ospite più di quanto si parli della collezione?

Per quanto riguarda la produzione, si discute invece di delocalizzazione a discapito di produzioni specializzate, di produzione in Paesi dove non vengono rispettati i diritti umani, di filiere fuori controllo e non più sostenibili per il nostro pianeta.

Per quanto infine riguarda la distribuzione, si discute della crisi profonda dei negozi fisici, della crisi delle grandi catene storiche, dell’esasperazione che vuole che merce nuova sia messa in vendita a ciclo continuo senza durare nemmeno una stagione secondo il modello fast fashion che, ormai, influenza fortemente tutto il sistema e tutte le fasce della moda, indistintamente.
Senza parlare poi del discorso delle rimanenze di stagione, problema oneroso non solo economicamente ma anche dal punto di vista ambientale (leggere stock distrutti o meglio bruciati e anche in questo caso da tutti, brand del lusso inclusi).

Insomma, riassumendo: il sistema moda era in crisi da tempo. Tutto il sistema.
Stilisti costretti a sfornare una nuova collezione dietro l’altra (per soddisfare la smania di soldi delle holding finanziarie dalle quali sempre più spesso vengono inglobati) mentre modelle, giornalisti, compratori, fotografi girano il mondo senza sosta, vanificando gli appelli a una moda ecosostenibile; merce che approda nei negozi a ciclo continuo, tra sovrapproduzione di capi e mancato allineamento tra stagione commerciale e stagione climatica, con il risultato di restare spesso invenduta e generare pericolosi scarti da gestire.

Non è un mistero come molti (Giorgio Armani in testa) condannino da tempo tutto ciò, un sistema che fagocita ogni cosa, con ritmi sempre più serrati e insostenibili e nuova merce da dare in pasto a un mercato sempre più saturo.
Perfino lusso, alto di gamma e alta moda hanno spesso dimenticato i propri valori (qualità, durabilità, esclusività) per avvicinarsi – come ho detto – a un modello fast fashion nella speranza (o meglio nell’illusione) di vendere di più.

Io stessa, naturalmente nel mio piccolo, ho parlato varie volte di dette questioni, dalla delocalizzazione (qui) alla crisi di catene e negozi storici (qui) passando per l’illusione che alto di gamma sia sempre meglio di fast fashion (qui), dalle condizioni socialmente e ambientalmente insostenibili (qui) al gender gap (qui) passando per le sfilate-clamore che vanno oltre ogni limite di decenza (qui), giusto per citare alcuni argomenti dei quali ho provato a parlare negli anni.

Il problema, dunque, esisteva: il coronavirus ha spinto sull’acceleratore, facendo definitivamente esplodere le varie questioni in tutta la loro evidenza e gravità.

Leggi tutto

La moda che NON mi piace: a proposito di Philipp Plein e di limiti (valicati)

La sera di giovedì 20 febbraio, nel pieno della Milano Fashion Week, terminate le lezioni con i miei studenti, mi trovavo a camminare lungo via Palestro per raggiungere la location di una presentazione.
All’altezza della Galleria d’Arte Moderna, ho notato un gruppetto di fuoristrada estremamente vistosi: li ho notati perché il contrasto tra le vetture chiassosamente dorate e la bellissima Villa Reale, capolavoro del Neoclassicismo milanese che ospita la GAM, risultava particolarmente… stridente, diciamo così.
Nella mia testa si è fatto immediatamente strada un nome: «è lo stile Philipp Plein», ho pensato.
Non mi sbagliavo: quando ho superato i fuoristrada, ho visto proprio il nome dello stilista tedesco tratteggiato a lettere cubitali sugli sportelli. Ho scosso la testa, ho sorriso e sono passata oltre, dimenticando ben presto l’episodio.

