In ricordo di Sarah Hegazi perché… gli altri siamo noi

C’è una notizia che mi tormenta da giorni.
È quella del suicidio della trentenne egiziana Sarah Hegazi (molte testate italiane scrivono Sarah Hijazi), attivista LGBTQ+.

Sarah viene arrestata nel 2017 nel suo Paese per aver alzato la bandiera arcobaleno al concerto della band libanese Mashrou’ Leila: agli amici racconta poi degli abusi, delle violenze e delle torture fisiche e psicologiche subite durante i due mesi in carcere.
Quando la rilasciano, Sarah viene pubblicamente additata per il suo gesto e per il suo orientamento sessuale: decide di lasciare l’Egitto e chiede protezione internazionale in Canada.
Le viene accordata e così lei parte, alla ricerca di un nuovo inizio: dal Canada continua a chiedere la liberazione degli attivisti nelle carceri egiziane.

Ma il dolore e il ricordo degli abusi subiti non passano: pochi giorni fa, Sarah Hegazi si è suicidata lasciando una lettera.

«To my siblings, I have tried to find salvation and I failed, forgive me.
To my friends, the journey was cruel and I am too weak to resist, forgive me.
To the world, you were cruel to a great extent, but I forgive.»

L’orrore generato dalla violenza ha vinto: il ricordo incancellabile ha infine sopraffatto Sarah.

Ed è successo mentre siamo nel Pride Month che si tiene a giugno di ogni anno dal 1970.
(Se non sapete perché: nel giugno 1969, la comunità LGBTQ+ fu protagonista di una serie di rivolte scoppiate in seguito a un raid della polizia di New York allo Stonewall Inn, club gay nel Greenwich Village. Un anno dopo la rivolta di Stonewall, l’attivista Brenda Howard ebbe l’idea degli eventi che oggi costituiscono il Pride Month.)

È successo mentre le umane ingiustizie continuano a mietere vittime.

È successo mentre ancora non vi sono né verità né chiarezza né giustizia per il nostro connazionale Giulio Regeni, torturato – e ucciso – a sua volta in Egitto nel 2016.
È successo mentre Patrick George Zaki, attivista egiziano e studente dell’Università di Bologna, resta in stato di detenzione preventiva anche lui in Egitto, per il suo lavoro in favore dei diritti umani e per le opinioni politiche espresse sui social media.

È successo quando non è trascorso nemmeno un mese (era il 25 maggio) dalla morte di George P. Floyd, l’uomo afroamericano che dopo quasi 9 minuti di agonia, nonostante con un filo di voce continuasse a ripetere «I can’t breathe», è stato soffocato dal ginocchio di Derek Chauvin, poliziotto bianco di Minneapolis in Minnesota, negli Stati Uniti.
La sua morte violenta e assurda ha scatenato proteste in tutti gli Stati Uniti e, a catena, in tantissime città nel mondo e in Europa, riportando al centro dell’attenzione il movimento attivista Black Lives Matter nato nel 2013.

Sembrerebbe, dunque, che intolleranza nonché odio razziale e religioso stiano soffocando il mondo.
Ci massacriamo gli uni con gli altri.
Inclusività… accettazione… rispetto… quando diventeranno parole più note, comuni e diffuse di intolleranza, razzismo, omofobia? Leggi tutto

Stato di salute e futuro della moda in tempi di coronavirus

Da tempo, ormai, si parla di quanto sia necessario rivedere il sistema attraverso il quale la moda viene presentata, prodotta, distribuita.

Per quanto riguarda la presentazione e soprattutto le sfilate, si discute animatamente soprattutto circa tempistiche e modalità.
Continuare a sfilare mesi prima come accade ora oppure adottare la modalità cosiddetta ‘see now, buy now’ con la vendita immediata di ciò che sfila? Far sfilare le collezioni moda e uomo separatamente oppure adottare la modalità co-ed, ovvero congiunta?
E poi… quanto servono le sfilate-spettacolo? Si punta troppo sul clamore a discapito dei capi?
E ancora: chi è seduto in prima fila (e sono sempre più influencer e nuove celebrità) distoglie l’attenzione facendo parlare – anche in questo caso – di chi è ospite più di quanto si parli della collezione?

Per quanto riguarda la produzione, si discute invece di delocalizzazione a discapito di produzioni specializzate, di produzione in Paesi dove non vengono rispettati i diritti umani, di filiere fuori controllo e non più sostenibili per il nostro pianeta.

Per quanto infine riguarda la distribuzione, si discute della crisi profonda dei negozi fisici, della crisi delle grandi catene storiche, dell’esasperazione che vuole che merce nuova sia messa in vendita a ciclo continuo senza durare nemmeno una stagione secondo il modello fast fashion che, ormai, influenza fortemente tutto il sistema e tutte le fasce della moda, indistintamente.
Senza parlare poi del discorso delle rimanenze di stagione, problema oneroso non solo economicamente ma anche dal punto di vista ambientale (leggere stock distrutti o meglio bruciati e anche in questo caso da tutti, brand del lusso inclusi).

Insomma, riassumendo: il sistema moda era in crisi da tempo. Tutto il sistema.
Stilisti costretti a sfornare una nuova collezione dietro l’altra (per soddisfare la smania di soldi delle holding finanziarie dalle quali sempre più spesso vengono inglobati) mentre modelle, giornalisti, compratori, fotografi girano il mondo senza sosta, vanificando gli appelli a una moda ecosostenibile; merce che approda nei negozi a ciclo continuo, tra sovrapproduzione di capi e mancato allineamento tra stagione commerciale e stagione climatica, con il risultato di restare spesso invenduta e generare pericolosi scarti da gestire.

Non è un mistero come molti (Giorgio Armani in testa) condannino da tempo tutto ciò, un sistema che fagocita ogni cosa, con ritmi sempre più serrati e insostenibili e nuova merce da dare in pasto a un mercato sempre più saturo.
Perfino lusso, alto di gamma e alta moda hanno spesso dimenticato i propri valori (qualità, durabilità, esclusività) per avvicinarsi – come ho detto – a un modello fast fashion nella speranza (o meglio nell’illusione) di vendere di più.

Io stessa, naturalmente nel mio piccolo, ho parlato varie volte di dette questioni, dalla delocalizzazione (qui) alla crisi di catene e negozi storici (qui) passando per l’illusione che alto di gamma sia sempre meglio di fast fashion (qui), dalle condizioni socialmente e ambientalmente insostenibili (qui) al gender gap (qui) passando per le sfilate-clamore che vanno oltre ogni limite di decenza (qui), giusto per citare alcuni argomenti dei quali ho provato a parlare negli anni.

Il problema, dunque, esisteva: il coronavirus ha spinto sull’acceleratore, facendo definitivamente esplodere le varie questioni in tutta la loro evidenza e gravità.

Leggi tutto

Pillole di mondo: la borsa vintage e i francobolli Sperry and Hutchinson

Scorcio della mia borsa e dei francobolli Sperry and Hutchinson

Oggi voglio raccontarvi una piccola storia curiosa.

