Piccola wunderkammer nata nel 2013 e amministrata con il sorriso da Emanuela Pirré, “fashion something” ma mai victim
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Le collezioni FW 17 – 18 in 9 momenti oltre estetica e apparenza
È appena terminata un’altra edizione di Milano Fashion Week, quella dedicata alle collezioni FW 17 – 18.
Come sempre, questo The End (e non so ancora se definirlo Happy End) provoca in me un miscuglio di sentimenti altalenanti e talvolta in contrasto tra loro: individuo tracce di stanchezza, dispiacere, gioia, soddisfazione.
Stanchezza perché – siamo onesti – sei giorni di full immersion sono lunghi. E infatti sento il desiderio di fare dell’altro, ora, di cercare nuovi stimoli altrove, proprio per tornare con più entusiasmo e con più carica a occuparmi di moda.
Dispiacere perché – stanchezza e / o nervosismi a parte – la moda è per me una grande passione e quindi un po’ mi dispiace che i giorni di incontri, presentazioni e sfilate siano terminati.
Gioia e soddisfazione perché ho visto cose interessanti e ho vissuto belle esperienze.
A fine MFW, è ormai abitudine che io pubblichi un reportage: ho scritto di certe cattive abitudini dell’ambito in cui mi muovo, ho parlato (più di una volta) della questione accrediti alle sfilate, ho raccontato di metatarsi malconci e di sciocchi luoghi comuni.
Stavolta potrei scrivere di una messa dedicata a una persona recentemente scomparsa e che non mi era particolarmente simpatica ma che eppure stimavo; potrei scrivere di come mi abbia sconvolto vedere una lista accrediti (sì, avete letto bene) per essere presenti a questa messa (con tanto di atteggiamento maleducato da parte di una altrettanto maleducata persona dello staff all’ingresso in quanto la sottoscritta era colpevole di non essersi registrata). Tutto condotto, insomma, come se si trattasse di un evento esclusivo, ma esclusivo nel senso peggiore, ovvero fatto con la precisa volontà di escludere: pensate che io – povera illusa! – volevo solo rendere omaggio e dedicare del tempo a quella persona poiché mi sembrava un giusto e doveroso momento di riconoscenza e riconoscimento del suo importantissimo percorso che tanta influenza ha avuto su tutti. D’altro canto, avevo concluso l’edizione dello scorso settembre in modo similare, ovvero partecipando alla proiezione dello splendido film dedicato ad Anna Piaggi.
Potrei inoltre raccontare di un importante salone e della cecità nel gestire gli ingressi: qualcuno potrà pensare a un’oculata selezione, io vi dico invece che ho poi raccolto tante testimonianze di espositori furiosi perché non vi era sufficiente afflusso di stampa e buyer. Altro che oculatezza, è solo un altro (brutto) esempio di esclusione.
Potrei insomma scrivere il mio ennesimo post scomodo, ma volete sapere una cosa?
Oggi prevalgono in me due sentimenti: da una parte, c’è la stanchezza e non quella per i sei giorni di MFW, bensì quella che mi invade quando percepisco di condurre battaglie contro i mulini a vento; dall’altra, c’è la volontà di dare piuttosto spazio alla gioia e alla soddisfazione delle quali ho detto in principio e che provo a fronte di tutti gli incontri fatti e di tutta la bellezza toccata.
Per una volta, insomma, rinuncio a combattere, sperando che lo faccia qualcun altro (succederà?): quanto a me, per dare un senso a incontri e bellezza, per riuscire in qualche modo a dare loro una forma almeno vagamente organizzata, ho pensato di preparare e condividere una mia piccola e personalissima selezione, una sorta di Best of nel quale non esistono però vinti e vincitori, primi e secondi, medaglie d’oro o di bronzo.