Mi è tornato in mente solo alla fine di Milano Moda Donna, quando ho letto un articolo di Fashion Network: ‘Philipp Plein suscita indignazione per il raffazzonato omaggio a Kobe Bryant’, titolava la testata online, l’unica (che a me risulti) in ambito moda ad aver fatto un dettagliato reportage critiche incluse dello show svoltosi a Milano il 22 febbraio.
Perché quel titolo?
Perché, per presentare la sua collezione autunno-inverno 2020/21, lo stilista ha organizzato uno show fastosissimo e dorato (ecco spiegati i fuoristrada visti quel giorno), rendendo omaggio (almeno nel suo intento) alla leggenda del basket Kobe Bryant, recentemente scomparso insieme alla figlia primogenita Gianna e ad altre sette persone a causa di un tragico incidente d’elicottero: è stato invece ampiamente criticato attraverso i social media per almeno due motivi.
Il primo: l’accusa di voler sfruttare l’immagine di Bryant a nemmeno un mese dalla scomparsa avvenuta il 26 gennaio.
Il secondo: l’inclusione nel set dello show (nel suo caso il termine è molto più adatto rispetto a sfilata) di elicotteri dorati oltre a varie supercar, motoscafi e aerei altrettanto lucenti.
Elicotteri, sì, avete letto bene, come quelli del mortale incidente.

Classe 1978, re dello stile opulento e volutamente eccessivo, il designer ha spiegato che tale ‘arredo’ era stato ideato e progettato a novembre 2019 (prima, dunque, della tragica morte di Bryant) e che era troppo tardi per sostituire gli elicotteri.
Davvero, Mr. Plein? Leggi tutto

The Fashion Experience Milano, conoscere la verità su ciò che indossiamo

Recentemente, dopo aver visto “Fashion Victims”, il docu-film girato da Chiara K. Cattaneo e Alessandro Brasile e proiettato a Milano grazie all’organizzazione Fashion Revolution, ho deciso di farmi carico di un impegno ben preciso.

Il documentario è ambientato nel Tamil Nadu, ovvero uno dei 29 stati che compongono l’India: questo stato si trova nel sud del Paese e qui milioni di adolescenti e di giovani donne lavorano nell’industria tessile, dalla filatura alla tessitura del cotone fino alla confezione di capi di abbigliamento, per il mercato locale e internazionale.

Mentre guardavo quelle giovanissime donne che vivono in condizioni di quasi schiavitù (in realtà poco più che bambine e alcune della stessa età di mia nipote, 11 anni), ho sentito che il torrente che cercavo da tempo e in qualche modo di arginare si è trasformato in un fiume in piena: purtroppo, nella moda che tanto amo (e nel sistema moda del quale sono membro in qualità di editor e docente di editoria) c’è un evidente problema che fa diventare incubo ciò che dovrebbe essere sogno.
Ed è un incubo per quelle ragazze, certo, ma anche per tutti coloro che – come me – credono nella moda come in qualcosa che va o che dovrebbe andare oltre il profitto e che invece causa sofferenza e, in alcuni casi, addirittura morte.

Dalla dolorosa esperienza della visione di “Fashion Victims” è nato un lungo post pubblicato qui nel blog (non il mio primo su tale argomento ma sicuramente il più deciso finora): visto che è un argomento al quale tengo molto e sul quale non ho alcuna intenzione di arrendermi, ho preso l’impegno con me stessa e con chi mi fa il dono di leggere ciò che scrivo di continuare a parlare di etica e sostenibilità in ambito moda.

Ringrazio pertanto ADL Mag (il magazine della scuola in cui insegno) e soprattutto Barbara Sordi, la nostra direttrice, per avermi dato l’opportunità di parlare nuovamente del documentario e di Fashion Revolution in un secondo articolo, con una sfaccettatura diversa rispetto a quanto avessi appunto già fatto qui nel blog e un taglio meno emozionale ma spero altrettanto deciso e incisivo.

Oggi torno nuovamente a parlare di moda etica e sostenibile grazie a Mani Tese: dal 21 al 30 giugno a Milano, la ONG (organizzazione non governativa) che da oltre 50 anni si batte per la giustizia nel mondo offre a noi tutti l’opportunità di partecipare a THE FASHION EXPERIENCE, un’esperienza interattiva che ci permette di scoprire ciò che si nasconde dietro gli indumenti che indossiamo tutti i giorni.

