Genius Loci, la mostra dedicata a Franco Moschino è ad Abbiategrasso

È un periodo molto particolare. Un periodo di confusione, lo definirei. In vari ambiti e anche nella moda.

È un periodo in cui nella moda, per esempio, si alternano continui e sempre più frequenti cambi di direttori creativi in seno a tanti brand illustri. Anche dal punto di vista culturale vengono proposti prodotti che, anziché fare chiarezza, offrono visioni pasticciate e pasticcione. Giusto per fare un nome: concordo completamente con l’analisi di Giuliana Matarrese (qui) a proposito di The New Look, il biopic di Apple+ che avrebbe potuto (o dovuto) raccontare la vita di Christian Dior.

Insomma, la moda si trova decisamente in stato confusionale, ahimè, sotto tanti punti di vista, ed è sempre più difficile comprendere in quale direzione vada. Specchio dei tempi, direbbe qualcuno. Non è un pensiero infondato e lo condivido.

Ecco, in mezzo a questa confusione che trovo spesso disturbante, restano ben poche certezze. Una di queste è lo studio della storia della moda. E non solo per conoscere il passato, ma anche per cercare chiavi per interpretare il presente e provare a ipotizzare il futuro.

Certo, le risposte non sono purtroppo da cercare in biopic come quello su Dior (che delusione, lo avevo tanto aspettato…). Le risposte possono invece venire da eventi ben organizzati, come tante belle mostre attualmente in corso. Per esempio, quella su Walter Albini a Prato, della quale mi sono recentemente occupata (qui). Oppure quella su Franco Moschino, ovvero la mostra della quale desidero parlare oggi. Leggi tutto

Ho fatto Love Therapy con Floria Fiorucci, la sorella di Elio

Elio Fiorucci ha scritto un gran capitolo della storia del costume, a livello italiano e internazionale.

Ha fatto cose da autentico pioniere, molto tempo prima che diventassero comuni, a partire dall’apertura del suo negozio a Milano nel 1967, primo concept store in Italia.

Il suo denim ha fatto storia così come i suoi celeberrimi angeli.

Indimenticabile la commistione che ha saputo creare con l’arte e con artisti del calibro di Keith Haring. Era il 1983 quando Fiorucci ha affidato all’artista statunitense la decorazione del negozio in San Babila, precisamente in Galleria Passarella, completamente svuotato per l’evento.

E se non credete a me, se non credete se vi dico che Elio Fiorucci è stato importante ben oltre moda e costume, vi chiedo di leggere questo bellissimo articolo di Gianmarco Gronchi pubblicato in un sito che parla di storia dell’arte.

Non mi vergogno a raccontare che, nel 2015, quando è scomparso improvvisamente per un malore, ho pianto.
Perché Elio Fiorucci, oltre a essere un pezzo di storia (non manca mai nelle lezioni ai miei studenti), è uno dei motivi per cui mi sono innamorata della moda quando ero solo un’adolescente. Leggi tutto

Se avessi voluto piacere a tutti sarei nat* Nutella, ovvero la critica oggi

Da tempo noto un fenomeno ormai dilagante e incontenibile: la critica portata ai massimi livelli.
Critica a oltranza, su tutto e su tutti, sempre, comunque e in qualsiasi caso, per tutto e per il contrario di tutto. E spesso in modo aspro, esasperato, sopra le righe.

Come ho appena scritto, è un fenomeno in corso già da tempo, via social network ma non solo, eppure ultimamente sta raggiungendo livelli davvero preoccupanti, secondo me.
Saltellando qua e là in quello strano mondo che è ormai Instagram, per esempio, mi capitano sempre più sotto gli occhi casi emblematici.

Ne cito qualcuno?

Parto da un uomo che stimo davvero molto, single, ha in affido una bambina con sindrome di Down o trisomia 21: la critica per lui è scattata perché ha appena preso un cagnolino di razza anziché un meticcio in un canile.
Dare alla piccola un compagno a quattro zampe con cui giocare, rapportarsi e crescere mi sembra un’idea grandiosa, eppure alcuni commenti sottostanti il suo post (che scioglie letteralmente il cuore in punti come quello in cui lei mostra il libro di Pinocchio al cucciolo) variano da «mi meraviglio di te» a «avresti dovuto dare un esempio significativo adottando un cane e non comprandolo».

Giuro, sono rimasta basita. Leggi tutto

Gentile Catone SS 2022, il floreale in chiave decisamente contemporanea

È da poco terminata una nuova Milano Fashion Week, un’edizione che, si dice, ha riportato il settore moda a una certa normalità rispetto all’inizio della pandemia, anche se ormai questa parola, normalità, è sempre più priva di una definizione universalmente valida.

In passato ho spesso scritto post scomodi a mo’ di sunto di tante cattive abitudini e di tanti pessimi comportamenti che riscontravo (e riscontro) durante le settimane della moda (l’ultima volta lo feci un anno e mezzo fa, marzo 2020, a proposito di Philipp Plein e del suo discutibile omaggio a Kobe Bryant); ho poi smesso di farlo, per diversi motivi.

