Non si dice né “sei cessa” né “fai schifo”

Sottotitolo: Siamo tutti cyberbulli (?)

Lo so, titolo e sottotitolo di questo post sembrano bell’e pronti per una trasmissione televisiva o un libro, ma non è così.

Vi avviso, sto per dire la mia opinione sull’ultima polemica fashion, quella sorta attorno all’outfit indossato da Daniela Santanchè in occasione della prima alla Scala dello scorso 7 dicembre: finora me ne sono stata buona e in silenzio a leggere e ad ascoltare tantissimi commenti e ho avuto solo una piccola défaillance in un forum del quale faccio parte, non ho resistito e sono intervenuta.

Ora, però, ho voglia di dire anch’io alcune cose e lo faccio per un semplice motivo: ho capito ciò che mi infastidiva in tutta la querelle e l’ho capito facendo il collegamento a un altro episodio, anche perché è qualcosa su cui, in realtà, riflettevo da molto tempo.

Cosa sia successo a Milano lo sanno anche i bambini delle elementari: la Santanchè si è presentata all’inaugurazione della stagione dell’opera in gonna verde smeraldo firmata Ultràchic, camicia bianca, papillon in tinta con la gonna e gilet in pelliccia (vera o ecologica non lo so).
Apriti cielo: la cosa più divertente che le hanno detto è stata “sembri un Arbre Magique”, la più inquietante “fai schifo”.
Qualcuno ha affermato con gran convinzione che “far parlare di sé era quello che voleva”.

Secondo episodio: sulla pagina Facebook di Sodini, azienda con la quale collaboro (scrivo per il loro SoMagazine), ho trovato una foto della cantante Laura Pausini con un paio di orecchini del marchio e una gonna di un brand che si chiama Maison About (nome che avete già trovato qui sul blog).
Sotto un commento: “gioielli stupendi, lei cessa”.

Ora, prima di arrivare al punto che mi preme sottolineare, tengo a precisare alcune cose.

L’outfit della Santanché non è piaciuto nemmeno a me, o meglio non sono stata conquistata dall’interpretazione da lei data ai capi.
Non mi è piaciuto che la camicetta apparisse di una taglia in meno tirando sul seno, non mi è piaciuto che la gonna e il gilet di pelliccia fossero di due tonalità differenti di verde – o così sembra dalle foto – e , soprattutto, ammetto che tutto l’insieme non era a mio avviso adatto all’occasione, ovvero alla prima della Scala.
Sono la prima ad andare contro omologazione, convenzioni e rigidità delle regole prestabilite se e quando risultano obsolete, tuttavia trovo che alcune norme siano ancora valide e che sarebbe bene osservarle: sebbene non sempre io concordi sulle cosiddette “occasioni d’uso”, questo, invece, era uno di quei casi in cui sarebbe stato giusto e sensato attenersi.

Daniela Santanché in Ultràchic alla Scala
Daniela Santanché in Ultràchic alla Scala

Tutto questo, però, non mi porta a dire “fa schifo” della Santanchè.
E non mi porta a condannare Ultràchic: tra l’altro, adoro il contrasto tra la gonna lunga e ampia con la vita stretta e il papillon maschile.
Nelle intenzioni di Ultràchic, l’outfit doveva essere un’ironica reinterpretazione dello smoking e ci sta, sì. Camicia bianca inclusa. Solo – ripeto – non avrei indossato il tutto alla Scala: c’è un momento adatto per ironia e originalità e non credo che sia quello offerto da un’occasione invece decisamente formale, soprattutto se non si è più 20enni – e questa cosa mi secca molto doverla ammettere, ve l’assicuro, perché va anche a mio sfavore, visto che nemmeno io sono più una ragazzina.