«L’obiettivo di THE FASHION EXPERIENCE è quello di diffondere la consapevolezza sui rischi sociali e ambientali della cosiddetta Fast Fashion – dichiara Giosuè De Salvo, Responsabile Advocacy, Educazione e Campagne di Mani Tese – promuovendo modelli o processi d’impresa che siano in grado di assicurare, da una parte, il rispetto dei diritti delle persone che lavorano lungo la filiera globale dell’abbigliamento e, dall’altra, di proteggere risorse naturali fondamentali quali fiumi, mari e terre fertili.» Leggi tutto

Fashion Victims, quelle VERE vivono, lavorano (e soffrono) in India

Era il 24 aprile 2013 quando il Rana Plaza, edificio commerciale di otto piani, crollò a Savar, sub-distretto di Dacca, la capitale del Bangladesh.
Le operazioni di soccorso e ricerca si conclusero con un bilancio dolorosissimo: 1.134 vittime e circa 2.515 feriti per quello che è considerato il più grave incidente mortale avvenuto in una fabbrica tessile nonché il più letale cedimento strutturale “accidentale” nella storia umana moderna.
Com’è tragicamente noto, il Rana Plaza ospitava alcune fabbriche di abbigliamento, una banca, appartamenti e numerosi negozi: nel momento in cui furono notate delle crepe, i negozi e la banca furono chiusi, mentre l’avviso di evitare di utilizzare l’edificio fu ignorato dai proprietari delle fabbriche tessili.
Ai lavoratori venne addirittura ordinato di tornare il giorno successivo, quello in cui l’edificio ha ceduto collassando – e per questo ho messo “accidentale” tra virgolette…

Lo voglio ripetere: nel crollo, persero la vita 1.134 persone e ci furono oltre 2.500 feriti.

Molte delle fabbriche di abbigliamento del Rana Plaza lavoravano per i grandi committenti internazionali e questo orribile sacrificio di vite umane ha squarciato il velo di omertà che copriva, a mala pena, pratiche che moltissimi, in realtà, conoscevano da tempo e fingevano di non vedere.

Chi ha buona memoria, ricorderà forse che di tutto ciò ho già scritto lo scorso anno; continuerò a farlo, continuerò a scriverne finché sarà necessario, fino a quando non ci sarà un vero cambiamento, così come continuerò (anche questo come ho già fatto l’anno scorso) a scrivere di Fashion Revolution, il movimento presente in 102 Paesi nel mondo che è stato fondato da Carry Somers (stilista per oltre 20 anni con il brand Pachacuti che ha rivoluzionato il concetto di trasparenza nell’ambito della catena produttiva nella moda) e da Orsola de Castro (voce autorevole della moda sostenibile con il suo marchio From Somewhere fondato sul concetto di upcycling).

Nel 2013, dopo la tragedia del Rana Plaza, Carry e Orsola hanno deciso di fondare Fashion Revolution, organizzazione che conduce una costante campagna di sensibilizzazione rivolta soprattutto al consumatore finale: promossa attraverso stampa e social media, prevede eventi che siano mirati a promuovere il concetto di moda etica e di sostenibilità.

Nell’ottica di tale campagna e insieme a Fashion Film Festival Milano nonché in occasione della Fashion Revolution Week 2019 (22-28 aprile), Fashion Revolution ha promosso martedì 23 aprile la proiezione di “Fashion Victims”, docu-film di Chiara Ka’Hue Cattaneo e Alessandro Brasile.

Il documentario “Fashion Victims” è ambientato nel Tamil Nadu, ovvero uno dei 29 stati che compongono l’India: questo stato si trova nel sud del Paese e qui milioni di adolescenti e di giovani donne lavorano nell’industria tessile, dalla filatura alla tessitura del cotone fino alla confezione di capi di abbigliamento, per il mercato locale e internazionale. Leggi tutto

Gender gap vs women empowerment: la moda non è un lavoro per donne?

È da un bel po’ (precisamente da qualche mese) che medito sul contenuto di un articolo di Pambianco.

Dovete sapere che detta rivista è una delle mie preferite e che non manca mai tra le letture quotidiane: dunque, se intitola un articolo ‘Allarme gender gap, la moda non è un lavoro per donne’, ecco che Pambianco attira immediatamente la mia attenzione anche perché si tratta di un argomento che mi sta particolarmente a cuore.

Cosa sostiene l’autorevole magazine nell’articolo datato 22 maggio?