Questa volta, però, torno ad andare controvento nel momento di questo cosiddetto ritorno alla normalità perché ho da dire una cosetta o due nonostante il mio spirito ribelle e controcorrente sia stato ultimamente un po’ domato dagli eventi e sfiancato da un sistema decisamente più grande di me.

E per dire tali cose userò la collezione del brand Gentile Catone come esempio virtuoso nella piccola polemica che innesco. Leggi tutto

In tempi di COVID-19, scagli la prima pietra chi è senza peccato

Negli ultimi tempi mi sono sentita… disorientata.
Ho pensato a lungo a quale aggettivo usare per definire il mio stato animo e volete sapere una cosa? In realtà non ne esiste uno che mi soddisfi e che mi rappresenti al 100%.
Ciò che provo è molto complesso e anche un po’ aggrovigliato e credo sia uno stato comune a moltissimi di noi.
A ogni modo, penso che ‘disorientata’ – aggettivo che dipinge chi è smarrito, spaesato, interdetto, spiazzato – sia la definizione più vicina e calzante.

Dunque sì, ecco, mi sento disorientata, su molte cose e da molte cose, e tengo a precisare che il disorientamento non riguarda cosa devo e dobbiamo fare, quali comportamenti tenere.
Su quel fronte è tutto chiaro e il disorientamento è nei sentimenti e nei pensieri.
Il disorientamento è quello di cuore, anima e testa sballottati in una continua alternanza di contrasti, di alti e bassi, come se mi trovassi su una giostra impazzita e fuori controllo…

Quando ci si sente così, è preferibile tacere anche per non coinvolgere gli altri nel proprio stato d’animo, quindi ho scelto volontariamente e consciamente di non pronunciarmi più e in alcun modo riguardo gli sviluppi del COVID-19, privilegiando esclusivamente l’ascolto.

Non mi era mai successo nulla di simile, non mi ero mai sentita così fortemente e completamente spaesata, spiazzata, smarrita nemmeno in altri momenti molto duri, miei personali o comuni a tutta la nostra società e diciamo che ne abbiamo passati diversi.
Io ricordo personalmente (e non per averlo letto nei libri di storia), da piccolissima in poi, il disastro di Chernobyl, la guerra del Golfo, l’11 settembre, gli attentati terroristici in tutta Europa, la guerra in Siria, la SARS, l’encefalopatia spongiforme bovina diventata tristemente nota come morbo della mucca pazza, così, giusto per citarne alcuni.
Forse, però, questo è davvero un momento diverso rispetto a tutto ciò che abbiamo vissuto finora… forse presenta davvero un lato inedito in quanto nessuno di noi (se non i più anziani) aveva mai sperimentato personalmente una pandemia che implica una rigorosa quanto necessaria limitazioni delle nostre libertà individuali e personali.

Tuttavia ora, dopo il lungo silenzio, desidero esprimere alcuni pensieri. Leggi tutto

La moda che NON mi piace: a proposito di Philipp Plein e di limiti (valicati)

La sera di giovedì 20 febbraio, nel pieno della Milano Fashion Week, terminate le lezioni con i miei studenti, mi trovavo a camminare lungo via Palestro per raggiungere la location di una presentazione.
All’altezza della Galleria d’Arte Moderna, ho notato un gruppetto di fuoristrada estremamente vistosi: li ho notati perché il contrasto tra le vetture chiassosamente dorate e la bellissima Villa Reale, capolavoro del Neoclassicismo milanese che ospita la GAM, risultava particolarmente… stridente, diciamo così.
Nella mia testa si è fatto immediatamente strada un nome: «è lo stile Philipp Plein», ho pensato.
Non mi sbagliavo: quando ho superato i fuoristrada, ho visto proprio il nome dello stilista tedesco tratteggiato a lettere cubitali sugli sportelli. Ho scosso la testa, ho sorriso e sono passata oltre, dimenticando ben presto l’episodio.

Mi è tornato in mente solo alla fine di Milano Moda Donna, quando ho letto un articolo di Fashion Network: ‘Philipp Plein suscita indignazione per il raffazzonato omaggio a Kobe Bryant’, titolava la testata online, l’unica (che a me risulti) in ambito moda ad aver fatto un dettagliato reportage critiche incluse dello show svoltosi a Milano il 22 febbraio.
Perché quel titolo?
Perché, per presentare la sua collezione autunno-inverno 2020/21, lo stilista ha organizzato uno show fastosissimo e dorato (ecco spiegati i fuoristrada visti quel giorno), rendendo omaggio (almeno nel suo intento) alla leggenda del basket Kobe Bryant, recentemente scomparso insieme alla figlia primogenita Gianna e ad altre sette persone a causa di un tragico incidente d’elicottero: è stato invece ampiamente criticato attraverso i social media per almeno due motivi.
Il primo: l’accusa di voler sfruttare l’immagine di Bryant a nemmeno un mese dalla scomparsa avvenuta il 26 gennaio.
Il secondo: l’inclusione nel set dello show (nel suo caso il termine è molto più adatto rispetto a sfilata) di elicotteri dorati oltre a varie supercar, motoscafi e aerei altrettanto lucenti.
Elicotteri, sì, avete letto bene, come quelli del mortale incidente.

