Perché ho partecipato al talk “Ritmi Sostenibili” voluto da Demood

Oggi vorrei condividere alcune riflessioni riguardo moda e abbigliamento con voi, cari amici che mi fate l’onore di leggere questo spazio web, e vi spiegherò poi anche il motivo di questa condivisione.

Parto da un presupposto.

Il rapporto con l’abito accompagna l’uomo (e gli antenati più prossimi) da sempre perché risponde a un’esigenza di tipo primario, ovvero correlata alla nostra sopravvivenza: fin dai tempi delle caverne, abbiamo compreso di aver bisogno di coprirci per proteggerci e difenderci poiché siamo gli unici esseri a non essere dotati di un bagaglio protettivo e difensivo intrinseco che è invece proprio di altri animali.

Non abbiamo pelo o pelliccia, corazza, artigli e la nostra pelle non è da sola sufficiente a difenderci dalle intemperie, dal freddo e dal caldo: l’uomo ha dunque compreso velocemente di avere bisogno di completare ed equipaggiare il proprio corpo con qualcosa di esterno.

Ben presto, però, l’abito ha assunto ulteriori e numerose connotazioni, andando a raccontare la posizione sociale piuttosto che un ruolo professionale, come per esempio avviene nel caso delle divise, da quelle militari fino a quelle del personale medico.

La connessione con la posizione sociale è stata molto stretta almeno fino al Settecento e cioè fino a quando l’abito ha diviso nettamente regnanti e aristocrazia da una parte e popolo dall’altra: il grande cambiamento è partito con le rivoluzioni sociali, politiche ed economiche della seconda metà del secolo, dalla Rivoluzione Francese fino alla prima rivoluzione industriale.

Tali rivoluzioni hanno avuto conseguenze dirette sull’abbigliamento già nell’Ottocento.

Gli uomini, per esempio, hanno rinunciato alle bizzarrie e alle frivolezze dell’abbigliamento settecentesco per scegliere la strada della sobrietà e del nuovo modello maschile post aristocrazia: questa scelta viene chiamata la Grande Rinuncia Maschile, appellativo creato dallo psicoanalista inglese John Carl Flügel (1884 – 1955).

«Accadde proprio in quell’epoca – scrive Flügel – uno degli eventi più notevoli di tutta la storia dell’abbigliamento, la cui influenza si fa sentire ancora oggi e cui non è stata mai dedicata la dovuta attenzione: gli uomini rinunciarono al loro diritto alle forme di decorazione più brillanti, sfarzose, eccentriche ed elaborate, cedendolo completamente alle donne, e facendo perciò dell’abbigliamento maschile un’arte tra le più sobrie ed austere.»

Per quanto riguarda noi donne, l’abbigliamento (che nel Settecento e nell’Ottocento ci aveva letteralmente ingabbiate in capi costrittivi quali bustini, panier e crinoline) ha invece iniziato nel Novecento ad accompagnare il cammino verso l’emancipazione, basti pensare alle invenzioni – giusto per citarne alcune – del reggiseno, del bikini, del collant, della minigonna nonché all’adozione dei pantaloni.

La seconda metà del Novecento ha portato cambiamenti sempre più sostanziali nel cosiddetto sistema moda.

Dagli Anni Cinquanta si è diffuso il Made in Italy che si è poi affermato definitivamente con gli Anni Settanta e Ottanta; anche grazie alle controculture, l’abbigliamento è diventato sempre più espressione di stile personale e sempre meno indicazione di posizione sociale; il modello produttivo è passato da quello sartoriale a quello industriale dando vita al prêt-à-porter.

Ma il processo non si è fermato: per soddisfare richieste in costante crescita, si è giunti a fast fashion e ultra fast fashion e, tra le conseguenze della globalizzazione, figura il progressivo offshoring, ovvero la delocalizzazione delle produzioni.

E qui è nato il grandissimo problema che – attenzione – è complessivo e non riguarda solo la moda.

Certo, la moda ha responsabilità notevoli e per vari motivi: perché le produzioni tessili richiedono grande dispendio di materie prime preziose tra cui l’acqua, perché tante lavorazioni sono inquinanti, perché esistono problemi di gestione dell’invenduto (surplus di produzione), perché il tutto genera squilibri non solo ambientali ma anche sociali a causa dei modelli produttivi e distributivi.

Sto semplificando, lo preciso, poiché non è facile condensare secoli di storia del costume e della moda.

Ma il rapidissimo riassunto di un sistema moda che non funziona più è quello in cui ho cercato di condurvi oggi: troppi vestiti realizzati da troppi marchi, spesso in maniera non sostenibile né socialmente né ambientalmente, e infine scontati drasticamente o peggio ancora gettati o distrutti per fare spazio alla collezione successiva… già, c’è un grandissimo problema.

Il fatto che i modelli produttivi e distributivi della moda non siano più sostenibili sotto ogni punto di vista è diventato chiaro il 24 aprile 2013, un giorno estremamente doloroso e indimenticabile.