Viene citato uno studio intitolato ‘The glass runway’, redatto dal Council of Fashion Designers of America (CFDA), Glamour e McKinsey & Company: in questo studio si afferma che, sebbene le donne rappresentino l’85% delle laureate presso i principali istituti di moda americani, i ruoli chiave ricoperti da nomi femminili sono ben pochi.

Il mondo della moda – rincara la dose Pambianco – ha recentemente mostrato interesse per le diversità di orientamento sessuale e di taglia, ma non abbastanza per il gender gap.

Con gender gap si intende l’insieme di tutte quelle differenze che si riscontrano a livello di condizioni economiche e sociali (dall’istruzione fino all’accesso al lavoro) e che influenzano la vita degli esseri umani in base al loro genere di appartenenza: in parole povere, parliamo di disparità di condizione tra uomini e donne.
E generalmente, quando si parla di gender gap, si tende (purtroppo) a osservare l’esistenza di maggiori penalizzazioni a sfavore delle donne rispetto agli uomini.

«Non ne parliamo molto perché c’è la sensazione che tutti ne siano già a conoscenza, ma a volte è necessario dire qualcosa affinché le persone non facciano finta sia un problema inesistente», ha dichiarato Diane von Fürstenberg, presidente dello stesso CFDA.

I dati contenuti nello studio ‘The glass runway’ sono alquanto desolanti. Leggi tutto

Come la sfilata Iulia Barton Inclusive Fashion ha testato la mia coerenza

È proprio vero.
È facile, tutto sommato, fare bei discorsi in linea teorica.
È facile scrivere che si è a favore della moda inclusiva – ovvero di quella moda che sia davvero rappresentativa della società in cui viviamo e di tutte le persone che la compongono.
È facile parlare di uguaglianza, di accettazione, di superamento e abbattimento di qualsiasi barriera, limitazione, ostacolo.
È facile riportare una frase bella come «la diversità è un attributo privo di fondamento».
Ma – come disse saggiamente qualcuno – tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare.
E c’è di mezzo il mare perfino per chi è fondamentalmente una persona coerente. Una persona che davvero crede in ciò che dice e scrive, come la sottoscritta.

Perché esordisco così?

Perché, così come avevo annunciato in un post precedente, martedì 27 febbraio, a chiusura della Milano Fashion Week, sono stata alla sfilata Iulia Barton Inclusive Fashion Industry, il progetto creato da Giulia Bartoccioni.

Alla presenza di Carlo Capasa, presidente della Camera Camera Nazionale della Moda Italiana, sono andati in passerella sei stilisti rappresentativi del Made in Italy: a indossare le loro creazioni sono stati chiamati modelli e modelle, uomini e donne, scelti senza alcuna limitazione o barriera.
E scrivendo senza alcuna limitazione o barriera, mi riferisco alla scelta di far sfilare modelle e modelli con e senza disabilità. Leggi tutto

Con la sfilata Iulia Barton Inclusive Fashion Industry, la moda è inclusiva

Quand’ero una ragazzina, l’aggettivo esclusivo mi affascinava.
Non mi soffermavo sul suo significato profondo, mi sembrava semplicemente che celasse un mondo misterioso al quale anch’io, piena di sogni, desideravo appartenere.
Crescendo, però, ho sviluppato una passione per il significato e l’origine delle parole e così esclusivo mi si è rivelato per ciò che è: quel fascino che avvolgeva e ammantava l’aggettivo si è piano piano dissolto, lasciando d’un tratto nudo il significato più autentico.
E non credo che tale significato risulti ai miei occhi tanto appetibile e desiderabile come allora.

Esclusivo viene spesso usato con un’accezione positiva, per sottolineare e dare enfasi, appunto, a qualcosa che si considera speciale e che si vuole far apparire come un sogno eppure, in realtà, deriva dal latino medievale exclusivus, derivato di excludĕre ovvero escludere.
Dunque esclusivo delinea un piccolo mondo, traccia un recinto ed esclude tutto il resto o tutti gli altri, in modo assoluto: ripeto, non sono più così sicura che oggi questo significato mi rappresenti, che rappresenti la mia visione, la mia voglia di comunicare, di condividere, di includere gli altri in ciò che amo.
A parte il rapporto di coppia che per me deve essere esclusivo (sono irrimediabilmente monogama e concedetemi il piccolo gioco volto a sdrammatizzare e a non rendere assoluta nemmeno me), non mi piace immaginare cose e situazioni che escludano a priori la possibilità di accesso.