Classe 1978, re dello stile opulento e volutamente eccessivo, il designer ha spiegato che tale ‘arredo’ era stato ideato e progettato a novembre 2019 (prima, dunque, della tragica morte di Bryant) e che era troppo tardi per sostituire gli elicotteri.
Davvero, Mr. Plein? Leggi tutto

Se Instagram nasconde i like… è un’opportunità o una penalizzazione?

È stato un argomento che ha creato non poco scompiglio quest’anno nel web: dopo una fase sperimentale, Instagram ha deciso di nascondere definitivamente (?) il numero dei like.

Se metto il punto interrogativo è perché con Mark Zuckerberg, fondatore e proprietario di Facebook nonché proprietario di Instagram dal 2012, non si può mai sapere se e quanto una decisione sia definitiva.
A ogni modo: il test, iniziato il 17 luglio, aveva inaugurato una fase di prova allo scopo di sondare il parere degli utenti.
«Vogliamo aiutare le persone a porre l’attenzione su foto e video condivisi e non su quanti like ricevono. Stiamo avviando diversi test in più Paesi per apprendere dalla nostra comunità globale come questa iniziativa possa migliorare l’esperienza su Instagram.»
Così aveva dichiarato Tara Hopkins, Head of Public Policy EMEA di Instagram.

Attorno a fine settembre, la prova è diventata appunto ‘definitiva’ ed estesa a tutti gli utenti.
Il tasto like non è stato rimosso, tuttavia non è più visibile il numero dei ‘mi piace’; solo l’utente che ha condiviso il post su Instagram può avere accesso a tale informazione.
L’informazione è in realtà ancora visibile se, al posto di usare la app via smartphone, apriamo Instagram via pc – stranezze non facilmente comprensibili…

A ogni modo: prima in luglio e poi in settembre, ho letto molti post preoccupati e ho notato parecchia agitazione circa questa faccenda dei like.
Io, invece, non sono stata mai minimamente preoccupata, sebbene con i social ci lavori (anche).
Non ho finora scritto nulla riguardo questo cambiamento, credo forse di aver twittato condividendo il link di qualche articolo da una delle tante riviste che leggo: ho preferito aspettare e pormi in ascolto con tutti i sensi allertati, lasciando passare qualche mese allo scopo di poter osservare sviluppi e risultati e potermi fare un’opinione più chiara e, spero, fondata su basi più solide.
Adesso l’anno sta per chiudersi e, come sempre avviene in simili frangenti, è giunto il momento di un piccolo e personale bilancio: inizio allora dicendo perché non mi sono mai agitata.

Il primo motivo per il quale non mi agito è perché sono fermamente convinta del fatto che le evoluzioni siano del tutto naturali, in ogni ambito. E quindi è naturale che anche i social si evolvano.
Il secondo motivo è perché so bene che i social – quelli attuali – esistono da nemmeno 20 anni: parlando di alcuni tra i più celebri e diffusi, Facebook è nato nel 2004, Twitter nel 2006, Instagram nel 2010, Snapchat nel 2011, TikTok nel 2016.
Vivevamo (bene) prima di loro, continueremo a vivere (bene) anche se cambiano e si evolvono, detto da una che – ripeto – con i social ci lavora.
Il terzo motivo per cui non mi sono preoccupata (e non mi preoccupo) è che non ho mai puntato alla quantità anche perché, causa algoritmi (in parole molto spicce, le formule con le quali vengono determinati i criteri con i quali viene deciso quali contenuti mostrarci), è ormai quasi impossibile (ho scritto quasi) crescere organicamente e naturalmente e la quantità sui social si ottiene quasi esclusivamente in tre modi: se si è una vera celebrità, nel bene o nel male; se si investe in pubblicità; se si è disposti a usare sistemi che non sempre sono ‘naturali’ (diciamo così per restare soft).
Non rientro in nessuno dei tre casi e dunque ho semplicemente puntato a qualità e autenticità dei contenuti che produco.

E, per inciso, a me sembra (uno) che parlare a diverse migliaia di persone (numero che cresce se metto insieme tutti i miei canali social) sia cosa tutt’altro che trascurabile e (due) che sia importante, sempre nell’ottica della qualità, ciò che comunichiamo e condividiamo, sia che si parli a dieci persone sia che si parli a circa 5000.
Così, almeno, suggeriva il buonsenso prima che tante persone perdessero il senso della misura… Leggi tutto

Gender gap vs women empowerment: la moda non è un lavoro per donne?

È da un bel po’ (precisamente da qualche mese) che medito sul contenuto di un articolo di Pambianco.

Dovete sapere che detta rivista è una delle mie preferite e che non manca mai tra le letture quotidiane: dunque, se intitola un articolo ‘Allarme gender gap, la moda non è un lavoro per donne’, ecco che Pambianco attira immediatamente la mia attenzione anche perché si tratta di un argomento che mi sta particolarmente a cuore.