Da tanti anni, ormai, faccio i miei acquisti non solo offline (nei negozi fisici) ma anche online (via web): uno dei primi canali che ho utilizzato è stato per esempio Etsy, marketplace di articoli che spaziano dai prodotti fatti a mano fino ai tesori vintage.
Ho un account da più di 10 anni, i miei primi acquisti risalgono al 2009 e sono grata a Etsy per avermi dato una splendida possibilità, quella di entrare in contatto con creativi di tutto il mondo senza sentirmi limitata da distanze fisiche e geografiche.
Oggi – lo confesso – demando questo compito soprattutto a Instagram che offre un’immediatezza e una facilità di ricerca davvero straordinarie: noto con piacere che molti account rimandano comunque a Etsy e ad altri marketplace similari.

Recentemente, attraverso Instagram, ho trovato una borsa Anni Cinquanta ricamata ad ago con un motivo di frutta e fiori: abitualmente, tali borse hanno dimensioni medio-piccole mentre questa ha colpito la mia attenzione per essere piuttosto grande oltre che per le sue ottime condizioni di conservazione.
Al suo interno, specificava la venditrice, c’è ancora il set originale composto da pettinino, specchio e portamonete.
Insomma, è scattato il colpo di fulmine e, dopo una breve trattativa, ho deciso di adottarla: quando la borsa è arrivata si è confermata un ottimo acquisto in quanto perfettamente rispondente alla descrizione, alle foto pubblicate e alle mie aspettative.
Al suo interno c’era il set specificato nonché un altro minuscolo dettaglio che diventa l’oggetto di questo post: tre piccoli francobolli verdi con la scritta Sperry and Hutchinson e la dicitura ‘discount or cash’.

Lo ammetto, non avevo mai visto simili francobolli ed è scattata la mia curiosità intellettuale: ho digitato il nome Sperry and Hutchinson in Google e mi si è aperto un mondo, quello che desidero condividere con voi, cari amici.

Ho scoperto che la Sperry and Hutchinson (in acronimo S&H) era una società fondata negli Stati Uniti nel 1896 da Thomas Sperry e Shelley Byron Hutchinson: la società era specializzata in francobolli commerciali, ovvero piccoli francobolli di carta dati ai clienti dai commercianti per concretizzare programmi di fidelizzazione che hanno preceduto le moderne carte fedeltà.

Singolarmente, i francobolli avevano un valore minimo equivalente a pochi millesimi di dollaro ma, quando un cliente ne accumulava un certo numero, essi potevano essere scambiati con premi quali giocattoli, oggetti personali, articoli per la casa, mobili ed elettrodomestici.
La Sperry and Hutchinson iniziò a offrire francobolli ai rivenditori statunitensi già dall’anno della propria fondazione: le organizzazioni di vendita al dettaglio che distribuivano i francobolli erano principalmente supermercati, stazioni di rifornimento di benzina e negozi che compravano i francobolli dalla S&H e li davano come bonus agli acquirenti in base all’importo dei loro acquisti. Leggi tutto

Io penso positivo: da Peter Lindbergh a Meghan Markle passando per Vogue

Il lancio della cover e del numero di settembre di British Vogue con gli scatti di Peter Lindbergh attraverso l’account Instagram del magazine

Il primo pensiero che ha attraversato la mia testa quando ho appreso della scomparsa di Peter Lindbergh è stato «non posso crederci».

Non me l’aspettavo (non vi era alcuna voce che potesse far temere per la sua vita) e non posso credere che lui non ci sia più perché, come ha ben scritto il mio amatissimo amico e maestro Stefano Guerrini in un suo post, «Mr. Lindbergh ci ha lasciato e di nuovo, dopo Franca, Anna, Isabella, Karl, sento che il mondo dal quale sono stato attratto e che mi ha fatto sognare è finito».

Franca, Anna, Isabella, Karl sono Franca Sozzani, Anna Piaggi, Isabella Blow, Karl Lagerfeld, ovvero alcune delle sue (e delle mie) icone in un mondo – quello della moda – sempre più orfano di personalità magari un po’ ingombranti ma indubbiamente straordinarie e sempre più pieno, invece, di personaggi vacui che fondano la loro celebrità su un’apparenza priva di qualsiasi spessore.

Alla luce di tutto ciò, capisco che una domanda potrebbe attraversare i pensieri di chi sta leggendo queste parole: «perché stai allora intitolando questo post ‘Io penso positivo’? Come si sposano la positività e la scomparsa di un grande fotografo?».

Avete tutte le ragioni per farvi (e farmi) questa domanda e io desidero rispondervi: non voglio che la tristezza vinca, non voglio salutare Peter Lindbergh tra le lacrime, non voglio che il legittimo cordoglio prevalga sullo straordinario lascito e sulla preziosa lezione che ci ha regalato attraverso il lavoro e il pensiero di tutta una vita.

E non voglio in fondo pensare che quel certo mondo tanto amato da Stefano e da me sia davvero finito.

Desidero invece rendergli omaggio con un post che, in realtà, era in programma già prima delle vacanze estive per raccontare quello che ora è diventato uno degli ultimi lavori di Peter Lindbergh, ovvero la copertina del numero di settembre di British Vogue intitolato ‘Forces for Changes’ e che vede come guest editor Meghan Markle, Sua Altezza Reale la Duchessa di Sussex.

Il post era già in programma, ebbene sì, e infatti, dopo l’incredulità, il secondo pensiero che mi ha attraversato la testa è stato «la vita sa essere davvero beffarda, strana, ironica». Leggi tutto

The Fashion Experience Milano, conoscere la verità su ciò che indossiamo

Recentemente, dopo aver visto “Fashion Victims”, il docu-film girato da Chiara K. Cattaneo e Alessandro Brasile e proiettato a Milano grazie all’organizzazione Fashion Revolution, ho deciso di farmi carico di un impegno ben preciso.

Il documentario è ambientato nel Tamil Nadu, ovvero uno dei 29 stati che compongono l’India: questo stato si trova nel sud del Paese e qui milioni di adolescenti e di giovani donne lavorano nell’industria tessile, dalla filatura alla tessitura del cotone fino alla confezione di capi di abbigliamento, per il mercato locale e internazionale.

Mentre guardavo quelle giovanissime donne che vivono in condizioni di quasi schiavitù (in realtà poco più che bambine e alcune della stessa età di mia nipote, 11 anni), ho sentito che il torrente che cercavo da tempo e in qualche modo di arginare si è trasformato in un fiume in piena: purtroppo, nella moda che tanto amo (e nel sistema moda del quale sono membro in qualità di editor e docente di editoria) c’è un evidente problema che fa diventare incubo ciò che dovrebbe essere sogno.
Ed è un incubo per quelle ragazze, certo, ma anche per tutti coloro che – come me – credono nella moda come in qualcosa che va o che dovrebbe andare oltre il profitto e che invece causa sofferenza e, in alcuni casi, addirittura morte.

Dalla dolorosa esperienza della visione di “Fashion Victims” è nato un lungo post pubblicato qui nel blog (non il mio primo su tale argomento ma sicuramente il più deciso finora): visto che è un argomento al quale tengo molto e sul quale non ho alcuna intenzione di arrendermi, ho preso l’impegno con me stessa e con chi mi fa il dono di leggere ciò che scrivo di continuare a parlare di etica e sostenibilità in ambito moda.

