Pensiero sul colore giallo e sul brutto vizio di dire «fa schifo»…

Foto di Gino Crescoli da Pixabay

«Questo giallo che va di moda fa proprio schifo e poi a me delle mode non frega niente.»
Sono le parole che ho sentito pronunciare giorni fa a una persona nello spogliatoio della mia palestra. Quasi con orgoglio, tra l’altro.
Mi hanno fatto sorridere (amaramente), scuotere la testa e mi sono tornate in mente quando qualche mattina fa ho indossato questo maglione.
«Non mi piace», «non lo apprezzo», «non è di mio gradimento», «non incontra il mio gusto», «non mi rappresenta», «non lo indosserei»: sono tutte opinioni e, in quanto tali, sono più che legittime.
«Fa schifo»: è un giudizio e per giunta espresso in maniera brusca e poco rispettosa. Altro che esserne orgogliosi…
Anche perché le opinioni creano confronto, mentre i giudizi bruschi sono invece sterili. E creano distanza.
Le parole hanno un peso o almeno lo hanno per me e ce ne sono alcune che sono solo gratuite, definiamole così, e io non le userei mai per definire qualcuno, i suoi gusti, le sue scelte o il suo lavoro: schifo è una di queste, come avevo già raccontato qui.
E, sempre come ho detto tante altre volte, credo nella comunicazione assertiva e nella capacità di sottolineare la positività, cosa che non vuol affatto dire snaturarsi o mentire.
Pensate che sono perfino d’accordo con la seconda parte del discorso di quella persona: ha perfettamente ragione nel fregarsene di mode e tendenze dando retta solo alla sua testa.
Ciò in cui il suo ragionamento fa acqua, a mio avviso, è il fatto che dicendo «fa schifo» non abbia rispettato sentimenti e opinioni altrui: il giallo non fa schifo, è un colore pieno di energia che può essere o apparire esagerato e che, sicuramente, molti non indosserebbero o non indosseranno; può piacere o non piacere, ma non fa schifo.
Non per nulla è il colore di tante cose belle e buone: del sole, delle margherite, del girasole, di alcune varietà di rose, tulipani e gerbere, delle api, del miele, dei campi di grano maturo e delle foglie in autunno, di tanti frutti, dal limone alla mela passando per la pesca e la banana, di verdure come la zucca e i peperoni, della pasta.
Mi hanno spiegato che il giallo è il simbolo della saggezza nel Buddhismo.
E poi, se vogliamo, è il colore delle emoticon, le faccine che riproducono le principali espressioni facciali umane e che, ormai, fanno parte del nostro modo di esprimerci.
Volete sapere una cosa? Neanche a me importa delle tendenze: pur occupandomi di moda, preferisco che le persone seguano le proprie opinioni, che abbiano il proprio stile.
L’unica cosa che apprezzo delle tendenze è il fatto che, quando vanno di moda colori non facili come il viola o il giallo (e che io amo indipendentemente, che indosso regolarmente e che, guarda caso, sono complementari l’uno dell’altro), quando vanno di moda, dicevo, posso fare incetta di capi in quei colori e che di solito trovo a fatica.
Dunque non ho comprato quel maglione di cui parlavo in principio perché il giallo è di moda; l’ho comprato perché quando ho visto questo capo color del sole e che è caldo e morbido proprio come il sole… me ne sono innamorata all’istante. E quando lo indosso mi sento baciata, coccolata e riscaldata.
Altro che schifo, mia cara signora.

Manu 🙂

La scomparsa del grande Niki Lauda e le mie personali cicatrici…

Photo by Dawid Zawiła on Unsplash

Subire un’ustione grave equivale a vivere un trauma che dura tutta la vita.
Non si guarisce mai del tutto, non passa mai del tutto, non se ne esce mai del tutto.
Si resta, per tutta la vita, dei sopravvissuti, feriti e segnati – irrimediabilmente – nel corpo e nella mente.