Cosa sostiene l’autorevole magazine nell’articolo datato 22 maggio?

Viene citato uno studio intitolato ‘The glass runway’, redatto dal Council of Fashion Designers of America (CFDA), Glamour e McKinsey & Company: in questo studio si afferma che, sebbene le donne rappresentino l’85% delle laureate presso i principali istituti di moda americani, i ruoli chiave ricoperti da nomi femminili sono ben pochi.

Il mondo della moda – rincara la dose Pambianco – ha recentemente mostrato interesse per le diversità di orientamento sessuale e di taglia, ma non abbastanza per il gender gap.

Con gender gap si intende l’insieme di tutte quelle differenze che si riscontrano a livello di condizioni economiche e sociali (dall’istruzione fino all’accesso al lavoro) e che influenzano la vita degli esseri umani in base al loro genere di appartenenza: in parole povere, parliamo di disparità di condizione tra uomini e donne.
E generalmente, quando si parla di gender gap, si tende (purtroppo) a osservare l’esistenza di maggiori penalizzazioni a sfavore delle donne rispetto agli uomini.

«Non ne parliamo molto perché c’è la sensazione che tutti ne siano già a conoscenza, ma a volte è necessario dire qualcosa affinché le persone non facciano finta sia un problema inesistente», ha dichiarato Diane von Fürstenberg, presidente dello stesso CFDA.

I dati contenuti nello studio ‘The glass runway’ sono alquanto desolanti. Leggi tutto

Quando Rolling Stone ci invita a fare la nostra scelta…

Quella che vedete qui sopra è la copertina di luglio 2018 di Rolling Stone Italia, in edicola da oggi.
E io vorrei dire qualcosa in merito, soprattutto a chi sostiene che tale copertina sia esagerata, fuori luogo, populista, demagogica, sinistroide. Che si tratti di sciacallaggio, come ho letto da qualche parte.
Quel qualcosa che desidero dire non sono parole mie: le prendo in prestito dal tedesco Martin Niemöller (1892 – 1984), teologo, pastore protestante e oppositore del nazismo.
Le parole – che mi fanno pensare ogni volta in cui le rileggo – sono queste.

«Quando i nazisti presero i comunisti,
io non dissi nulla perché non ero comunista.
Quando rinchiusero i socialdemocratici,
io non dissi nulla perché non ero socialdemocratico.
Quando presero i sindacalisti,
io non dissi nulla perché non ero sindacalista.
Poi presero gli ebrei,
e io non dissi nulla perché non ero ebreo.
Poi vennero a prendere me.
E non era rimasto più nessuno che potesse dire qualcosa.»

Ho scelto i versi originari e originali di Martin Niemöller, ma esistono diverse versioni e anche interpretazioni e reinterpretazioni.
Le sue parole risultano così forti da aver avuto influenza su molte opere venute in seguito, come la canzone Yellow Triangle del cantante di musica folk irlandese Christy Moore; anche il duo musicale scozzese Hue and Cry ha parafrasato la poesia in una propria canzone e i versi hanno avuto un peso anche per la canzone Emigre del gruppo punk statunitense Anti-Flag.

Quando le scrisse, Niemöller si riferiva all’inattività degli intellettuali tedeschi in seguito all’ascesa al potere dei nazisti e agli obiettivi da loro scelti, gruppo dopo gruppo; la poesia è in seguito diventata un monito contro il pericolo dell’apatia sociale e politica, per sottolineare come essa possa trasformarsi in qualcosa che si ritorce proprio contro chi pensa di non essere toccato da certi fenomeni.
Contro chi è indifferente, apatico, chiuso nel proprio guscio che crede sia una protezione.

Io non desidero affatto dirvi cosa dovete pensare, amici che state leggendo.
Cerco di non farlo mai, in nessun ambito e su nessun argomento: mi limito a esporre il mio punto di vista e a esporre quante più possibilità mi vengono in mente.

Non sono dunque qui per dirvi se abbia ragione Matteo Salvini, Rolling Stone Italia o chi si schiera contro la rivista.
Non vi sto dicendo da quale parte stare, vi dirò semplicemente cosa farò io.

Io che credo nella libertà (a partire da quella di parola e di stampa) e che amo i diritti, io che i diritti li voglio per tutti (come ho scritto nel 2015 qui e nel 2016 qui), io che credo nelle persone di buona volontà e di pensiero indipendente, che siano di destra o di sinistra, bianche o nere, omosessuali o eterosessuali, italiane o straniere, io che amo il mio Paese e che lo vorrei vedere progredire veramente; domani, io che ho tutto ciò nella testa e nel cuore, andrò in edicola, comprerò Rolling Stone Italia e lo leggerò (qui trovate un’anticipazione, se volete).
Non solo: continuerò sempre a informarmi e continuerò sempre a tenere testa e cuore aperti.
Darò sempre a me stessa una, dieci, cento possibilità.