Ringrazio pertanto ADL Mag (il magazine della scuola in cui insegno) e soprattutto Barbara Sordi, la nostra direttrice, per avermi dato l’opportunità di parlare nuovamente del documentario e di Fashion Revolution in un secondo articolo, con una sfaccettatura diversa rispetto a quanto avessi appunto già fatto qui nel blog e un taglio meno emozionale ma spero altrettanto deciso e incisivo.

Oggi torno nuovamente a parlare di moda etica e sostenibile grazie a Mani Tese: dal 21 al 30 giugno a Milano, la ONG (organizzazione non governativa) che da oltre 50 anni si batte per la giustizia nel mondo offre a noi tutti l’opportunità di partecipare a THE FASHION EXPERIENCE, un’esperienza interattiva che ci permette di scoprire ciò che si nasconde dietro gli indumenti che indossiamo tutti i giorni.

«L’obiettivo di THE FASHION EXPERIENCE è quello di diffondere la consapevolezza sui rischi sociali e ambientali della cosiddetta Fast Fashion – dichiara Giosuè De Salvo, Responsabile Advocacy, Educazione e Campagne di Mani Tese – promuovendo modelli o processi d’impresa che siano in grado di assicurare, da una parte, il rispetto dei diritti delle persone che lavorano lungo la filiera globale dell’abbigliamento e, dall’altra, di proteggere risorse naturali fondamentali quali fiumi, mari e terre fertili.» Leggi tutto

Fashion Victims, quelle VERE vivono, lavorano (e soffrono) in India

Era il 24 aprile 2013 quando il Rana Plaza, edificio commerciale di otto piani, crollò a Savar, sub-distretto di Dacca, la capitale del Bangladesh.
Le operazioni di soccorso e ricerca si conclusero con un bilancio dolorosissimo: 1.134 vittime e circa 2.515 feriti per quello che è considerato il più grave incidente mortale avvenuto in una fabbrica tessile nonché il più letale cedimento strutturale “accidentale” nella storia umana moderna.
Com’è tragicamente noto, il Rana Plaza ospitava alcune fabbriche di abbigliamento, una banca, appartamenti e numerosi negozi: nel momento in cui furono notate delle crepe, i negozi e la banca furono chiusi, mentre l’avviso di evitare di utilizzare l’edificio fu ignorato dai proprietari delle fabbriche tessili.
Ai lavoratori venne addirittura ordinato di tornare il giorno successivo, quello in cui l’edificio ha ceduto collassando – e per questo ho messo “accidentale” tra virgolette…

Lo voglio ripetere: nel crollo, persero la vita 1.134 persone e ci furono oltre 2.500 feriti.

Molte delle fabbriche di abbigliamento del Rana Plaza lavoravano per i grandi committenti internazionali e questo orribile sacrificio di vite umane ha squarciato il velo di omertà che copriva, a mala pena, pratiche che moltissimi, in realtà, conoscevano da tempo e fingevano di non vedere.

Chi ha buona memoria, ricorderà forse che di tutto ciò ho già scritto lo scorso anno; continuerò a farlo, continuerò a scriverne finché sarà necessario, fino a quando non ci sarà un vero cambiamento, così come continuerò (anche questo come ho già fatto l’anno scorso) a scrivere di Fashion Revolution, il movimento presente in 102 Paesi nel mondo che è stato fondato da Carry Somers (stilista per oltre 20 anni con il brand Pachacuti che ha rivoluzionato il concetto di trasparenza nell’ambito della catena produttiva nella moda) e da Orsola de Castro (voce autorevole della moda sostenibile con il suo marchio From Somewhere fondato sul concetto di upcycling).

Nel 2013, dopo la tragedia del Rana Plaza, Carry e Orsola hanno deciso di fondare Fashion Revolution, organizzazione che conduce una costante campagna di sensibilizzazione rivolta soprattutto al consumatore finale: promossa attraverso stampa e social media, prevede eventi che siano mirati a promuovere il concetto di moda etica e di sostenibilità.

Nell’ottica di tale campagna e insieme a Fashion Film Festival Milano nonché in occasione della Fashion Revolution Week 2019 (22-28 aprile), Fashion Revolution ha promosso martedì 23 aprile la proiezione di “Fashion Victims”, docu-film di Chiara Ka’Hue Cattaneo e Alessandro Brasile.

Il documentario “Fashion Victims” è ambientato nel Tamil Nadu, ovvero uno dei 29 stati che compongono l’India: questo stato si trova nel sud del Paese e qui milioni di adolescenti e di giovani donne lavorano nell’industria tessile, dalla filatura alla tessitura del cotone fino alla confezione di capi di abbigliamento, per il mercato locale e internazionale. Leggi tutto

Perché a qualcuno potrebbe o dovrebbe «fregare» di andare a Lione

Sì, lo so: si parla da moltissimo tempo della ferrovia Torino – Lione, generalmente definita TAV (da treno ad alta velocità sebbene sarebbe in realtà una linea mista) e che andrebbe ad affiancare la linea storica già esistente tra la città italiana e quella francese.
Se ne parla spesso, tra infinite polemiche e malintesi, tra pro e contro, tra favorevoli e contrari; eppure confesso che, quando ho deciso di passare un paio di giorni proprio a Lione, non sapevo nulla della esternazione del nostro Ministro Toninelli.
Mi era sfuggito che, durante la trasmissione Coffee Break su La7, la mattina dello scorso 4 febbraio, il Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti del Governo Conte avesse dichiarato «Chi se ne frega di andare a Lione, lasciatemelo dire».
L’ho scoperto solo quando, instagrammando foto delle mie giornate lionesi, una persona simpatica e sempre piacevolmente ironica ha commentato: «Toninelli ti chiederebbe ‘ma che ci fai mai a Lione’… tu la risposta ce l’hai».

A Lione ci sono andata per accompagnare mio marito che doveva partecipare a un concorso internazionale di modellismo: per la precisione, Enrico costruisce e dipinge figurini e miniature storiche e fantasy.
E ci sono andata, anzi, tornata volentieri in quanto serbavo un ottimo ricordo della città che avevamo già visitato nel 2014: l’ho riscoperta anche più piacevole di quanto già fosse nei miei ricordi, con un’atmosfera vitale e frizzante che mi piace molto.

Parrebbe quindi, caro Ministro Toninelli, che vi sia qualche folle al quale andare a Lione interessi e che trova addirittura varie motivazioni per farlo.

Ora – non ho alcuna intenzione di scendere nel merito della questione della ferrovia Torino – Lione.
Né voglio parlare di politica o – meglio ancora – non desidero schierarmi pro o contro nessun partito.
E non avevo minimamente pensato di scrivere un post sul mio breve soggiorno ma, riguardando le foto che ho scattato a Lione, mi sono detta che l’esternazione del Ministro Toninelli era davvero infelice e ingiusta quanto fuori luogo.
Di conseguenza, se avete voglia di venire con me, ho il desiderio di condividere con voi qualche parola e qualche foto, senza alcuna polemica ma solo per elencare i motivi (oltre a quelli personali e soggettivi che ho finora citato) per i quali a qualcuno (o a molti) potrebbe invece «fregare» – eccome! – di andare a Lione.