È la data in cui si è verificato il crollo del Rana Plaza, edificio che sorgeva a Dacca, capitale del Bangladesh, e che ospitava fabbriche tessili, una banca, appartamenti e negozi.

Le operazioni di soccorso si sono concluse con un bilancio tragico: 1.134 vittime e circa 2.515 feriti raccontano, ahimè, come il crollo del Rana Plaza sia il più letale cedimento strutturale accidentale nella storia umana moderna nonché il più grave incidente mortale avvenuto in ambito tessile.

Le fabbriche tessili impiegavano circa 5.000 persone e realizzavano capi di abbigliamento per molti marchi internazionali: il crollo ha dunque costretto il mondo a fare i conti con il vero costo della delocalizzazione che grava su sicurezza e benessere dei lavoratori.

Sia ben chiaro, la pratica della produzione dislocata non era certo una novità, come ho raccontato anch’io qui sopra, né era una sorpresa il fatto che la moda fosse – e sia – uno dei settori a farne ampio uso, tuttavia il Rana Plaza è stato per molti un punto di non ritorno: per me, è stato devastante fare i conti con il fatto che la passione che nutro da sempre con sincerità, e che nella mia visione dovrebbe condurre a bellezza e gioia, causi invece così tanta sofferenza.

Da allora, mi sono impegnata a portare avanti dei cambiamenti, come consumatrice e anche come professionista: visto che da anni ho trasformato l’amore per la moda in un lavoro occupandomi in particolare di comunicazione, ho deciso di fare la mia parte affinché si parli di un argomento fondamentale quale la sostenibilità, dal punto di vista sociale e ambientale.

Lo faccio qui, in questo spazio, e lo faccio attraverso le testate che mi danno fiducia, incluso ADL Mag, il magazine di Accademia del Lusso, la scuola in cui insegno.

E così arrivo al motivo per cui ho voluto oggi condividere con voi, cari amici, tutte queste riflessioni.

La cartella stampa del talk <em><strong>“Ritmi Sostenibili”</strong></em> organizzato da <strong>Demood</strong> e io in uno dei miei interventi (photo cred Nicolò Ruggeri x Demood)
La cartella stampa del talk “Ritmi Sostenibili” organizzato da Demood e io in uno dei miei interventi (photo cred Nicolò Ruggeri x Demood)

Proprio alla luce della necessità di essere sempre più attiva sul fronte sostenibilità sociale e ambientale, ho recentemente accettato l’invito a partecipare a un talk intitolato “Ritmi Sostenibili” organizzato dal collettivo Demood.

Ho scritto un articolo proprio per ADL Mag (che è stato appena rilanciato in una nuova veste) e ne scriverò un altro anche qui, perché la giornata è stata molto ricca di spunti e carica di emozioni.

In attesa che escano questi due articoli, ho intanto voluto intanto raccontarvi perché è sempre più forte in me l’esigenza di parlare di questi temi e qual è il ragionamento che mi ha condotta fin qui.

Spero che mi accompagnerete in questo viaggio e ci aggiorniamo presto con la condivisione degli articoli.

(AGGIORNAMENTO: ecco il link del mio secondo articolo qui nel blog ed ecco il link di quello scritto per ADL Mag)

Manu

 

 

 

 

 

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Manu

Mi chiamo Emanuela Pirré, Manu per gli amici di vita quotidiana e di web. Sono nata un tot di anni fa con una malattia: la moda. Amo la moda perché per me è una forma di cultura, una modalità di espressione e di comunicazione, un linguaggio che mi incuriosisce. Scrivo e creo contenuti in ambito editoriale, principalmente proprio per la moda. Insegno (Fashion Web Editing, Storytelling, Content Creation) in due scuole milanesi. Vivo sospesa tra passione per il vintage e amore per il futuro e sono orgogliosa della mia nutrita collezione di bijou iniziata quando avevo 15 anni. Per fortuna Enrico, la mia metà, sopporta (e supporta) entrambe, me e la collezione, con pazienza e amore. Oltre a confessare un'immensa curiosità, dichiaro la mia allergia a pregiudizi, cliché, luoghi comuni, conformismo e omologazione. Detesto i limiti, i confini, i preconcetti – soprattutto i miei – e mi piace fare tutto ciò che posso per superarli. La positività è la mia filosofia di vita: mi piace costruire, non distruggere. Moda a parte, amo i viaggi, i libri e la lettura, l'arte, il cinema, la fotografia, la musica, la buona tavola e la buona compagnia. Se volete provare a diventare miei amici, potete offrirmi un piatto di tortellini in brodo, uno dei miei comfort food. Oppure potete propormi la visione del film “Ghost”: da sognatrice, inguaribile romantica e ottimista quale sono, riesco ancora a sperare che la scena finale triste si trasformi miracolosamente in un lieto fine.

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