E vi dirò anche cosa non farò.

Io non mi farò rinchiudere in un recinto, anzi, non mi ci rinchiuderò da sola, non resterò indifferente, non farò finta che vi siano categorie umane alle quali non appartengo.
O che non mi interessano o che mi infastidiscono o che disturbano i miei interessi.
Io non penserò di essere protetta dal fatto di essere cittadina italiana figlia di cittadini italiani e discendente di cittadini italiani, non mi sentirò protetta dal fatto di essere bianca, di religione cattolica anche se non praticante, eterosessuale e coniugata.
Io non crederò che esista guscio che possa proteggermi.

Rolling Stone è stato fondato negli Stati Uniti 51 anni fa come periodico di musica, politica e cultura di massa.
Dal 1967 porta avanti i concetti di intrattenimento e di impegno sociale: è fallibile, come qualsiasi opera e associazione umana, ma ha tanta passione da darsi lo slogan «Sulla pietra che rotola non cresce il muschio».

Ovvero chi rifiuta di stare fermo sulle proprie posizioni, chi continua a muoversi… chi fa tutto ciò impedisce che il cervello si atrofizzi imprigionato dal muschio dell’indifferenza, dell’inattività, dell’apatia, della pigrizia, dell’indolenza, della paura.

E io chiedo questo, a me e a voi: diamo a noi stessi una chance, non aspettiamo di voltarci e di non trovare anima viva attorno a noi.
Io vedo in tutto ciò, nella copertina di Rolling Stone, un’occasione, una possibilità.
L’importante è non tacere, perché non prendere posizione e non avere un’opinione è cosa che mi terrorizza più di qualsiasi scelta, sicuramente molto più di una persona che la pensi in maniera diametralmente opposta alla mia.

Manu

Come la sfilata Iulia Barton Inclusive Fashion ha testato la mia coerenza

È proprio vero.
È facile, tutto sommato, fare bei discorsi in linea teorica.
È facile scrivere che si è a favore della moda inclusiva – ovvero di quella moda che sia davvero rappresentativa della società in cui viviamo e di tutte le persone che la compongono.
È facile parlare di uguaglianza, di accettazione, di superamento e abbattimento di qualsiasi barriera, limitazione, ostacolo.
È facile riportare una frase bella come «la diversità è un attributo privo di fondamento».
Ma – come disse saggiamente qualcuno – tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare.
E c’è di mezzo il mare perfino per chi è fondamentalmente una persona coerente. Una persona che davvero crede in ciò che dice e scrive, come la sottoscritta.

Perché esordisco così?

Perché, così come avevo annunciato in un post precedente, martedì 27 febbraio, a chiusura della Milano Fashion Week, sono stata alla sfilata Iulia Barton Inclusive Fashion Industry, il progetto creato da Giulia Bartoccioni.

Alla presenza di Carlo Capasa, presidente della Camera Camera Nazionale della Moda Italiana, sono andati in passerella sei stilisti rappresentativi del Made in Italy: a indossare le loro creazioni sono stati chiamati modelli e modelle, uomini e donne, scelti senza alcuna limitazione o barriera.
E scrivendo senza alcuna limitazione o barriera, mi riferisco alla scelta di far sfilare modelle e modelli con e senza disabilità. Leggi tutto

Chiudono Colette e MAD Zone e io sono amareggiata (ma non mi arrendo)

Ve lo dico subito: oggi sono arrabbiata. Tanto.
Ma no, aspettate, forse arrabbiata non è l’aggettivo giusto né è giusto dire che lo sono oggi o da oggi: in realtà, provo rabbia, sì, d’accordo, ma il sentimento che più si avvicina a ciò che provo è l’amarezza e la provo già da diverso tempo.
Amarezza, ovvero un miscuglio di viva delusione, doloroso rammarico e pungente tristezza mescolati a contrarietà, fastidio e a un antipatico senso di impotenza.

Tutto ciò va avanti da tempo, come vi dicevo, precisamente dallo scorso luglio, ovvero da quando ho saputo della chiusura di Colette (diventata definitiva esattamente una settimana fa, il 20 dicembre – vedere qui e qui) e della cessione degli spazi appartenenti a 10 Corso Como (qui e qui due articoli di Pambianco).
Ad acquisire gli spazi sono stati l’imprenditore Tiziano Sgarbi e la stilista Simona Barbieri, fondatori ed ex proprietari di TwinSet: la mia perplessità circa l’acquisizione è aggravata dal fatto che proprio il marchio TwinSet è stato da loro ceduto al gruppo Carlyle, grossa società internazionale di asset management.
E io mi domando: cosa faranno questi due signori, ora, con 10 Corso Como? Seguirà la stessa sorte di quel loro ex marchio, finirà in pasto a qualche abnorme gruppo finanziario dove contano solo i numeri?