Leggi tutto

Starbucks Milano, innovazione e tradizione con focus sul Made in Italy

L’esterno di Starbucks Milano (ph. courtesy ufficio stampa)

È uno degli argomenti più gettonati di questo rientro post vacanze alquanto caldo (metaforicamente e letteralmente, visto il tempo degno del mese di luglio): Starbucks Milano è ufficialmente aperto ed è il primo punto vendita italiano della celeberrima insegna americana fondata nel 1971 da Howard Schultz il quale, negli anni, ha colonizzato il mondo (anche in questo caso quasi letteralmente…) con oltre 28.000 caffetterie in 78 paesi.

Nelle redazioni dei giornali, l’opening fa scorrere fiumi di inchiostro e fa ticchettare allegramente i tasti dei pc; attraverso i vari social, da Facebook a Twitter passando per Instagram, favorevoli e contrari battibeccano più o meno animatamente; intanto, in piazza Cordusio, davanti al palazzo che in passato ospitava le Poste, c’è coda fissa per prendere un caffè – e si parla di ore di attesa.

Io non ci sono ancora stata, poiché vi confesso che spararmi detta coda non mi attrae nemmeno un po’: sicuramente, però, ci andrò appena sarà scemata la mania dei primi giorni e ci andrò perché a me Starbucks piace.
Sono stata in tanti loro locali in vari paesi e sono felice che abbiano scelto la mia città come punto di partenza di una strategia che era destinata ad approdare anche qui da noi in Italia: era solo una questione di tempo e, tra l’altro, Starbucks Milano è ora il più grande store d’Europa (2.300 metri quadri) nonché il terzo al mondo (dopo Seattle e Shanghai) e porta per la prima volta nel vecchio continente il format della Roastery (ovvero torrefazione), la versione lusso – diciamo così – del locale con la classica insegna al neon bianca e verde alla quale, chi lo frequenta, è abituato.

Da fuori, lo storico palazzo delle Poste sembra essere sempre lo stesso: l’insegna del nuovo Starbucks è nera, discreta, direi elegante (come potete vedere dalla foto di apertura), e dà perfino poco nell’occhio se non fosse per i tavolini all’esterno che fanno invece subito comprendere la presenza di una caffetteria.
Da orgogliosa nativa e abitante del capoluogo lombardo, tutto ciò – l’attenzione verso Milano – mi fa piacere: francamente, se proprio ve lo devo dire, non comprendo le polemiche e ai brontoloni (lo scrivo con affetto e simpatia, sia chiaro) vorrei dire che… anche questo è cambiamento e crescita.

Cerchiamo di vedere il lato buono di questa novità: l’importante è non farsi tiranneggiare e conservare anche ciò che è nostro, ma la convivenza di tradizione e innovazione è possibile e a me piace.
Non per nulla, in principio, ho scelto il verbo colonizzare: so che questo è esattamente ciò che pensano molti, ci facciamo colonizzare, ma oggi desidero raccontarvi un paio di cose che spiegano il titolo che ho scelto per tale post e che avvalorano la mia tesi, ovvero come tradizione e innovazione possano convivere in buona armonia, come possano aiutarsi a vicenda e come sia possibile conservare ciò che è nostro pur accogliendo un’insegna che si trova in tutto il globo. Leggi tutto

Quando Rolling Stone ci invita a fare la nostra scelta…

Quella che vedete qui sopra è la copertina di luglio 2018 di Rolling Stone Italia, in edicola da oggi.
E io vorrei dire qualcosa in merito, soprattutto a chi sostiene che tale copertina sia esagerata, fuori luogo, populista, demagogica, sinistroide. Che si tratti di sciacallaggio, come ho letto da qualche parte.
Quel qualcosa che desidero dire non sono parole mie: le prendo in prestito dal tedesco Martin Niemöller (1892 – 1984), teologo, pastore protestante e oppositore del nazismo.
Le parole – che mi fanno pensare ogni volta in cui le rileggo – sono queste.

«Quando i nazisti presero i comunisti,
io non dissi nulla perché non ero comunista.
Quando rinchiusero i socialdemocratici,
io non dissi nulla perché non ero socialdemocratico.
Quando presero i sindacalisti,
io non dissi nulla perché non ero sindacalista.
Poi presero gli ebrei,
e io non dissi nulla perché non ero ebreo.
Poi vennero a prendere me.
E non era rimasto più nessuno che potesse dire qualcosa.»

Ho scelto i versi originari e originali di Martin Niemöller, ma esistono diverse versioni e anche interpretazioni e reinterpretazioni.
Le sue parole risultano così forti da aver avuto influenza su molte opere venute in seguito, come la canzone Yellow Triangle del cantante di musica folk irlandese Christy Moore; anche il duo musicale scozzese Hue and Cry ha parafrasato la poesia in una propria canzone e i versi hanno avuto un peso anche per la canzone Emigre del gruppo punk statunitense Anti-Flag.

Quando le scrisse, Niemöller si riferiva all’inattività degli intellettuali tedeschi in seguito all’ascesa al potere dei nazisti e agli obiettivi da loro scelti, gruppo dopo gruppo; la poesia è in seguito diventata un monito contro il pericolo dell’apatia sociale e politica, per sottolineare come essa possa trasformarsi in qualcosa che si ritorce proprio contro chi pensa di non essere toccato da certi fenomeni.
Contro chi è indifferente, apatico, chiuso nel proprio guscio che crede sia una protezione.

Io non desidero affatto dirvi cosa dovete pensare, amici che state leggendo.
Cerco di non farlo mai, in nessun ambito e su nessun argomento: mi limito a esporre il mio punto di vista e a esporre quante più possibilità mi vengono in mente.

Non sono dunque qui per dirvi se abbia ragione Matteo Salvini, Rolling Stone Italia o chi si schiera contro la rivista.
Non vi sto dicendo da quale parte stare, vi dirò semplicemente cosa farò io.

Io che credo nella libertà (a partire da quella di parola e di stampa) e che amo i diritti, io che i diritti li voglio per tutti (come ho scritto nel 2015 qui e nel 2016 qui), io che credo nelle persone di buona volontà e di pensiero indipendente, che siano di destra o di sinistra, bianche o nere, omosessuali o eterosessuali, italiane o straniere, io che amo il mio Paese e che lo vorrei vedere progredire veramente; domani, io che ho tutto ciò nella testa e nel cuore, andrò in edicola, comprerò Rolling Stone Italia e lo leggerò (qui trovate un’anticipazione, se volete).
Non solo: continuerò sempre a informarmi e continuerò sempre a tenere testa e cuore aperti.
Darò sempre a me stessa una, dieci, cento possibilità.

E vi dirò anche cosa non farò.

Io non mi farò rinchiudere in un recinto, anzi, non mi ci rinchiuderò da sola, non resterò indifferente, non farò finta che vi siano categorie umane alle quali non appartengo.
O che non mi interessano o che mi infastidiscono o che disturbano i miei interessi.
Io non penserò di essere protetta dal fatto di essere cittadina italiana figlia di cittadini italiani e discendente di cittadini italiani, non mi sentirò protetta dal fatto di essere bianca, di religione cattolica anche se non praticante, eterosessuale e coniugata.
Io non crederò che esista guscio che possa proteggermi.