Sono stata vittima di un incidente gravissimo e che ha messo a serio rischio la mia vita: ero molto piccola all’epoca, eppure ho precisi ricordi nella mia mente, ricordi che mi piacerebbe non avere perché vedo una me in versione mini in un momento di quasi inenarrabile sofferenza…
Come quando mi tolsero il dolcevita di lana che indossavo: era inverno, purtroppo, e a me sembrò di andarmene via insieme alla lana intrisa di caffè bollente…
Come quando stavo in piedi nella vasca da bagno, impietrita dallo choc, mentre tentavano di darmi sollievo…
Come quando una notte ardevo di sete nella camera asettica dell’ospedale: nonostante l’estrema umanità del personale medico e infermieristico, nonostante l’immenso e disperato amore dei miei genitori, nonostante sforzi e tentativi… la mia gola bruciava, disidratata…
Non vado oltre e perdonatemi se ho condiviso dettagli tanto dolorosi.

Oggi, oltre ai ricordi, porto i segni permanenti, evidenti e indelebili delle ustioni di terzo grado, segni che – da adulta e dopo molte lotte interiori – non ho infine voluto cancellare: ho sempre pensato che, pur avendoli talvolta detestati profondamente, fanno parte di me e hanno contribuito a rendermi chi sono oggi.
Ho già scritto di tutto ciò in un’altra occasione (qui) e credevo di aver così detto quanto avessi da dire: in realtà, la vita ci sorprende sempre e, a volte, ci fa capire che cose che pensavamo di aver superato in realtà non lo sono – e forse non lo saranno mai del tutto.
La vita ci ricorda, insomma, ciò che ho affermato in principio: rimaniamo dei sopravvissuti rispetto ad alcuni eventi traumatici delle nostre vite.

Nel post che ho appena citato, ho scritto una frase che, a rileggerla oggi, mi colpisce profondamente, una frase riferita a mia mamma: «ha curato le cicatrici del mio corpo e ha impedito che si formassero sulla mia anima».
Mi riconosco profondamente in tali parole, le penso davvero ed è proprio così: intendevo dire che – grazie a mia mamma e a mio papà e a come mi hanno educata e cresciuta – non mi sono mai vergognata delle cicatrici, non sono diventate né un complesso né uno scoglio. A volte sono perfino riuscita a dimenticarle.
Ammetto però anche che il trauma, il dolore, la paura… beh, sono un’altra cosa. Sono tutta un’altra partita.

E ammetto che, in varie occasioni, ho appunto capito di avere conti in sospeso con le mie cicatrici esterne e con le paure.
Come quella volta in cui, guardando in tv un programma che ricostruiva un incidente simile al mio, sobbalzai indietreggiando e rannicchiandomi sulla sedia, con le ginocchia al petto, chiudendomi, lo stesso gesto istintivo fatto proprio quel giorno lontanissimo.
Come ogni volta in cui vedere un bambino vicino a un fornello e a una caffettiera (i colpevoli del mio incidente) mi provoca una sofferenza che posso definire fisica, a me che ho una soglia altissima di sopportazione del dolore…
E poi… c’è qualcosa che credo di aver confessato a pochissime persone: quando ero bambina, avevo il terrore di morire in un incendio, di notte. Non un terremoto o un incidente o un altro cataclisma: avevo paura di morire bruciata, il dolore più grande che avessi assaggiato su me stessa…

E ora, negli ultimi giorni, a riaprire le ferite è stata la scomparsa di Niki Lauda.

Com’è noto, Niki Lauda ha incarnato il ruolo di autentica leggenda della Formula 1 ed è stato tre volte campione del mondo.
Il 1° agosto 1976, al Gran Premio di Germania, sul pericoloso circuito del Nürburgring, ebbe il più grave incidente della sua carriera, incidente che gli ha lasciato gravi danni fisici e il volto sfigurato a vita.
Mostrando immenso coraggio, Lauda decise di tornare al volante dopo solo 42 giorni dall’incidente, al Gran Premio d’Italia: le sue condizioni erano ancora precarie e fu necessario modificargli il casco per cercare di limitare lo sfregamento sulle lesioni non ancora cicatrizzate.
Seppur martoriato da tali ferite e nonostante le palpebre danneggiate non gli offrissero una visione totalmente corretta, si classificò quarto dimostrando di che pasta fosse fatto – quella appunto di un immenso campione.