Non è un ordine di arrivo al traguardo, non è né una graduatoria né una classifica né una pagella: è un semplice elenco che intende raccogliere e raccontare i miei momenti preferiti fatti di bellezza e positività nonché di vari meriti in diversi campi. Nove momenti preferiti, nove meriti. Il messaggio più importante. Il momento più emozionante. La maturazione più completa. I dettagli più fiabeschi. La collezione più onirica. Il sogno più grande. La location di maggior effetto. La sfida più appassionante. La trasposizione più interessante.
In fondo, siamo nei giorni immediatamente successivi all’assegnazione dei premi Oscar 2017, ma non preoccupatevi, non farò gaffe epiche come quella che si è consumata a Los Angeles in occasione dell’annuncio del vincitore della statuetta per il miglior film: ho prestato grande attenzione ai miei «And the Oscar goes to».
E se qualcuno ha intuito chi sia la persona alla quale era dedicata la messa oppure ha individuato il salone del quale parlo (a proposito, non si tratta né di White né di TheOneMilano né di Mido e ops! in questi giorni ce n’era in corso solo un altro); se qualcuno ha compreso tali nomi… beh, io non confermo né smentisco.
Come si dice in questi casi, ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale.
Oppure no, non è casuale?
Ai posteri l’ardua sentenza mentre aggiungo solo un’ultima cosa.
Non avevo il piacere di frequentare la persona recentemente scomparsa, ma ripeto di aver voluto andare alla messa con slancio sincero proprio in ragione della stima che il suo lavoro suscitava in me: credo che, anche se non ci si conosce personalmente, molto di noi e di come siamo fatti possa arrivare agli altri proprio attraverso il nostro lavoro. Se ciò è vero e se ho capito qualcosa della persona in questione, credo di poter affermare che – ovunque si trovi – sia lei stessa perplessa per alcuni risvolti della messa in suo onore, magari proprio per il fatto che gli accrediti la facessero assomigliare più a una sfilata oppure per il fatto che il sermone (che per molti versi mi è anche piaciuto) in alcuni passaggi assomigliasse pericolosamente a un comunicato stampa con i suoi bravi dati da snocciolare.
In occasione della scomparsa di questa persona, poco più di due mesi fa, un bravissimo giornalista aveva scritto di lei che «era tra le pochissime persone al mondo a potersene fregare del sistema moda perché ne era un giudice inesorabile»; aveva aggiunto che l’eredità che lasciava era pesantissima, poiché chi l’avrebbe sostituita avrebbe dovuto «diventare un’ancora in quella fluidità inquinata dalla caccia ai fatturati che è la sostanza della moda contemporanea».
È esattamente tutto ciò che penso anch’io ed è per questo che, oggi, sono amareggiata dal fatto che proprio quello che doveva essere un omaggio alla persona e al suo pensiero sia stato il trionfo del «sistema moda» del quale lei se ne fregava. Un emblema di quella «caccia ai fatturati» che sempre più minaccia e inquina la moda contemporanea.
Tutto viene monetizzato, ormai, tutto viene mercificato; tutto diventa prodotto e la moda è sempre meno sogno e sempre più un tipo di linguaggio che non comprendo. E non sono l’unica a pensarlo, ad avere dubbi e perplessità, visto che Stefano Guerrini (un’altra persona che stimo infinitamente, maestro, amico, grande professionista del settore e dunque esempio al quale guardo con immensa fiducia) parla proprio delle sfumature del popolo fashion (cito «quello che ha fatto nascere nei giornali quel terribile appellativo che è il ‘circo della moda’») in un suo bellissimo articolo.
Avevo detto che non avrei scritto il mio solito post scomodo: temo invece di averlo fatto, almeno in parte, e quindi è meglio che io mi fermi qui.
Meglio che io torni al motivo per il quale avevo deciso di scrivere il presente post, ovvero privilegiare contenuti ed essenza piuttosto che la sola apparenza: perché spero che, in fondo, nonostante tutto, ci sia ancora posto per questo e non solo per l’esclusione.