A ogni modo: stimavo il lavoro di Diego Dossola e Viola Baragiola – i due volti dietro il nome Ultràchic – prima di questo episodio e continuo a stimarlo ora.
Nulla è cambiato per me, perché credo che non sia giusto valutare un brand e il suo lavoro da un singolo outfit (anche perché così credo che non si salverebbe nessuno o quasi): si dovrebbe valutare un percorso. Esattamente come ha dichiarato Diego in un’intervista post polemica: “Sta alla volontà soggettiva scoprire se facciamo solo outfit che qualcuno definisce orrendi o se facciamo anche altro”.
Dunque continuo a sostenere a spada tratta Ultràchic: evviva i brand giovani, evviva il made in Italy. Ed evviva la loro gonna abbinata all’ironico papillon, il tutto indossato al momento giusto.
E faccio un applauso anche alla Santanchè, comunque, per un semplice motivo: per aver avuto la voglia di rivolgersi a uno di questi nuovi marchi.

Veniamo ora alla Pausini.
Oltre a trovare deliziosi sia i gioielli sia la gonna che indossa (e nel suo caso anche adatti all’occasione d’uso, ovvero a uno show televisivo), trovo assai deliziosa lei: complimenti vivissimi, è perfino più carina oggi di quando aveva 20 anni.
Chapeau e dunque non trovo alcun fondamento né appiglio, neppure remoti, per quell’orrendo aggettivo “cessa”.

Laura Pausini e il commento della lettrice. Per un mio scrupolo, ho tolto dati sensibili e nomi, nonostante il tutto sia visibile su una pagina pubblica.
Laura Pausini e il commento della lettrice. Per un mio scrupolo, ho tolto dati sensibili e nomi, nonostante il tutto sia visibile su una pagina pubblica.

E ora arrivo al dunque.

Ho sentito dire spesso che, quando gioca la nazionale di calcio, in Italia ci sono milioni di commissari tecnici; in molti affermano che ora pare accadere la stessa cosa nella moda. Da quando c’è il web, insomma, tutti sono stilisti, stylist o giornalisti di settore.

Vi dirò, secondo me il punto non è questo: così come non occorre essere un grande chef per dire se un piatto ci piace o non ci piace, allo stesso modo non occorre essere un grande stilista né un giornalista specializzato per dire se un abito ci piace o non ci piace e se è di nostro gusto o meno.
Credo che tutti abbiano il diritto di esprimere la propria opinione, prescindendo dalla loro specializzazione o mestiere.

Questa considerazione, però, ci porta al cuore della questione, al punto che desidero raggiungere: la parola magica è opinione.
Il concetto centrale è esprimere un’opinione ed esprimerla con garbo, educazione, rispetto. Non essere distruttivi bensì essere costruttivi.
Ho usato appositamente le espressioni piacere o non piacere, essere di nostro gusto o meno.

E invece no. Pare che a moltissime persone piaccia dire “fai schifo” oppure “è una cessa”.

Dire “mi piace” o “non mi piace” significa esprimere una posizione e/o interpretazione soggettiva, così come dovrebbe essere e così come sarebbe nel diritto di ognuno, possibilmente seguito da una motivazione sensata.
Dire “fai schifo” significa invece avere la pretesa di possedere un punto di vista oggettivo, è emettere un giudizio, lapidario e pesante come un macigno. Sicuramente non è esprimere un parere costruttivo né rispettoso.

Insomma, c’è una pesante differenza fra “non mi piace” e “fai schifo”.
“Non mi piace” prevede che ciò che non apprezzo io potrebbe piacere ad altri, lascia una porta aperta, non distrugge e non annienta; “fai schifo” è finale, è una condanna senza scampo, distrugge e annienta.

Un esempio di <em>satira</em> che non distrugge, senza insulti.
Un esempio di satira che non distrugge, senza insulti.