Non oso paragonare nemmeno lontanamente le mie sofferenze a quelle di Niki Lauda, non oso nemmeno immaginare il dolore di bruciare imprigionato in un’auto.
So però che per lui ho sempre provato una stima e un’ammirazione sconfinate e una vicinanza e un’affinità per esperienze non paragonabili, lo ribadisco, ma che in qualche modo purtroppo mi appartengono.
E so che lui era anche le sue cicatrici e le sue sofferenze, come me. Molto più di me.
Si dice che fosse poco emotivo e fortemente determinato: agli occhi di chi lo conosceva appariva quasi come un computer, un nomignolo che si è portato dietro per tutta la vita proprio per la freddezza in pista e per la rara capacità di individuare in pochi istanti e con assoluta precisione i difetti di una macchina.

Sapere che non c’è più, che è scomparso a 70 anni dopo aver tanto lottato e dopo aver subito negli anni due trapianti di rene e uno di polmone, che è scomparso dopo aver continuato a inanellare successi e realizzazioni (ma comunque sempre troppo presto, 70 anni oggi non sono sinonimo di vecchiaia), è un fatto che mi rende molto triste.

Grazie per il tuo coraggio e per la tua tenacia, caro Niki Lauda, grazie per aver vissuto la vita al massimo, senza farti fermare né dai danni fisici né dalla paura.
Grazie per aver però saputo ascoltare la paura quando era sensato e intelligente farlo, come nell’ottobre del 1976 in Giappone, sul circuito del Fuji, quando ti ritirasti sotto un autentico diluvio e perdesti il mondiale. Grazie perché, quella volta, avesti il coraggio di avere paura, tu che eri sopravvissuto all’orribile rogo di pochi mesi prima.
Grazie per essere stato per me un esempio di resistenza, resilienza e coraggio – ripeto questo termine – e per avermi dato l’opportunità, osservandoti e seguendoti negli anni, di fare altri passi, dolorosi quanto necessari, nel superamento del mio incidente.
Perché io, proprio come te, ho sempre voluto vivere e non solo sopravvivere (tra l’altro anch’io, una volta, sono scesa in pista, letteralmente, al fianco di una giovane e valorosa campionessa che si chiama Michela Cerruti); dunque ho sempre preferito affrontare apertamente i miei fantasmi.
E capisco benissimo, sai, perché tu dovessi essere tanto freddo da apparire a qualcuno come un computer.

E ora, riposa in pace, Niki Lauda, mio amato campione: ti auguro davvero con tutta me stessa e con tutto il cuore che la terra ti sia lieve, ti auguro di volare libero e leggero come il soffione che desidero idealmente donarti…

Ho detto in altre occasioni come io creda che la scrittura sia talvolta anche una forma di autoterapia.
In questo post, la scrittura ha due declinazioni: la prima coincide con un atto di stima verso un uomo che è stato un simbolo per me e per moltissime persone; la seconda coincide con una seduta di autoanalisi, ebbene sì.
Torno a chiedere perdono a voi, miei cari lettori, per avervi coinvolti.

Manu

Huawei Fashion Flair with Annakiki, intelligenza artificiale e moda

Anna Yang (fondatrice di Annakiki) e Isabella Lazzini (Retail Director di Huawei Italia) insieme per Fashion Flair

Tra i diversi profili che sono stati elaborati allo scopo di fotografare le generazioni che abitano attualmente il nostro pianeta (Maturists, Baby Boomers, Generation X, Generation Y oppure Millennials, Generation Z), io mi colloco esattamente a metà, ovvero nella cosiddetta Generazione X, quella di coloro che sono nati tra il 1965 e il 1980.

Influenzati da fenomeni sociali, culturali, politici ed economici che vanno dal crollo del Muro di Berlino (1989) passando per Andy Warhol e la Pop Art fino ad arrivare al consumismo, è (siamo…) la generazione dei cartoni animati, delle sale giochi e delle televisioni commerciali, dei primi videogame, dei primi computer, dei primi oggetti tecnologici portatili come il walkman.