Rolling Stone è stato fondato negli Stati Uniti 51 anni fa come periodico di musica, politica e cultura di massa.
Dal 1967 porta avanti i concetti di intrattenimento e di impegno sociale: è fallibile, come qualsiasi opera e associazione umana, ma ha tanta passione da darsi lo slogan «Sulla pietra che rotola non cresce il muschio».

Ovvero chi rifiuta di stare fermo sulle proprie posizioni, chi continua a muoversi… chi fa tutto ciò impedisce che il cervello si atrofizzi imprigionato dal muschio dell’indifferenza, dell’inattività, dell’apatia, della pigrizia, dell’indolenza, della paura.

E io chiedo questo, a me e a voi: diamo a noi stessi una chance, non aspettiamo di voltarci e di non trovare anima viva attorno a noi.
Io vedo in tutto ciò, nella copertina di Rolling Stone, un’occasione, una possibilità.
L’importante è non tacere, perché non prendere posizione e non avere un’opinione è cosa che mi terrorizza più di qualsiasi scelta, sicuramente molto più di una persona che la pensi in maniera diametralmente opposta alla mia.

Manu

Ridefinire il Passato, ovvero parte l’edizione 2018-19 di Ridefinire il Gioiello

Lo confesso, sono tra coloro che pensano che sia l’uomo a rendere preziosa la materia attraverso il suo lavoro e non il contrario.

Questo pensiero mi guida in tutto ciò che faccio e in tutto ciò che scelgo di presentare, qui nel blog e attraverso il mio lavoro di editor.
Non sono una sostenitrice a ogni costo dei materiali nobili e della loro preziosità intrinseca (che spesso è preziosità economica e commerciale) e, al contrario, sostengo con convinzione che i materiali alternativi – quelli cosiddetti poveri oppure di riuso, di recupero, di riciclo o ancora estrapolati dalla loro funzione principale, come ho narrato per esempio in un recente post su Brandina, marchio che usa le tela dei lettini da mare per creare borse – siano in grado di dare le soddisfazioni più grandi, di creare la magia.

Tutto ciò è anche dovuto al fatto che attribuisco all’essere umano un ruolo fondamentale: è l’uomo con la sua azione, il suo operato, il suo intervento, la sua maestria, la sua intelligenza, la sua fantasia, la sua creatività e la sua capacità di guardare oltre a trasformare, plasmare, forgiare, elevare e, in molti casi, dare nuova dignità ai materiali, trasformandoli in oggetti compiuti, in qualcosa di intrigante o anche provocatorio.

Ed è proprio in quest’ottica che, dal 2014, sono tra i media partner di un concorso che si chiama Ridefinire il Gioiello.

Nato nel 2010 a cura di Sonia Patrizia Catena, il progetto è cresciuto edizione dopo edizione, diventando negli anni un importante punto di riferimento nella sperimentazione sul gioiello contemporaneo, di design e d’arte nonché un’interessante vetrina per artisti e designer.
È un progetto itinerante che promuove creazioni esclusive, selezionate dalla giuria e dai partner per aderenza a un tema sempre diverso nonché per ricerca, innovazione, originalità ideativa ed esecutiva: gioielli tra loro molto diversi per materiali impiegati (naturali, tecnologici, organici e inorganici ma non oro o argento se non per piccole minuterie) vengono uniti di volta in volta grazie a una tematica comune, sempre interessante e stimolante.

A fare la differenza e a dare il valore aggiunto è dunque l’idea, così come avverrà anche per la settima edizione di Ridefinire il Gioiello che vado oggi a presentare e introdurre.

L’edizione 2018 – 19 prende il nome di Ridefinire il Passato e chiede agli artisti di pensare e progettare un gioiello che valorizzi la memoria delle creazioni esposte al Museo del Bijou di Casalmaggiore.

Leggi tutto

Valentina Cortese, splendido omaggio alla diva allo Spazio Oberdan

Valentina Cortese – Roma 1973 – foto Pierluigi

L’ho scritto in varie occasioni: reputo che, oggi, parole come icona e mito siano spesso abusate e applicate a persone, situazioni e cose che, in realtà, non sono né iconichemitiche.
Pensate che io sia un po’ troppo severa?
E allora permettetemi di farmi perdonare parlandovi di qualcuno che è davvero una icona e un mito, di qualcuno che è una grande diva: Valentina Cortese.

Nata a Milano (ma originaria di Stresa, sul Lago Maggiore) il primo gennaio 1923 (e dunque oggi 95enne), Valentina Cortese è stata una delle attrici di punta del cinema italiano degli Anni Quaranta assieme ad Alida Valli e Anna Magnani.
Da allora, la sua carriera è stata in costante ascesa: l’elenco dei suoi film e dei suoi lavori teatrali è pressoché infinito e ha lavorato con registi immensi tra i quali Michelangelo Antonioni, Vittorio Gassman, Federico Fellini, Mario Monicelli, Franco Zeffirelli, François Truffaut, Giorgio Strehler, giusto per fare alcuni nomi.
Forse non si dovrebbe mai dire l’età di una donna e soprattutto di una diva, ma io credo che nel suo caso sia un valore aggiunto nel percorso di una persona straordinaria, vera icona di stile e star internazionale, da Cinecittà a Hollywood passando per il Piccolo Teatro di Milano.

Vi sto parlando di lei perché, fino a fine agosto, lo Spazio Oberdan di Milano ospita una bellissima mostra intitolata Valentina Cortese – La diva, un progetto di Elisabetta Invernici e Antonio Zanoletti.

La mostra – a ingresso gratuito – comprende oltre 30 scatti dei più grandi fotografi italiani e stranieri che raccontano la storia privata e pubblica di Valentina Cortese, simbolo di carisma e di eleganza.

La sua è una carriera lunga ben 70 anni, trascorsa calcando le scene di set e teatri al fianco dei più grandi registi, come vi accennavo, con un piglio e una professionalità che la rendono unica.
Visionaria e, al tempo stesso, dotata di quella concretezza artigianale indispensabile in ogni lavoro artistico, Valentina Cortese testimonia con la sua vita di donna e di attrice l’autorevolezza e la dignità di chi ha saputo farsi rispettare nel privato e nel pubblico, battendosi in prima persona per l’emancipazione femminile.

Le immagini in mostra sono sia a colori sia in bianco e nero, con la sorpresa di tre ritratti inediti scattati da Giovanni Gastel nell’estate del 2013 e che costituiscono l’immagine ufficiale più recente della diva.

Ma non è finita qui: oltre alla mostra, l’omaggio allo Spazio Oberdan prevede anche altro. Leggi tutto

E anche Monsieur Hubert de Givenchy ci lascia in un mondo ora più triste

Hubert de Givenchy e Audrey Hepburn, 1983, foto © Joe Gaffney (sito e account Instagram)

Una settimana: tanto è passato da quando, pranzando con una persona che stimo, si parlava di quanto risulti difficile per chi lavora nella moda rassegnarsi davanti al tempo che passa, mettendosi da parte e andando in pensione.