Mi rivolgo quindi a chi usa questi termini abitualmente: siete così certi che il vostro punto di vista possa considerarsi tanto oggettivo – ovvero non soggetto a vostra interpretazione individuale né a pregiudizio – da meritarsi un assolutismo (orrendo) come “fai schifo”?
Siete certi che il vostro punto di vista possa essere universale, non condizionato da particolarità o variabilità?
Perdonatemi, mi rendo conto di assomigliare pericolosamente a un vocabolario in questo frangente, eppure tengo molto a questa cosa.

Vorrei dire una cosa anche a coloro che, con aria sicura, hanno affermato che “far parlare di sé era quello che voleva”, frase riferita alla signora Santanché nonché al brand Ultràchic.

Lo ammetto, la Santanché non è simpatica nemmeno a me, per niente.
Ma, detto ciò, sarei in grado di affermare con certezza cosa passa per la sua testa? Qualcuno pensa davvero che, pur di far parlare di sé, una persona abbia talmente tanto pelo sullo stomaco e sangue freddo da progettare freddamente e a tavolino il proprio massacro?
Io non lo credo e se alcune persone sanno invece con esattezza cosa passa nella testa degli altri e credono di conoscere tanto bene il proprio prossimo allora dico beate queste persone, perché a volte io non so nemmeno cosa frulla nella mia di testa né mi conosco mai a sufficienza.

Per quanto riguarda la stessa affermazione traslata sul brand, allora qui vi dico una cosa.
Ho conosciuto Diego e Viola di persona e Diego ha risposto alle domande di una mia intervista realizzata – tra l’altro – proprio per SoMagazine: so bene cosa mi ha raccontato circa la crisi e la fatica quotidiana e dunque penso di poter affermare con ragionevole certezza – e con un minimo di cognizione di causa – che no, non avrebbe messo tutto in gioco, anni di lavoro e di sacrificio, solo per 15 minuti di popolarità.
Ultràchic non ha bisogno di questi mezzi e lo sottolineo con forza e convinzione: gode già di una certa visibilità fondata non sugli scandali, ma sul proprio lavoro.
Nel 2015, per esempio, Viola e Diego hanno fatto incetta di premi prestigiosi: in giugno, si sono aggiudicati il Time Contemporary Fashion Award, premio attribuito dal White, famoso salone meneghino, dalla Camera Italiana Buyer Moda e dalla Russian Buyers Union; in luglio hanno vinto uno dei premi speciali Tao Awards patrocinati dalla Camera Nazionale della Moda Italiana.
Settembre è stato poi il mese della sfilata Milano Unica On Stage e Ultràchic è stato uno dei 10 selezionatissimi brand che hanno potuto presentare le proprie creazioni nel corso di una sfilata aperta alla città lungo via Monte Napoleone.

Sopra: Viola Baragiola e la sottoscritta in occasione dell’intervista dello scorso 5 novembre per <em>SoMagazine</em> – foto ThinkVisual. Sotto: l’outfit <em>incriminato</em> nella vetrina della boutique Ultràchic in via Meravigli 18 a Milano.
Sopra: Viola Baragiola e la sottoscritta in occasione dell’intervista dello scorso 5 novembre per SoMagazine – foto ThinkVisual. Sotto: l’outfit incriminato nella vetrina della boutique Ultràchic in via Meravigli 18 a Milano.

Tornando a noi.

Che non si dica “fai schifo” o “sei un cesso” – mai, di nessuno e a nessuno e in nessun caso – a me è stato insegnato quand’ero piccolissima e non è stato merito degli insegnanti all’asilo o a scuola: sono stati i miei genitori molto prima, appena ho iniziato ad aprire la boccuccia non solo per mangiare ma anche per parlare.
Erano i tempi in cui ai bambini si insegnava l’educazione anche attraverso frasi divertenti come “l’erba voglio non cresce neanche nel giardino del re”, piccole perle di saggezza molto elementari che però si imprimevano nella testa tanto da restarci in maniera duratura, anche parecchi anni dopo.
Non mi sembra sia una cosa così straordinaria ma, forse, mi sono sbagliata. Forse, non si insegnano più queste cose. Forse, certi valori non vanno più di moda.