Tra gli appartenenti alla Generazione X ci sono coloro che hanno creato Google nel 1998 (Sergej Brin e Larry Page, entrambi classe 1973) e che hanno spianato la strada ai loro successori, i Nativi Digitali, ovvero i Millennials e la Generazione Z.

Varie analisi dicono che noi della Generazione X siamo fruitori abbastanza consapevoli: andiamo alla ricerca di informazioni un po’ su tutto e scegliamo quali prodotti acquistare dopo aver consultato recensioni e opinioni di chi ne è già un consumatore.

Devo dire che mi riconosco abbastanza in questo ritratto con qualche eccezione: per esempio, contrariamente a tante persone della mia stessa generazione che continuano a prediligere Facebook, io preferisco invece Instagram come i Nativi Digitali e nonostante il mio lavoro sia fondato fortemente sulla comunicazione verbale.

Il punto fondamentale è che sono istintivamente curiosa e dunque sono affascinata da tutto ciò che profuma di futuro e progresso: sebbene io sia una immigrata digitale e non una nativa (secondo la definizione coniata nel 2001 da Mark Prensky, scrittore e consulente statunitense), sebbene io sia cresciuta prima delle tecnologie digitali e le abbia adottate solo in un secondo tempo, ho una visione e un approccio che sono più vicini a quelli delle generazioni successive.

Oltre alla curiosità da sempre insita in me, credo che il mio atteggiamento dipenda anche dal fatto che tra le attività lavorative di cui mi occupo figura anche l’insegnamento: confrontarmi con gli studenti, ragazzi che appartengono alle ultime generazioni, mi mantiene mentalmente elastica e perennemente al passo dei tempi. Spero di dar loro qualcosa e allo stesso tempo mi piace ricevere da loro, in modo diverso ma complementare.

Qui nel blog esistono tante tracce del mio amore per il futuro e per le tecnologie anche applicate a moda e costume: ho parlato per esempio in un post di Bradley Quinn, grande visionario della moda che ho avuto il piacere di incontrare nel 2013, oppure ho parlato in un altro post di wearable technology, la tecnologia indossabile, attraverso l’abito creato nel 2016 da Zac Posen per Claire Danes al Met Gala.

Oggi mi spingo oltre parlandovi di Fashion Flair, la prima collezione di moda co-creata dalla artificial intelligence (intelligenza artificiale) di Huawei P30 e Huawei P30 Pro e dall’estro di Anna Yang, Creative Director del brand Annakiki.

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Deesup, quando il design più iconico è di seconda mano

Due dei miei post più recenti qui in A glittering woman parlano di sostegno a talento e cultura (a 360°) e di come anche la second hand economy possa contribuire a un sistema di consumi più equilibrato soprattutto in ambito moda.

Visto che si tratta di argomenti che mi stanno particolarmente a cuore, oggi vorrei aggiungere un nuovo capitolo condividendo il racconto di un incontro interessante: durante la recente Milano Design Week, ho avuto l’opportunità di ammirare alcuni bei pezzi di design senza tempo e ciò è avvenuto grazie al primo marketplace online italiano dell’arredo firmato di seconda mano.

Il marketplace si chiama Deesup ed è stato ideato e realizzato da Valentina Cerolini e Daniele Ena: chiacchierando con Valentina mi sono innamorata del progetto perché è completamente in linea con la mia fiducia nella second hand ecomony come risposta a molte questioni e problematiche. Inoltre, dimostra ancora una volta come talento e capacità possano essere declinati in soluzioni originali e coraggiose.

Parto raccontando cos’è Deesup in poche parole: nato nel 2017, è un marketplace – online e italiano, mi piace ribadire entrambe le caratteristiche – per vendere e acquistare arredi usati di design firmato; seleziona solo pezzi iconici e autentici proposti da venditori privati e professionisti, li promuove presso il pubblico, incassa e coordina la logistica post vendita.