Sabato scorso, seduti al tavolino di un posticino accogliente, io e A. citavamo vari esempi, tra stilisti e giornalisti, e io gli esponevo una mia teoria: il motivo per cui in questo settore non ci si rassegna facilmente all’idea della pensione è che la moda è un lavoro fatto di una passione che spesso finisce per diventare totalizzante, sia che si crei concretamente (abiti) sia che si crei virtualmente (attraverso le parole).
E gli ho confessato come immagini già me stessa 70enne ancora intenta a girare – ahimè – per sfilate, presentazioni e press day in cerca di bellezza, creatività e genialità…

Seduti a quel tavolo, nessuno di noi due poteva immaginare come in quello stesso giorno – il 10 marzo – si stesse spegnendo uno dei più grandi couturier di tutto il Novecento, Hubert James Marcel Taffin de Givenchy, aristocratico di nascita ma soprattutto di modi, classe 1927, fondatore nel 1952 e a soli 25 anni della nota e prestigiosa casa di moda che porta il suo nome, Givenchy.
E con Hubert de Givenchy scompare purtroppo uno degli ultimi testimoni dell’epoca d’oro della Haute Couture francese; scompare un autentico gentiluomo che ha vestito donne bellissime e che sono state elegantissime anche grazie a lui.
Alto oltre due metri e slanciato, molte di quelle donne l’hanno descritto come uno degli uomini più seducenti mai incontrati.

A dare la triste notizia al mondo è stato Philippe Venet, il compagno dello stilista: il fatto che sia morto nel sonno, a 91 anni e dopo averci lasciato creazioni indimenticabili, non mi consola affatto.
Anzi, al contrario, mi addolora e mi fa sentire irrimediabilmente defraudata perché, insieme a uomini come Givenchy, scompare sempre più un mondo, scompare un modo di fare e intendere la moda, sebbene mi piace pensare (o sperare…) che quel certo concetto di eleganza che lui ha contribuito a creare sopravvivrà nel tempo.

Vi chiederete però perché io stia legando Givenchy all’aneddoto personale raccontato in principio: perché, nel 1988, il couturier aveva venduto la sua maison alla holding francese LVMH continuando a firmare le collezioni fino al 1995, anno del suo definitivo ritiro.
Lui, dunque, aveva saputo farsi da parte, senza clamore e senza chiasso, e in questa capacità – occorre ammetterlo – ha dimostrato ancora una volta un’eleganza sottile e suprema.
«Ho smesso di fare vestiti ma non di fare scoperte», aveva dichiarato, e credo non vi sia nulla da aggiungere.

Mettersi da parte non deve essere stato facile per un uomo del suo calibro, ma volete sapere una cosa?
Due anni prima, nel 1993, Hubert de Givenchy aveva vissuto un dolore davvero immenso e tangibile: il 20 gennaio di quell’anno era infatti scomparsa Audrey Hepburn, sua musa e amica per lunghissimi anni, quaranta, per l’esattezza. Leggi tutto

Pillole dalla mia #MFW: Alberto Zambelli FW 2018 – 19

Estratto dalla collezione Alberto Zambelli FW 2018 – 19

A volte, vorrei proprio essere capace di portare indietro il tempo, riavvolgendolo su sé stesso esattamente come si faceva con i nastri delle musicassette che ascoltavo quand’ero ragazzina.
Mi piacerebbe riavvolgere il tempo per poter rivivere la stagione d’oro della moda e in particolare gli ultimi trent’anni del Novecento, i tempi che sono i protagonisti assoluti della grande mostra che si sta tenendo a Palazzo Reale a Milano (Italiana, l’Italia vista dalla moda 1971 – 2001 aperta fino al 6 maggio) nonché i tempi in cui grandi giornaliste vivevano a stretto contatto con i più grandi stilisti.
E quando parlo di grandi giornaliste mi riferisco a figure del calibro della rimpianta Anna Piaggi oppure alla sua amica e collega Anna Riva, donna instancabile e incredibile che ho la fortuna di incrociare di tanto in tanto in occasione di qualche conferenza stampa.

In quegli anni d’oro in cui il Made in Italy trovava la definitiva consacrazione, molti stilisti oggi universalmente celebri muovevano i primi passi e professioniste integerrime e appassionate come la Piaggi e la Riva erano chiamate a dar loro consigli, suggerimenti, conferme, in uno scambio autentico e diretto: nasceva una sorta di simbiosi creativa che ha avuto come risultato la nascita di grandi icone della moda.
Me lo concedete? Rimpiango quello scenario e quei tempi poiché viverli deve essere stato straordinariamente stimolante, per gli stilisti e per coloro che hanno avuto la fortuna di affiancarli, vedendoli crescere e contribuendo a lanciarli.
Ho bene in mente quando la signora Riva, con grande generosità, mi ha raccontato di come sia stata consigliera di alcuni grandi nomi e ricordo altrettanto bene la giornalista Giusi Ferré fare racconti simili in occasione di un seminario in Accademia del Lusso.

Credo che per chi come me ha trovato la propria dimensione non nel creare la moda bensì nel comunicarla, nulla sia più desiderabile che avere l’opportunità di vivere quello scambio diretto.
Ecco perché tornerei indietro ed ecco perché mi rattrista vedere che tra i giovanissimi che aspirano a seguire le orme dei più grandi giornalisti non esiste più (o quasi) tale ambizione: molti non fanno altro che continuare a scrivere ossessivamente ed esclusivamente degli ormai soliti noti. Dov’è il coraggio di osare nuove strade?
Poi, mi dico che – forse – devo solo avere pazienza perché, in questi anni, ho avuto la fortuna di confrontarmi con parecchi stilisti che, a mio avviso, hanno tutte le carte in regola: forse, avrò il privilegio di vedere finalmente brillare i nomi di coloro che ho seguito fin dagli esordi in ambiti ancora più elevati, nella speranza che finalmente si realizzi il tanto necessario e auspicabile cambio generazionale.

Tra questi nomi figura senza dubbio quello di Alberto Zambelli, stilista talentuoso ma anche persona con una spiccata sensibilità – umana e artistica – capace di condurlo sempre oltre, perfino oltre ogni mia più rosea aspettativa.

Ogni volta in cui penso «Alberto non potrà sorprendermi oltre», ecco che lui, invece, riesce a farlo: è esattamente ciò che è successo anche in occasione della recentissima Milano Fashion Week durante la quale sono state presentate le collezioni per il prossimo autunno / inverno.

La collezione Alberto Zambelli FW 2018 – 19 parte da un pensiero: ogni essere umano è unico, nessuno è identico a un altro.
Individualità, personalità, unicità ci caratterizzano, tuttavia esiste qualcosa che ci fa smettere di essere tanti singoli, tante isole, esiste qualcosa che ci mette in connessione con i nostri simili per diventare collettività: questo qualcosa è l’abbraccio, un gesto semplice quanto primordiale che ricompone due singoli, che unisce ciò che è fisicamente separato.