Più che restare basita dal fatto che chiunque esprima un’opinione di moda – cosa assolutamente sacrosanta, lo ripeto ancora una volta – io resto invece basita sempre di più dalla violenza, dall’acrimonia e dalla totale mancanza di empatia che oggi, spesso, dimostriamo nel nostro quotidiano e non importa che si parli di un abito, di un piatto, di un film, di una partita di calcio o di qualunque altra cosa.
Non perdiamo occasione di dimostrare che distruggere e annientare non ci spaventa: sì, distruggere e annientare, perché le parole, a volte, possono farlo perfino più dei gesti.

E mi sembra – purtroppo – che tale atteggiamento venga aggravato e agevolato dal web, strumento che dà la possibilità di esprimere opinioni (?) dal rifugio comodo e sicuro (nonché un po’ vigliacco) offerto da una tastiera e da un video.
Ecco il perché del mio sottotitolo, ecco perché mi domando se non siamo diventati un po’ tutti cyberbulli.
Peccato che poi facciamo crociate contro il bullismo e il cyberbullismo, senza renderci conto quanto il confine sia sottile.

Per chi fosse tentato di dire “colpa della tecnologia”, torno a esporre l’opinione che ho già esternato in un precedente post: la tecnologia è solo un mezzo, possiamo usarla bene o male, tutto qui.
Gli strumenti sono solo strumenti e non sono cattivi di per sé stessi: un sasso può starsene innocuo in un prato, può servire a costruire qualcosa oppure può essere lanciato per colpire e far del male. Ma il male sta nella volontà di utilizzarlo come arma contundente e offensiva, non nel sasso stesso.

E dunque: vogliamo provare ad avere un po’ più di comprensione, di tolleranza e una maggiore empatia? A metterci nei panni degli altri non per giudicarli bensì per comprenderli?
Forse, servirebbero meno giudizi e più umana simpatia verso debolezza e (presunti) errori.

E poi perdonatemi se lo scrivo, ma questo bisogno (un po’ morboso) di giudicare le vite delle celebrità io proprio non lo capisco (forse dipenderà dal fatto che ho già parecchi problemi a tenere al guinzaglio la mia di vita): posso capire un po’ di curiosità, ma non capisco l’esigenza di sparare sentenze a tutti i costi.
E – vi prego! – non ditemi che i personaggi pubblici tali sono e quindi devono accettare di essere sotto i riflettori nonché sulla bocca di tutti: non sono d’accordo (a me interessa solo ciò che riguarda l’attività per la quale sono celebri, siano essi politici o personaggi dello spettacolo) e, se proprio la si vuole vedere così, allora un po’ di rispetto sarebbe comunque e sempre una gran cosa.

Anche perché, nel momento in cui esprimiamo un’opinione su un social network, assumiamo a nostra volta un ruolo pubblico – non dimentichiamolo.

Alcune immagini tratte da un progetto fotografico che ha catturato la mia attenzione e che propone i sentimenti umani come se fossero farmaci da somministrare. Immaginato e ideato da <strong>Valerio Loi</strong>, fotografo italiano che vive e lavora tra Londra e Cagliari, il progetto si chiama <em>Human Feelings as drugs.</em>
Alcune immagini tratte da un progetto fotografico che ha catturato la mia attenzione e che propone i sentimenti umani come se fossero farmaci da somministrare. Immaginato e ideato da Valerio Loi, fotografo italiano che vive e lavora tra Londra e Cagliari, il progetto si chiama Human Feelings as drugs.

Riflettiamo su un’ultima cosa: avremmo cuore di dire a una persona “fai schifo” o “sei una cessa” guardandola bene in faccia e negli occhi?
E ci piacerebbe fosse detto a una persona a noi cara?
Parlo di cose dette da adulti, non da bambini o da adolescenti: non dovrebbero dirlo nemmeno loro, ma comprendo possa capitare quando si è senza filtri e si ha l’ormone scombussolato o non ancora stabilizzato. Ma crescendo i filtri si devono avere perché non tutti i filtri sono negativi: alcuni di essi fanno di una società un luogo civile in cui si ha rispetto del proprio prossimo pur rilevando ciò che non ci piace.