Manu
Pronti a partire con i miei Best of per la stagione FW 17 – 18?
Premetto che ho deciso di usare le foto che ho realizzato io stessa in quei giorni nonostante in alcuni casi potessi disporre di quelle degli uffici stampa: è una scelta precisa in quanto credo sia giusto mantenere un senso di vissuto, reale sebbene imperfetto, cercando di trasmettere le emozioni che ho provato.
Mi chiamo Emanuela Pirré, Manu per gli amici di vita quotidiana e di web.
Sono nata un tot di anni fa con una malattia: la moda. Amo la moda perché per me è una forma di cultura, una modalità di espressione e di comunicazione, un linguaggio che mi incuriosisce.
Scrivo e creo contenuti in ambito editoriale, principalmente proprio per la moda. Insegno (Fashion Web Editing, Storytelling, Content Creation) in due scuole milanesi.
Vivo sospesa tra passione per il vintage e amore per il futuro e sono orgogliosa della mia nutrita collezione di bijou iniziata quando avevo 15 anni. Per fortuna Enrico, la mia metà, sopporta (e supporta) entrambe, me e la collezione, con pazienza e amore.
Oltre a confessare un'immensa curiosità, dichiaro la mia allergia a pregiudizi, cliché, luoghi comuni, conformismo e omologazione. Detesto i limiti, i confini, i preconcetti – soprattutto i miei – e mi piace fare tutto ciò che posso per superarli. La positività è la mia filosofia di vita: mi piace costruire, non distruggere.
Moda a parte, amo i viaggi, i libri e la lettura, l'arte, il cinema, la fotografia, la musica, la buona tavola e la buona compagnia. Se volete provare a diventare miei amici, potete offrirmi un piatto di tortellini in brodo, uno dei miei comfort food. Oppure potete propormi la visione del film “Ghost”: da sognatrice, inguaribile romantica e ottimista quale sono, riesco ancora a sperare che la scena finale triste si trasformi miracolosamente in un lieto fine.
Cara Arianna,
Prima di tutto desidero ringraziarti per il tuo apprezzamento.
E poi permettimi di dirti che mi poni una domanda difficile: non sono il tipo da risposte o verità assolute e ho soprattutto tanti dubbi e tante domande, a mia volta.
Facciamo così: ti dirò semplicemente ciò che penso io, a titolo del tutto personale (come sempre, d’altro canto).
Secondo me, per qualsiasi evento umano è possibile fare degli inviti, incluso a una commemorazione.
E, sempre secondo me, tali inviti dovrebbero essere fatti in base a chi si ha piacere che sia presente a tale evento o cerimonia.
Ciò che a me non piace è che si usi un edificio pubblico – anzi, di culto religioso – per un evento dal sapore mondano.
Se avessero fatto detta commemorazione affittando una location privata, invitando chi volevano e lasciando fuori tutti gli altri, non avrei fatto nemmeno una piega e non mi sarei permessa di aprire bocca. Ma se si usa un edificio che è simbolo di un libero credo… beh, no, allora non ci sto e ho molto da dire e da eccepire.
Non è stato sbagliato invitare chi si voleva, è sbagliato il modo, è sbagliato avere la pretesa (prepotenza) che un luogo pubblico diventi privato, è sbagliato farlo in un posto che non è giusto trattare come una location da sfilata. E non parlo come credente, ma come persona rispettosa di qualsiasi luogo sacro.
E se c’erano VIP, se c’erano esigenze di privacy o di sicurezza… è ancora più sbagliato scegliere il Duomo di Milano!
Faccio un altro esempio.
Quando ci si sposa, si fa una lista di invitati e si addobba la chiesa, soprattutto i banchi centrali.
La buona educazione, la creanza o quant’altro dice a chi non è invitato di non sedersi in tali banchi, ma nessuno vieta di accedere alla messa se lo si vuole.
