La scomparsa del grande Niki Lauda e le mie personali cicatrici…

Photo by Dawid Zawiła on Unsplash

Subire un’ustione grave equivale a vivere un trauma che dura tutta la vita.
Non si guarisce mai del tutto, non passa mai del tutto, non se ne esce mai del tutto.
Si resta, per tutta la vita, dei sopravvissuti, feriti e segnati – irrimediabilmente – nel corpo e nella mente.

Sono stata vittima di un incidente gravissimo e che ha messo a serio rischio la mia vita: ero molto piccola all’epoca, eppure ho precisi ricordi nella mia mente, ricordi che mi piacerebbe non avere perché vedo una me in versione mini in un momento di quasi inenarrabile sofferenza…
Come quando mi tolsero il dolcevita di lana che indossavo: era inverno, purtroppo, e a me sembrò di andarmene via insieme alla lana intrisa di caffè bollente…
Come quando stavo in piedi nella vasca da bagno, impietrita dallo choc, mentre tentavano di darmi sollievo…
Come quando una notte ardevo di sete nella camera asettica dell’ospedale: nonostante l’estrema umanità del personale medico e infermieristico, nonostante l’immenso e disperato amore dei miei genitori, nonostante sforzi e tentativi… la mia gola bruciava, disidratata…
Non vado oltre e perdonatemi se ho condiviso dettagli tanto dolorosi.

Oggi, oltre ai ricordi, porto i segni permanenti, evidenti e indelebili delle ustioni di terzo grado, segni che – da adulta e dopo molte lotte interiori – non ho infine voluto cancellare: ho sempre pensato che, pur avendoli talvolta detestati profondamente, fanno parte di me e hanno contribuito a rendermi chi sono oggi.
Ho già scritto di tutto ciò in un’altra occasione (qui) e credevo di aver così detto quanto avessi da dire: in realtà, la vita ci sorprende sempre e, a volte, ci fa capire che cose che pensavamo di aver superato in realtà non lo sono – e forse non lo saranno mai del tutto.
La vita ci ricorda, insomma, ciò che ho affermato in principio: rimaniamo dei sopravvissuti rispetto ad alcuni eventi traumatici delle nostre vite.

Nel post che ho appena citato, ho scritto una frase che, a rileggerla oggi, mi colpisce profondamente, una frase riferita a mia mamma: «ha curato le cicatrici del mio corpo e ha impedito che si formassero sulla mia anima».
Mi riconosco profondamente in tali parole, le penso davvero ed è proprio così: intendevo dire che – grazie a mia mamma e a mio papà e a come mi hanno educata e cresciuta – non mi sono mai vergognata delle cicatrici, non sono diventate né un complesso né uno scoglio. A volte sono perfino riuscita a dimenticarle.
Ammetto però anche che il trauma, il dolore, la paura… beh, sono un’altra cosa. Sono tutta un’altra partita.

E ammetto che, in varie occasioni, ho appunto capito di avere conti in sospeso con le mie cicatrici esterne e con le paure.
Come quella volta in cui, guardando in tv un programma che ricostruiva un incidente simile al mio, sobbalzai indietreggiando e rannicchiandomi sulla sedia, con le ginocchia al petto, chiudendomi, lo stesso gesto istintivo fatto proprio quel giorno lontanissimo.
Come ogni volta in cui vedere un bambino vicino a un fornello e a una caffettiera (i colpevoli del mio incidente) mi provoca una sofferenza che posso definire fisica, a me che ho una soglia altissima di sopportazione del dolore…
E poi… c’è qualcosa che credo di aver confessato a pochissime persone: quando ero bambina, avevo il terrore di morire in un incendio, di notte. Non un terremoto o un incidente o un altro cataclisma: avevo paura di morire bruciata, il dolore più grande che avessi assaggiato su me stessa…

E ora, negli ultimi giorni, a riaprire le ferite è stata la scomparsa di Niki Lauda.

Com’è noto, Niki Lauda ha incarnato il ruolo di autentica leggenda della Formula 1 ed è stato tre volte campione del mondo.
Il 1° agosto 1976, al Gran Premio di Germania, sul pericoloso circuito del Nürburgring, ebbe il più grave incidente della sua carriera, incidente che gli ha lasciato gravi danni fisici e il volto sfigurato a vita.
Mostrando immenso coraggio, Lauda decise di tornare al volante dopo solo 42 giorni dall’incidente, al Gran Premio d’Italia: le sue condizioni erano ancora precarie e fu necessario modificargli il casco per cercare di limitare lo sfregamento sulle lesioni non ancora cicatrizzate.
Seppur martoriato da tali ferite e nonostante le palpebre danneggiate non gli offrissero una visione totalmente corretta, si classificò quarto dimostrando di che pasta fosse fatto – quella appunto di un immenso campione.