Sarò un’illusa, ma io dico che nella maggior parte dei casi la risposta è no, che non avremmo il coraggio di dirlo vis-à-vis. E dico anche che se la destinataria di un “sei cessa” fosse nostra figlia o nostra sorella, allora capiremmo molto chiaramente la differenza rispetto a un “non mi piace”, capiremmo la differenza tra un’opinione e un giudizio.

Bene, ora che mi sono guadagnata un po’ di antipatie con l’ennesima opinione impopolare, sono pronta a beccarmi anche qualche insulto.
Pazienza, me ne farò una ragione.

E come mi disse una volta qualcuno “spesso un insulto qualifica molto meglio chi lo fa piuttosto di chi lo riceve”.
Un po’ come il gioco dello “specchio riflesso” che facevamo da bambini, quando eravamo privi di filtri e con l’ormone in agitazione, come dicevo qui sopra. Ricordate il tormentone “Chi lo dice sa di esserlo”?

Pensiamo anche a questo la prossima volta che stiamo per dire che qualcosa o qualcuno – soprattutto qualcuno – fa schifo.

Manu

 

P.S.: Per l’ennesima volta, cito un proverbio degli indiani d’America: “Prima di giudicare una persona, cammina per tre lune nei suoi mocassini”. Sì, mi rendo conto di essere ripetitiva (l’ho già menzionato nel mio post su Cara Delevingne e in quello dedicato a Renée Zellweger), ma come dicevano i nostri padri latini repetita iuvant. Speriamo.

 

 

 

 

Se avete voglia di saperne di più circa Ultràchic, qui trovate il mio articolo per SoMagazine. Parlo di loro, di Diego e Viola, e si legge – e si vede – un anticipo della collezione primavera / estate 2016 🙂

 

 

Se volete approfondire a proposito del progetto di Valerio Loi, qui trovate il suo sito. Avevo già parlato di un altro suo progetto chiamato Web Poupularity Products lo scorso anno (qui).

 

 

 

 

 

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Manu

Mi chiamo Emanuela Pirré, Manu per gli amici di vita quotidiana e di web. Sono nata un tot di anni fa con una malattia: la moda. Amo la moda perché per me è una forma di cultura, una modalità di espressione e di comunicazione, un linguaggio che mi incuriosisce. Scrivo e creo contenuti in ambito editoriale, principalmente proprio per la moda. Insegno (Fashion Web Editing, Storytelling, Content Creation) in due scuole milanesi. Vivo sospesa tra passione per il vintage e amore per il futuro e sono orgogliosa della mia nutrita collezione di bijou iniziata quando avevo 15 anni. Per fortuna Enrico, la mia metà, sopporta (e supporta) entrambe, me e la collezione, con pazienza e amore. Oltre a confessare un'immensa curiosità, dichiaro la mia allergia a pregiudizi, cliché, luoghi comuni, conformismo e omologazione. Detesto i limiti, i confini, i preconcetti – soprattutto i miei – e mi piace fare tutto ciò che posso per superarli. La positività è la mia filosofia di vita: mi piace costruire, non distruggere. Moda a parte, amo i viaggi, i libri e la lettura, l'arte, il cinema, la fotografia, la musica, la buona tavola e la buona compagnia. Se volete provare a diventare miei amici, potete offrirmi un piatto di tortellini in brodo, uno dei miei comfort food. Oppure potete propormi la visione del film “Ghost”: da sognatrice, inguaribile romantica e ottimista quale sono, riesco ancora a sperare che la scena finale triste si trasformi miracolosamente in un lieto fine.

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