Colette e 10 Corso Como: due concept store, due spazi polifunzionali, due realtà appartenenti rispettivamente non solo alla storia di città come Parigi e di Milano ma al mondo.
Due luoghi mentali prima che fisici che hanno scritto pagine importanti della moda e del costume internazionale e del modo di intenderli: l’hanno fatto per 20 anni nel caso di Colette (fondato nel 1997 da Colette Roussaux) e per 27 anni nel caso di 10 Corso Como (fondato nel 1990 da Carla Sozzani, sorella di Franca, mitica direttrice di Vogue Italia).

Poi, dopo queste notizie, a fine luglio, è arrivata anche la telefonata di Tania Mazzoleni.
Per chi legge A glittering woman (grazie sempre ), quello di Tania è un nome familiare: è la fondatrice di MAD Zone, negozio e salotto meneghino sospeso tra moda, arte e design e che io ho sostenuto con tanto entusiasmo durante tutto il suo percorso, dagli eventi che lì sono stati presentati (qui e qui due esempi) fino ad arrivare ai creativi che ho conosciuto attraverso quella che era diventata una vera e propria fucina di talenti (come per esempio Andrea de Carvalho e Buh Lab).
Quella che ho scelto per illustrare il presente post, qui in alto, è una foto che ritrae me e Tania proprio in occasione di uno degli eventi di MAD Zone della scorsa primavera.

Ecco, il 31 luglio, Tania mi ha annunciato la chiusura di quel suo spazio così vivo e così emozionante ed è stato un duro colpo al cuore visto il mio deciso e sincero sostegno, è stato uno sviluppo inatteso e doloroso che mi ha toccato proprio nel personale e nel profondo, perché gli investimenti morali sono quelli sui quali io punto con più forza.
E in MAD Zone credevo fortemente, so che aveva tutte le carte in regola per diventare sempre più un grande successo. Come Colette e come 10 Corso Como.

Per completare il quadro alquanto nefasto mancava solo un’ulteriore quanto pessima notizia ricevuta attraverso Valentina Martin, la fondatrice di Spazio Asti 17, altro indirizzo milanese particolarissimo.
Dopo le vacanze estive, in settembre, ho incontrato Valentina per caso, a una fiera di settore: con un dispiacere evidente, mi ha confessato la chiusura del suo spazio che negli anni ha ospitato artisti e designer (lì ho incontrato Eleonora Ghilardi fisicamente dopo tanti scambi virtuali) e che è stato il teatro di tanti eventi culturali ai quali ho partecipato, talvolta con un ruolo attivo (per esempio quando sono stata chiamata a presentare uno dei libri della brava Irene Vella, giornalista e amica).

Ecco, a quel punto la mia amarezza è diventata dilagante. Leggi tutto

Milan Fashion Week, con le collezioni SS 2018 va in scena molto di più…

Lunedì è stato l’ultimo giorno della Milan Fashion Week e dell’edizione dedicata alle collezioni primavera / estate 2018 o SS 2018, come dicono gli addetti ai lavori.
Volete sapere se sono triste per la fine della MFW, visto che la moda è un po’ il mio pane e un po’ la mia malattia?
Certo, un po’ mi dispiace che termini perché amo ciò che faccio.
Però penso anche che ci siano belle cose da fare in tanti ambiti interessanti, non solo nella moda, quindi no, non sono affatto triste.

Chi legge più o meno abitualmente A glittering woman (non guasta mai ripetere il mio sentito e sincero grazie ) sa che, al termine delle settimane dedicate alla moda, pubblico un mio reportage con le riflessioni scaturite da sfilate e presentazioni alle quali ho assistito nonché da tutto ciò che fa da contorno.

Ho scritto di certe cattive abitudini dell’ambito in cui mi muovo, ho parlato della questione accrediti alle sfilate (e in verità l’ho fatto più di una volta), ho raccontato di metatarsi malconci e di sciocchi luoghi comuni.
Al termine della scorsa edizione, quella di febbraio 2017, ho scritto di una messa (sì, una messa) che mi ha lasciato tanta tristezza nonché di un importante salone e della completa cecità nel gestire gli ingressi.

E questa volta?

Beh, tralasciando il fatto che né le cattive abitudini né i luoghi comuni sono morti (purtroppo…) e sorvolando sul fatto che la gestione spesso incomprensibile degli accrediti prosegue pressoché senza miglioramenti, a parte tutto ciò, in verità devo ammettere che questa edizione è andata piuttosto bene – se non altro a livello personale.
Non ho cioè vissuto particolari disagi o incidenti di percorso, forse perché in alcuni casi ho deciso di rinunciare proprio in partenza – e non è una cosa bella, lo so.

Eppure, cari amici, vi devo dire che a volte perfino gli spiriti più tenaci (e io lo sono) si stancano di combattere contro i mulini a vento e decidono di fare un passo indietro.
Non è una rinuncia o una resa definitiva, sia ben chiaro: è solo una tregua in attesa di capire come riorganizzare le forze, è una pausa che mi serve a riprendere fiato, è un mettermi alla finestra in attenta osservazione.