Non oso paragonare nemmeno lontanamente le mie sofferenze a quelle di Niki Lauda, non oso nemmeno immaginare il dolore di bruciare imprigionato in un’auto.
So però che per lui ho sempre provato una stima e un’ammirazione sconfinate e una vicinanza e un’affinità per esperienze non paragonabili, lo ribadisco, ma che in qualche modo purtroppo mi appartengono.
E so che lui era anche le sue cicatrici e le sue sofferenze, come me. Molto più di me.
Si dice che fosse poco emotivo e fortemente determinato: agli occhi di chi lo conosceva appariva quasi come un computer, un nomignolo che si è portato dietro per tutta la vita proprio per la freddezza in pista e per la rara capacità di individuare in pochi istanti e con assoluta precisione i difetti di una macchina.

Sapere che non c’è più, che è scomparso a 70 anni dopo aver tanto lottato e dopo aver subito negli anni due trapianti di rene e uno di polmone, che è scomparso dopo aver continuato a inanellare successi e realizzazioni (ma comunque sempre troppo presto, 70 anni oggi non sono sinonimo di vecchiaia), è un fatto che mi rende molto triste.

Grazie per il tuo coraggio e per la tua tenacia, caro Niki Lauda, grazie per aver vissuto la vita al massimo, senza farti fermare né dai danni fisici né dalla paura.
Grazie per aver però saputo ascoltare la paura quando era sensato e intelligente farlo, come nell’ottobre del 1976 in Giappone, sul circuito del Fuji, quando ti ritirasti sotto un autentico diluvio e perdesti il mondiale. Grazie perché, quella volta, avesti il coraggio di avere paura, tu che eri sopravvissuto all’orribile rogo di pochi mesi prima.
Grazie per essere stato per me un esempio di resistenza, resilienza e coraggio – ripeto questo termine – e per avermi dato l’opportunità, osservandoti e seguendoti negli anni, di fare altri passi, dolorosi quanto necessari, nel superamento del mio incidente.
Perché io, proprio come te, ho sempre voluto vivere e non solo sopravvivere (tra l’altro anch’io, una volta, sono scesa in pista, letteralmente, al fianco di una giovane e valorosa campionessa che si chiama Michela Cerruti); dunque ho sempre preferito affrontare apertamente i miei fantasmi.
E capisco benissimo, sai, perché tu dovessi essere tanto freddo da apparire a qualcuno come un computer.

E ora, riposa in pace, Niki Lauda, mio amato campione: ti auguro davvero con tutta me stessa e con tutto il cuore che la terra ti sia lieve, ti auguro di volare libero e leggero come il soffione che desidero idealmente donarti…

Ho detto in altre occasioni come io creda che la scrittura sia talvolta anche una forma di autoterapia.
In questo post, la scrittura ha due declinazioni: la prima coincide con un atto di stima verso un uomo che è stato un simbolo per me e per moltissime persone; la seconda coincide con una seduta di autoanalisi, ebbene sì.
Torno a chiedere perdono a voi, miei cari lettori, per avervi coinvolti.

Manu

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Manu

Mi chiamo Emanuela Pirré, Manu per gli amici di vita quotidiana e di web. Sono nata un tot di anni fa con una malattia: la moda. Amo la moda perché per me è una forma di cultura, una modalità di espressione e di comunicazione, un linguaggio che mi incuriosisce. Scrivo e creo contenuti in ambito editoriale, principalmente proprio per la moda. Insegno (Fashion Web Editing, Storytelling, Content Creation) in due scuole milanesi. Vivo sospesa tra passione per il vintage e amore per il futuro e sono orgogliosa della mia nutrita collezione di bijou iniziata quando avevo 15 anni. Per fortuna Enrico, la mia metà, sopporta (e supporta) entrambe, me e la collezione, con pazienza e amore. Oltre a confessare un'immensa curiosità, dichiaro la mia allergia a pregiudizi, cliché, luoghi comuni, conformismo e omologazione. Detesto i limiti, i confini, i preconcetti – soprattutto i miei – e mi piace fare tutto ciò che posso per superarli. La positività è la mia filosofia di vita: mi piace costruire, non distruggere. Moda a parte, amo i viaggi, i libri e la lettura, l'arte, il cinema, la fotografia, la musica, la buona tavola e la buona compagnia. Se volete provare a diventare miei amici, potete offrirmi un piatto di tortellini in brodo, uno dei miei comfort food. Oppure potete propormi la visione del film “Ghost”: da sognatrice, inguaribile romantica e ottimista quale sono, riesco ancora a sperare che la scena finale triste si trasformi miracolosamente in un lieto fine.

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