Vedi, Arianna cara, a volte penso di essere esagerata o troppo integerrima con il mio modo di pensare, poi, per fortuna, leggo certi articoli e mi sento meno sola (o meno strana o meno folle), sebbene pochi (pochissimi) abbiano avuto il coraggio di scrivere di tale messa.
Tra questi pochi intrepidi, cito la brava Cristiana Schieppati, giornalista e direttrice di Chi è chi, testata di moda, costume e attualità.
Mi rendo conto che citando e linkando il suo articolo scopro le carte (nel post qui sopra non ho appositamente scritto il nome della persona commemorata, la Schieppati lo dichiara invece molto apertamente), ma a questo punto direi che è giusto farlo.
A ogni modo: Cristiana è anche più severa di me e racconta nel suo articolo di «un evento dove la moda ha espresso sotto gli occhi di Dio la sua natura più cinica» e di come «ogni gesto, anche quello liturgico, è stato riassestato dal linguaggio di chi lavora in questo mondo».
Durissima la sua conclusione: «La paura di essere come tutti gli altri anche in un luogo di culto ha fatto si che più che una messa in ricordo di un defunto fosse uno dei tanti eventi inseriti in calendario per vedere chi c’era e chi no».
Ecco, questo è ciò che ha infastidito anche me. «Non un discorso, nessuno che abbia cantato insieme al coro, nessuno che abbia pregato a voce alta»: io l’ho fatto, Cristiana, ho pregato ad alta voce, fuori dalle transenne, fuori dall’area VIP, senza invito e presente per mia libera e autonoma scelta. Ma d’altro canto dico… ognuno risponda alla propria coscienza.
La Schieppati sottolinea anche l’increscioso errore di Monsignor Gianantonio Borgonuovo che ha confuso vivi e morti, errore che io avevo taciuto… Ma tant’è.
Di parere del tutto similare è un altro eminente giornalista che gode della mia massima stima: Antonio Mancinelli.
Nel suo meraviglioso blog (che consiglio vivamente) e in un post illuminante, Mancinelli scrive quanto segue. «All’interno, siamo smistati come in una sfilata – quelli con gli inviti numerati e quelli no, «Lei non ha l’ingresso vip? Che si metta in fila e rispetti il suo numero di panca!» – e invitati a disporci da sussiegose hostess, già catechizzate in precedenza a far rispettare gerarchie comprensibilissime in un défilé ma non così urgenti per commemorare una morta.»
Sottolineo: «gerarchie comprensibilissime in un défilé ma non così urgenti per commemorare una morta».
Ecco, credo che si possa concludere così.
Perché se lo dice una blogger-editor-qualcosa (io) è un conto, magari fa la vittima (?), ma se lo dice un giornalista che era in quel famoso (famigerato) elenco di invitati (credo)… beh, di cosa lo accuseranno, a questo punto?
Glittering comments
Hai scritto cose interessanti.
Domanda: ma a una commemorazione si può invitare chi si vuole?
Arianna
Cara Arianna,
Prima di tutto desidero ringraziarti per il tuo apprezzamento.
E poi permettimi di dirti che mi poni una domanda difficile: non sono il tipo da risposte o verità assolute e ho soprattutto tanti dubbi e tante domande, a mia volta.
Facciamo così: ti dirò semplicemente ciò che penso io, a titolo del tutto personale (come sempre, d’altro canto).
Secondo me, per qualsiasi evento umano è possibile fare degli inviti, incluso a una commemorazione.
E, sempre secondo me, tali inviti dovrebbero essere fatti in base a chi si ha piacere che sia presente a tale evento o cerimonia.
Ciò che a me non piace è che si usi un edificio pubblico – anzi, di culto religioso – per un evento dal sapore mondano.