«Siamo angeli con un’ala soltanto e possiamo volare solo restando abbracciati.»
Così declamava uno dei personaggi in un famoso film di Luciano De Crescenzo (Così parlò Bellavista) e nello stesso modo la pensa Alberto che trasferisce la gestualità dell’abbraccio negli abiti, attraverso un linguaggio fatto di rappresentazioni figurative e di materiali avvolgenti che si incontrano. Come avviene, appunto, in un abbraccio che unisce due metà.

La naturalezza dell’abbraccio viene così tradotta in capispalla sartoriali, caldi e avvolgenti; fasce che percorrono abiti e top e strutture tridimensionali simili a origami si palesano come braccia che stringono il corpo in una stretta morbida e calorosa.
Trasformando il gesto in rappresentazione grafica, Alberto ha inoltre creato stampe dal gusto rigoroso che si ritrovano su abiti, gonne e bluse nonché preziosi ricami in cristalli.
Ho apprezzato l’uso del jersey bianco, tecnico eppure al tempo stesso confortevole e femminile; mi piace anche il fatto che la quasi perfetta neutralità della collezione dal punto di vista dei colori (che sono sobri e moderati) conviva in perfetta armonia con interventi inattesi e decisi, estrosi e frizzanti.
Cito, per esempio, le fasce in visone colorato (in tinte che Alberto ama definire cielo e melone) oppure i calzettoni con la scritta hug, abbraccio.

Vi ho incuriositi? Lo spero e vi invito allora a guardare tutta la collezione Alberto Zambelli FW 2018 – 19 qui: spero che vi dia emozione, perché a me ne ha data.

Così come ho provato emozione in backstage quando, allungando le braccia verso di me e sfoderando il suo bel sorriso, Alberto mi ha detto «abbracciamoci»: la mia speranza che possa esserci una nuova stagione d’oro della moda italiana si è rinnovata, una stagione in cui chi crea e chi racconta possano lavorare insieme nell’ottica di un amore comune – quello verso il bello e il ben fatto.

Alberto è maestro in questo e io sono felice di esserne fedele testimone, collezione dopo collezione.

Manu

Qui trovate il sito, qui la pagina Facebook e qui l’account Instagram di Alberto Zambelli.

Se volete leggere i miei post sulle precedenti collezioni di Alberto Zambelli: qui trovate un assaggio della sua collezione nel mio reportage complessivo sulla primavera / estate 2018; qui trovate un assaggio della sua collezione nel mio reportage complessivo sull’autunno / inverno 2017-18; qui trovate il post sulla collezione autunno / inverno 2016 – 17; qui quello sulla collezione primavera / estate 2016; qui quello sulla collezione autunno / inverno 2015 – 16; qui quello sulla collezione primavera / estate 2015; qui quello sulla collezione autunno / inverno 2014 – 15; qui quello sulla collezione primavera / estate 2014.

Pillole dalla mia #MFW: Mario Valentino FW 2018 – 19

Dalla presentazione della collezione Mario Valentino FW 2018 – 19 © Marco Scarpa

Qualche settimana fa, precisamente il 6 febbraio, sono stata in Triennale dove è stato presentato uno splendido volume attraverso il quale viene ricostruita l’intensa avventura di Mario Valentino, uno dei protagonisti della moda italiana tra gli Anni Cinquanta e gli Ottanta: la ricostruzione avviene grazie alla lettura del prezioso patrimonio documentario raccolto nell’archivio della sua azienda avviata sin dagli inizi del Novecento dal padre Vincenzo nel cuore di Napoli.

Dopo aver raccontato parte della storia meravigliosa di Mario Valentino in un mio precedente post, ho avuto l’opportunità di assistere a un nuovo capitolo del percorso della maison durante la Milano Fashion Week appena terminata: il 23 febbraio, è stata lanciata la nuova collezione di calzature e abiti in pelle, complice un nuovo ufficio stile che ha lavorato sempre partendo dal ricchissimo archivio, riuscendo a creare una collezione classico e innovativa al contempo.

Il progetto di Enzo Valentino (figlio del visionario fondatore e attuale amministratore delegato) è infatti quello di creare un ponte tra passato e futuro attraverso le nuove proposte, ricche di spunti appartenenti a una solida tradizione ma contemporanee nelle forme e nello stile: se nel libro – che come ho avuto modo di raccontare raccoglie gli esiti di un’appassionata quanto meticolosa ricerca condotta da Ornella Cirillo, docente di Storia della Moda –  si racconta Mario Valentino e la sua storia articolata, attraverso la collezione appena presentata si ritrovano le impronte di chi sa lavorare il pellame in tutte le sue varianti.

Il re della pelle (colui che «usava la pelle come tessuto», come veniva definito il fondatore che oggi avrebbe 90 anni) viene omaggiato nella collezione per il prossimo autunno / inverno, composta da forme estremamente femminili e da tomaie che si illuminano di colori vivaci tra cui brilla quello delle buganville in fiore.

La collezione Mario Valentino FW 2018 – 19 è impostata su tre forme di punta (sfilata, quadrata, a mandorla) e su innumerevoli tipologie di tacchi che abbracciano varie altezze: ogni tacco presenta una propria peculiarità e io segnalo in particolare quello scultura a base ottagonale (che abbina la sensualità del tacco alto alla portabilità del tacco grosso) e quello con gabbia (una reinterpretazione dello storico tacco del brand, diventato un’icona grazie all’inserimento di una rete in metallo).

I materiali utilizzati sono molteplici: si parte dai camosci presentati in diverse sfumature di colore (dal classico nero fino al viola passando per tinte sobrie come il testa di moro e tinte forti come il rosso fuoco) fino ad arrivare al camoscio stretch accompagnato dalla nappa anch’essa stretch, soffice ma decisa. La nappa viene declinata nelle varianti soffiata (una pelle granulosa dall’aspetto più sportivo) e laminata, presentata anche in una versione dorata con effetto craccato (quella che vedete anche nella foto qui sopra a destra).

È presente il vitello lucido e nero che dona un tocco decisamente rock ad alcuni modelli ed è importante anche l’inserimento del pitone che viene utilizzato in varie versioni inclusa un’eccentrica variante fluo: immancabile qualche bordo in visone nonché le fodere in montone che compongono anche il sottopiede di alcuni modelli.

Per quanto riguarda i tessuti, è stato inserito il raso stretch come nei modelli cosiddetti a calza.

Tra le lavorazioni spiccano gli intarsi di pelle che vanno a costruire tomaie moderne ma legate alle lavorazioni storiche della Mario Valentino nonché il fiocco morbido ricavato anch’esso dall’archivio storico del brand e utilizzato come accessorio contemporaneo dalla duplice anima, visto che nasconde talvolta al proprio interno un contrasto di colore o di materiale.

Per quanto riguarda gli accessori, il focus è sull’oro che è il colore delle fibbie, dei morsetti, della lavorazione a gabbia del tacco e delle borchie della collezione Mario Valentino FW 2018 – 19.

Oltre al nero, al testa di moro e agli altri colori che ho già menzionato, tra le tinte predominanti non mancano il bordeaux e i riferimenti alla terra con toni che spaziano dal fango fino al ruggine. Risaltano, come accennavo, il rosso, il viola e il buganville nonché accenni di blu notte: il tutto è sottolineato dall’oro presente anche su pelli e tessuti.