Mai rinuncerò a combattere contro i luoghi comuni e la maleducazione (perché è questa una delle cattive abitudini alle quali mi riferisco), ma al momento sono stanca di continuare a scriverne.
Mi limito a prendere in prestito le parole della brava giornalista Lucia Serlenga che, nel suo reportage post-MFW SS 2018, rivolgendosi agli addetti ai lavori, scrive le seguenti testuali parole: «andrebbe ricordato a tutti quelli che fanno parte di un mondo ritenuto raffinato che prima vengono le persone». Leggi tutto

Del perché scelgo – e continuerò a scegliere – la Grecia per le mie vacanze

Ve lo dico subito: questo è uno dei miei soliti post scomodi.
È un post che, probabilmente, mi farà guadagnare qualche antipatia, sebbene mi piace sperare che – in realtà – possa essere compreso per ciò che è, ovvero una dichiarazione d’amore.
Perché, quando si ama qualcuno o qualcosa profondamente, quanto di meglio si possa fare è essere sinceri e obiettivi: se esiste un problema, è meglio prenderne atto e fare quanto possibile per risolverlo.
Nascondere la testa sotto la sabbia non è cosa che mi piace né che credo che aiuti; aprire gli occhi e poi agire è la soluzione che scelgo.

Fatta questa premessa, partiamo: oggi desidero spiegare perché ho scelto la Grecia – e precisamente l’isola di Samos – per le mie vacanze.
Desidero spiegarvi perché ho scelta la Grecia parecchie volte in passato, le più recenti nel 2009 e nel 2010, e perché l’ho scelta di nuovo quest’anno.

Ho scelto la Grecia perché oggigiorno noi tutti, o quasi, facciamo grande fatica a mettere insieme i soldi per andare in vacanza e tutti vogliamo spenderli al meglio. Le vacanze si attendono spesso per un anno intero ed è una lunga attesa che necessita e merita di avere infine soddisfazione: in Grecia trovo esattamente questo, la giusta soddisfazione.
Ho scelto la Grecia perché in quel Paese mi sento una persona. Perché esiste una reale voglia di accogliere e fare stare bene chi sceglie il Paese per le proprie vacanze, con genuinità, spontaneità ed eleganza non esclusivamente di forma ma quanto piuttosto di cuore (quella per me più importante), riuscendo a non trasformare il turista in un semplice pollo da spennare ben bene.
Ho scelto la Grecia perché è un Paese in cui c’è rispetto dei soldi, non solo di quelli che si vogliono guadagnare, ma anche di quelli che il turista porta e spende. La soddisfazione del turista è importante perché – intelligentemente – ben si capisce che è meglio un guadagno più piccolo ma con un investimento in termini di stima duratura piuttosto che un guadagno immediato esagerato che, francamente, riesce piuttosto difficile giustificare. Leggi tutto

Prova costume? Dico il mio deciso “NO, GRAZIE” e vi spiego perché

Capita tutti gli anni, piuttosto puntualmente: pare che il caldo dia alla testa a molti, perfino nelle redazioni di giornali prestigiosi e stimati.

L’anno scorso è capitato con Chloë Moretz, attrice e modella statunitense, presa di mira da Io Donna, il femminile del Corriere della Sera.

Un femminile, ebbene sì, ovvero un giornale che dovrebbe stare dalla parte delle donne e assecondare la loro emancipazione sotto tutti i punti di vista.

Ebbene, Io Donna pubblicò una foto che ritraeva Brooklyn, figlio di David e Victoria Beckham, mano nella mano con Chloë, sua fidanzata: sotto, fu messa una didascalia che li definiva coppia dell’estate nonché un ulteriore commento molto illuminato e illuminante.

Quale? «Sono inseparabili. L’attrice non si separa mai neppure dagli shorts. Peccato non sia così magra da poterli indossare con disinvoltura.»

Lei, Chloë, ovvero una ragazza nata nel 1997, oggi 20enne, l’età della freschezza e di un pizzico di sana impertinenza, anche nel guardaroba, soprattutto se estivo.
Una ragazza con una corporatura assolutamente normale e sana.

Poco tempo dopo, come se non fosse bastato questo episodio davvero poco edificante, è stato un altro giornale a farsi portatore di un altrettanto inqualificabile capitolo di quella che mi è apparsa come una gara perversa al body shaming.

In occasione dei Giochi Olimpici di Rio de Janeiro, capitò infatti che, nella specialità del tiro con l’arco, il trio delle atlete italiane fosse stato sconfitto in semifinale: l’eliminazione delle azzurre Claudia Mandia, Lucilla Boari e Guendalina Sartori fu elegantemente – sì, sono ironica – sottolineata da Il Resto del Carlino.

Come? «Il trio delle cicciottelle sfiora il miracolo olimpico.» Leggi tutto

Louis Vuitton, delocalizzazione, Made in Italy, H&M: perché tutto insieme?

Eccezionalmente, oggi pubblico un secondo post nella stessa giornata perché mi preme condividere con voi alcune riflessioni alquanto calde e attuali.