Mi tocca ammetterlo: uno degli ambiti che maggiormente amo – la moda – si fonda spesso sul concetto di esclusività intesa come esclusione.
Ma, soprattutto negli ultimi anni, la musica sta cambiando e sempre più spesso si parla del concetto di moda inclusiva, ovvero di moda che non escluda qualcuno a priori.

Da esclusivo (che esclude) a inclusivo (che include) ed è proprio di questo che desidero parlarvi oggi, di un bel progetto di moda inclusiva che si chiama Iulia Barton Inclusive Fashion Industry e che avrà un nuovo capitolo durante l’imminente Milano Fashion Week.

Un’idea di moda inclusiva volta alla raccolta fondi e alla comunicazione no profit: è ciò a cui mirano Fondazione Vertical (organizzazione senza scopo di lucro creata per raccogliere risorse per finanziare la ricerca scientifica sulla lesione spinale e sulla cura della conseguente paralisi) e Iulia Barton Inclusive Fashion Industry (un’agenzia specializzata in un nuovo concetto di moda senza confini), ponendosi lo scopo di portare sulle passerelle internazionali contesti sociali da sempre tenuti fuori dall’industria moda.
Il risultato? Una sfilata che vede coinvolte anche indossatrici in carrozzina e con amputazione per dimostrare che la cosiddetta diversità è un attributo privo di fondamento.
In questa sfilata, protesi e carrozzine diventano estensioni dell’abito, un valore aggiunto grazie alla collaborazione con l’azienda Able to enjoy che è stata incaricata di personalizzare le carrozzine in base ai colori degli outfit.

Dopo il successo degli anni scorsi, i riflettori si accendono nuovamente sulla moda inclusiva martedì 27 febbraio 2018 alle ore 18 presso il Teatro Vetra di Piazza Vetra 7 a Milano.
L’evento prevede la presenza di alcune maison del Made in Italy che si uniranno con il preciso obiettivo di abbattere le barriere sociali e sostenere la ricerca.
Sfileranno in passerella volti conosciuti tra cui Tiphany Adams (atleta, modella e attrice che vive e lavora in carrozzina) e Shaholly Ayers (modella con amputazione al braccio): seguitissime sui social, Tiphany su Instagram e Shaholly su Facebook, sono entrambe impegnate sul fronte del cambiamento del modo in cui noi tutti percepiamo la disabilità.

L’evento è stato insignito della Medaglia al Valore Civile e Sociale dal Presidente Giorgio Napolitano: è stato sostenuto e patrocinato dal Consiglio dei Ministri, Dipartimento delle Pari Opportunità, e dal 2016 ha ottenuto il patrocinio di Camera Nazionale della Moda Italiana (la foto che vedete in apertura è riferita proprio all’evento 2016, con la presenza di wheelchair & standing model, per usare le parole di Giulia Bartoccioni, fondatrice del progetto Iulia Barton).

La sfilata è pubblica e il biglietto di ingresso, acquistabile sul posto oppure online qui, prevede una donazione minima di euro 19.
I proventi della serata verranno devoluti ai laboratori delle strutture Niguarda Ca’ Granda e San Paolo Hospital a sostegno della ricerca nel campo della rigenerazione dei danni al midollo spinale attraverso le nanotecnologie e l’utilizzo di cellule staminali.
I fondi raccolti saranno destinati anche all’acquisto di nuove strumentazioni di laboratorio e verranno impiegati per il sostegno dei giovani ricercatori all’interno dei team di studio.

Martedì 27 febbraio, io sarò lì perché credo fermamente che i grandi sogni non abbiano barriere di alcun tipo.
Perché credo fermamente che la moda debba essere inclusiva, ovvero essere rappresentativa della società in cui viviamo e di tutte le persone che la compongono, così come ho raccontato in varie occasioni, usando anche me stessa e le mie cicatrici.
E perché Inclusive is Exclusive – stavolta nel miglior senso possibile, però.

Vi aspetto?

Manu

error: Sii glittering... non copiare :-)