Se avessero fatto detta commemorazione affittando una location privata, invitando chi volevano e lasciando fuori tutti gli altri, non avrei fatto nemmeno una piega e non mi sarei permessa di aprire bocca. Ma se si usa un edificio che è simbolo di un libero credo… beh, no, allora non ci sto e ho molto da dire e da eccepire.
Non è stato sbagliato invitare chi si voleva, è sbagliato il modo, è sbagliato avere la pretesa (prepotenza) che un luogo pubblico diventi privato, è sbagliato farlo in un posto che non è giusto trattare come una location da sfilata. E non parlo come credente, ma come persona rispettosa di qualsiasi luogo sacro.
E se c’erano VIP, se c’erano esigenze di privacy o di sicurezza… è ancora più sbagliato scegliere il Duomo di Milano!
Faccio un altro esempio.
Quando ci si sposa, si fa una lista di invitati e si addobba la chiesa, soprattutto i banchi centrali.
La buona educazione, la creanza o quant’altro dice a chi non è invitato di non sedersi in tali banchi, ma nessuno vieta di accedere alla messa se lo si vuole.
Vedi, Arianna cara, a volte penso di essere esagerata o troppo integerrima con il mio modo di pensare, poi, per fortuna, leggo certi articoli e mi sento meno sola (o meno strana o meno folle), sebbene pochi (pochissimi) abbiano avuto il coraggio di scrivere di tale messa.
Tra questi pochi intrepidi, cito la brava Cristiana Schieppati, giornalista e direttrice di Chi è chi, testata di moda, costume e attualità.
Mi rendo conto che citando e linkando il suo articolo scopro le carte (nel post qui sopra non ho appositamente scritto il nome della persona commemorata, la Schieppati lo dichiara invece molto apertamente), ma a questo punto direi che è giusto farlo.
A ogni modo: Cristiana è anche più severa di me e racconta nel suo articolo di «un evento dove la moda ha espresso sotto gli occhi di Dio la sua natura più cinica» e di come «ogni gesto, anche quello liturgico, è stato riassestato dal linguaggio di chi lavora in questo mondo».
Durissima la sua conclusione: «La paura di essere come tutti gli altri anche in un luogo di culto ha fatto si che più che una messa in ricordo di un defunto fosse uno dei tanti eventi inseriti in calendario per vedere chi c’era e chi no».
Ecco, questo è ciò che ha infastidito anche me.
«Non un discorso, nessuno che abbia cantato insieme al coro, nessuno che abbia pregato a voce alta»: io l’ho fatto, Cristiana, ho pregato ad alta voce, fuori dalle transenne, fuori dall’area VIP, senza invito e presente per mia libera e autonoma scelta. Ma d’altro canto dico… ognuno risponda alla propria coscienza.
La Schieppati sottolinea anche l’increscioso errore di Monsignor Gianantonio Borgonuovo che ha confuso vivi e morti, errore che io avevo taciuto… Ma tant’è.
Di parere del tutto similare è un altro eminente giornalista che gode della mia massima stima: Antonio Mancinelli.
Nel suo meraviglioso blog (che consiglio vivamente) e in un post illuminante, Mancinelli scrive quanto segue.
«All’interno, siamo smistati come in una sfilata – quelli con gli inviti numerati e quelli no, «Lei non ha l’ingresso vip? Che si metta in fila e rispetti il suo numero di panca!» – e invitati a disporci da sussiegose hostess, già catechizzate in precedenza a far rispettare gerarchie comprensibilissime in un défilé ma non così urgenti per commemorare una morta.»
Sottolineo: «gerarchie comprensibilissime in un défilé ma non così urgenti per commemorare una morta».
Ecco, credo che si possa concludere così.
Perché se lo dice una blogger-editor-qualcosa (io) è un conto, magari fa la vittima (?), ma se lo dice un giornalista che era in quel famoso (famigerato) elenco di invitati (credo)… beh, di cosa lo accuseranno, a questo punto?
Grazie ancora, cara Arianna.
Manu