In questi giorni, circola infatti la notizia di un’inchiesta fatta da The Guardian: secondo l’autorevole quotidiano britannico, la maison Louis Vuitton (gruppo LVMH, ovvero una delle grandi holding del lusso) fabbricherebbe le proprie scarpe in Romania, per la precisione in Transilvania.
Sempre a quanto risulta secondo l’inchiesta, le scarpe vengono poi spedite da noi, qui in Italia, dove vengono semplicemente incollate le suole.
Altro che Made in France o Made in Italy, insomma, come invece viene stampigliato sulle suole.

Non voglio scendere nel merito specifico di questo episodio, perché il discorso è lungo e articolato.
Prima di tutto, occorrerebbe parlare bene di cosa oggi possa legalmente fregiarsi dell’appellativo Made in Italy (e sto meditando di scrivere un post dedicato).
E secondo, se vogliamo parlare di etica e soprattutto di etica del lavoro, bisogna dire che sembrerebbe che quelle fabbriche in Romania siano un ambiente pulito nel quale lo staff lavora da seduto, ha il fine settimana libero, è pagato per gli straordinari e non usa prodotti tossici.

(A proposito: un paio di cosette circa delocalizzazione, reshoring, Made in Italy, etica e via discorrendo le avevo già scritte tempo fa, nel 2014, ora che ci penso – precisamente qui)

L’osservazione che desidero fare è dunque piuttosto un’altra: bisogna tenere gli occhi ben aperti e non dobbiamo fidarci di tutto ciò che ci viene detto.
Oggi, il fast fashion viene spesso additato come l’essenza del male in ambito moda o peggio come l’unico male, ma non è così, non del tutto, non al 100%.
Così come non è vero che le maison di alto di gamma siano sempre virtuose, non è altrettanto vero che quelle di fast fashion facciano tutto quanto male.

Vi faccio un esempio pratico anche in questo caso.
Recentemente, ho fatto degli acquisti attraverso il sito H&M e quello che vedete qui sopra è il sacchetto che mi è arrivato insieme ai capi.
Perché – nonostante le responsabilità che si imputano al fast fashion e che certo non intendo negare – occorre anche dire che H&M, per esempio, è da anni in prima linea nella lotta per la sostenibilità.
Ha un sito dedicato nel quale dettaglia tutte le attività che svolge.
E, fin dal 2013, ha creato il più grande sistema globale di raccolta di abbigliamento usato del settore retail.
Tutti i negozi della catena, in ogni paese del mondo, dispongono di contenitori di raccolta dei capi: i clienti possono depositare capi usati di qualsiasi marca che saranno riutilizzati o riciclati, ricevendo un buono in cambio.
Già a febbraio 2014, H&M ha presentato i primi prodotti contenenti materiali ottenuti con l’iniziativa, ovvero capi in denim con una percentuale di cotone riciclato.

Non voglio fare un’arringa a favore del colosso del fast fashion, non mi interessa, credetemi; desidero solo – e lo ripeto! – dire a noi tutti di tenere gli occhi aperti e di guardare oltre.
Non dobbiamo subire i luoghi comuni, né nel bene e nel male, e non beviamoci bugie e/o false promesse, qualsiasi etichetta esse portino – letteralmente!

E per il momento mi fermo qui.

Se poi volete saperne di più sul caso Louis Vuitton, vi invito a leggere l’articolo di The Guardian.
E ce n’è anche per il gruppo diretto concorrente di LVMH, ovvero Kering: leggete cosa scrive Pambianco a proposito di un’altra querelle che riguarda degli occhiali…

La butto lì: sarà forse che quello di giocare un po’ con appellativi, definizioni e cavilli sia un vizio piuttosto diffuso?
Sarà forse che – come sostengo io – il male non stia oggi solo nel fast fashion ma in chiunque si comporti con poca trasparenza?

Manu

 

Le collezioni FW 17 – 18 in 9 momenti oltre estetica e apparenza

È appena terminata un’altra edizione di Milano Fashion Week, quella dedicata alle collezioni FW 17 – 18.
Come sempre, questo The End (e non so ancora se definirlo Happy End) provoca in me un miscuglio di sentimenti altalenanti e talvolta in contrasto tra loro: individuo tracce di stanchezza, dispiacere, gioia, soddisfazione.
Stanchezza perché – siamo onesti – sei giorni di full immersion sono lunghi. E infatti sento il desiderio di fare dell’altro, ora, di cercare nuovi stimoli altrove, proprio per tornare con più entusiasmo e con più carica a occuparmi di moda.
Dispiacere perché – stanchezza e / o nervosismi a parte – la moda è per me una grande passione e quindi un po’ mi dispiace che i giorni di incontri, presentazioni e sfilate siano terminati.
Gioia e soddisfazione perché ho visto cose interessanti e ho vissuto belle esperienze.
A fine MFW, è ormai abitudine che io pubblichi un reportage: ho scritto di certe cattive abitudini dell’ambito in cui mi muovo, ho parlato (più di una volta) della questione accrediti alle sfilate, ho raccontato di metatarsi malconci e di sciocchi luoghi comuni. Leggi tutto

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