Come funziona? Leggi tutto

Sei anni di Agw cercando la strada della comunicazione di cultura e talento

Il primo maggio del 2013, esattamente sei anni fa, pubblicavo il mio primissimo post lanciando questo blog al quale ho dato il nome A glittering woman, per festeggiare il mio amore verso tutto ciò che di bello, luminoso e scintillante esiste nella vita, in senso ampio, a 360°.
Quel primo post raccontava qualcosa a proposito di una delle mie grandi passioni, il vintage, e in particolare si concentrava su Next Vintage Belgioioso, una manifestazione di settore che amo particolarmente.
Allora, quando pubblicai il primo post, avevo naturalmente un progetto in testa ma – se devo essere sincera – non avevo idea di ciò che il blog sarebbe diventato nel tempo, ovvero la mia creatura, come chiamo a volte scherzosamente questo spazio web.
Certo, speravo che il progetto avesse una continuità e che potesse davvero riuscire a essere rappresentativo, pian piano, del mio pensiero, trasformando il blog in una sorta di manifesto: posso dire che, da questo punto di vista, oggi, sono molto soddisfatta.
Sebbene io non mi fermi mai sugli allori, nonostante io pensi costantemente che ogni cosa che faccio possa essere migliorata, vi posso confessare che sono felice sia della longevità di A glittering woman sia di come esso sia diventato rappresentativo di tutto ciò in cui credo, con onestà, coerenza, sincerità, trasparenza. Esattamente quel manifesto che speravo, insomma.
E ora, con il senno di poi, mi fa tenerezza notare come io sia partita (più o meno consciamente) proprio da un argomento che negli anni è diventato sempre più importante per me, una sorta di cavallo di battaglia, ovvero la second hand economy.

Sei anni…
Riflettevo che a sei anni un bambino termina la scuola materna e si accinge a una delle esperienze più importanti e significative di tutta la nostra vita, ovvero la scuola elementare.
Credo di aver dimenticato tanti episodi dei successivi anni di studio, ma ricordo nitidamente, con chiarezza e precisione, decine e decine di episodi collegati ai miei cinque anni di elementari.
La scuola elementare ha lasciato segni indelebili in me e ricordo perfettamente gli insegnamenti della mia maestra (e non solo quelli collegati a grammatica e matematica…), così come ne ricordo il nome – Gabriella Consolandi.
Se parlo di tutto ciò è perché – come dicevo in principio – a volte chiamo il blog la mia creatura, proprio come se fosse un bambino (il mio bambino); ora questo figlio si appresta a una fase molto delicata del suo percorso, come un bambino pronto a iniziare le scuole elementari.
Vediamo cosa accadrà…

L’anno scorso, festeggiando i cinque anni, avevo sottolineato come comunicare (ovvero il desiderio che mi ha spinto ad aprire il blog) sia un’esigenza che accomuna la maggior parte degli esseri umani.
Se andiamo all’origine della parola, scopriamo qualcosa che in fondo è facile intuire anche solo ripetendola: comunicare dal latino communicare, derivato di communis ovvero «comune».
Comun-icare: «rendere comune, far conoscere, far sapere, per lo più di cose non materiali», dice il vocabolario Treccani.
E aggiunge «divulgare, rendere noto ai più, fare partecipi altri di qualcosa», sottolineando la caratteristica più bella, profonda e positiva della comunicazione, ovvero il «valore reciproco».
Ecco, per me comunicare e fare comunicazione è proprio questo: mettere in comune. Ciò che amo oppure ciò che so, tanto o poco che sia.
Mettere al servizio di tutti informazioni e conoscenza, far circolare buona informazione costruita partendo da una sana curiosità e fortificata poi attraverso ricerca, studio, analisi.

Per me, dunque, la buona comunicazione avviene quando c’è collaborazione.
E credo che la comunicazione debba vere un valore sociale.
E credo anche che la comunicazione sia uno strumento fondamentale per generare crescita, personale e sociale, per ottenere credibilità, per costruire comunità solidali e consapevoli.
C’è poi chi comunica per provocare: scelte personali, io trovo che sia un trucchetto un po’ infantile per attirare l’attenzione e mi limito a passare oltre. Leggi tutto

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