Mi fa piacere sottolineare che le creazioni di Mario Valentino fanno anche parte della mostra Italiana, l’Italia vista dalla moda 1971 – 2001 a cura di Maria Luisa Frisa: aperta a Palazzo Reale fino al 6 maggio 2018, la mostra nasce con lo scopo di evidenziare la progressiva affermazione del sistema italiano della moda in uno straordinario trentennio di relazioni e scambi tra gli esponenti di quella generazione (artisti, architetti, designer, intellettuali) che ha impostato le rotte della cultura internazionale e ha affermato il concetto di Made in Italy. Abito, arte contemporanea, oggetti di moda e di design, fotografie, riviste, schizzi danno vita a un magnifico ritratto del quale fanno parte, appunto, anche le belle creazioni di Mario Valentino.

Attraverso la mostra e attraverso la collezione Mario Valentino FW 2018 – 19 (qui, sul sito di Camera Moda, potete vederla tutta, inclusi gli abiti, mentre qui trovate la pagina Facebook di MV), la storica azienda italiana vive un nuovo percorso e, grazie a un heritage solido e a una forte consapevolezza stilistica, inaugura una stagione di rinnovamento a livello internazionale.

Mi piace!

Manu

Le Dolci Conversazioni di Ridefinire il Gioiello partono da Bologna

Amore romantico, passionale.
Amore fraterno, filiale, materno, paterno, tra amici.
Amore per gli animali, per una nobile causa, perfino per il proprio lavoro.
L’amore ha mille forme e mille sfaccettature.
E visto che scrivo nel giorno di San Valentino, quello tradizionalmente dedicato agli innamorati, celebro proprio con questo post il mio amore per la bellezza, per il talento, per il Made in Italy: lo faccio parlandovi – ancora una volta – di un progetto che mi piace tanto e che seguo ormai da quattro anni. Un progetto che amo, insomma.

Il progetto in questione è Ridefinire il Gioiello: nato nel 2010 a cura di Sonia Patrizia Catena, negli anni è diventato un importante punto di riferimento nella sperimentazione sul gioiello contemporaneo, di design e d’arte nonché un’interessante vetrina per artisti e designer.
È un progetto itinerante che promuove creazioni esclusive, selezionate dalla giuria e dai partner per aderenza a un tema sempre diverso nonché per ricerca, innovazione, originalità ideativa ed esecutiva: gioielli tra loro molto diversi per materiali impiegati vengono dunque uniti di volta in volta grazie a una tematica comune, sempre interessante e stimolante.

Come dicevo, dal 2014, sono tra i media partner del concorso e, lo scorso giugno, ho lanciato con piacere il bando di concorso di un’edizione particolare di Ridefinire il Gioiello: con Dolci conversazioni, Sonia ha infatti chiesto agli artisti di progettare e realizzare un gioiello a tema gastronomico.
Ovvero ha chiesto di progettare pezzi unici ispirati alle atmosfere, ai sapori e ai colori della tavola; storie di cibo, allegre, ironiche e divertenti narrate attraverso materiali naturali e sostenibili.

Il progetto è stato portato avanti in collaborazione con il Gruppo Duetorrihotels, una realtà che ama investire nella cultura: gli alberghi del gruppo sono luoghi di grande storia, da sempre frequentati dagli artisti di tutte le epoche, e custodiscono al proprio interno capolavori artistici.

Dopo la selezione, il progetto è giunto alla fase espositiva e così il gioiello contemporaneo si lascia gustare (letteralmente!) dal 14 al 25 febbraio al Grand Hotel Majestic di Bologna.

Proprio nel giorno di San Valentino, le Dolci Conversazioni di Ridefinire il Gioiello presentano la loro proposta inedita e originale, dedicata al gioiello sostenibile e quindi etico.
Perché – come dice Sonia – «ciò che è bello deve essere anche buono e giusto». E io approvo perché estetica ed etica possono convivere.

Le strutture del Gruppo Duetorrihotels ospiteranno, come in un viaggio in Italia, una mostra itinerante che si sviluppa intorno all’idea dei gioielli a tema cibo uniti a dolci a tema gioiello, in un gioco di rimandi a specchio. Leggi tutto

Anna Dello Russo: cerco la leggerezza e smantello il guardaroba archivio

Magari qualcuno penserà che io sia un po’ strana, eppure devo fare una confessione: ho approfittato delle recenti vacanze di Natale per fare tre cose importanti.
La prima è stata studiare e, tra l’altro, sono riuscita a visitare un paio di splendide mostre utili per nutrire la mia fame di bellezza, come la mostra sui costumi del Teatro alla Scala che ho raccontato qui e che potete a vostra volta visitare fino al 28 gennaio.
La seconda cosa è stata preparare un po’ di lavoro per gennaio e, infine, mi sono occupata di alcune faccende in casa.

Qualcuno penserà «anziché divertirsi e riposarsi, questa matta ha sgobbato»: non posso dare torto a chi la pensa così, però fatemi dire una cosa.
Penso che il tempo sia prezioso, che dover sempre essere di corsa ci uccida e che rallentare sia un lusso: ho dunque preferito approfittare del rallentamento tipico del periodo natalizio per portarmi avanti.
È come se avessi fatto un regalo a me stessa perché, in realtà, mi sono divertita (a mio modo, lo ammetto…); non solo, aver avuto modo di programmare con maggiore calma alcune attività di studio e lavoro mi fa sentire più serena.

Senza contare che, finalmente, come accennavo, ho messo mano ad alcune attività casalinghe che procrastinavo da tempo infinito: in particolare, mi sono dedicata a una bella operazione di pulizia del mio ormai ingovernabile guardaroba archivio, argomento assai dolente (chiedete a mio marito).
Ammetto che la situazione mi era sfuggita di mano, da parecchio, tanto da non riuscire quasi più a entrare nella stanza che ospita la mia collezione di abiti e accessori: finalmente, ho trovato tempo, voglia e (tanto) coraggio per liberarmi di un bel po’ di cose che, ormai, non erano altro che zavorra.

Mia mamma lo chiama repulisti, chi usa un linguaggio più contemporaneo lo chiama decluttering: chiamatelo come preferite, io vi dico solo che, dopo averlo fatto, mi sento in effetti molto meglio, anche se serve ancora altro lavoro per arrivare al risultato che vorrei raggiungere.
Sono però felice di aver intanto ripreso in mano le redini della situazione e di aver suddiviso capi e accessori scartati in due gruppi: cose delle quali disfarmi definitivamente, cose da provare a vendere.
Come ho raccontato in altre occasioni, sono una sostenitrice della second hand economy e sono fermamente convinta che ciò che non serve più a noi possa servire ad altri: così come a me capita di comprare oggetti vintage o di seconda mano, penso che qualcuno potrebbe essere interessato a ciò che ho eliminato e che, in moltissimi casi, è in condizioni più che onorevoli, tanto da provare una fitta di dispiacere al pensiero di gettare via diverse cose.

Beh, dopo aver fatto tutto ciò (è stato un lavoraccio, ve lo assicuro…), immaginate il mio stupore nel leggere che una persona che stimo molto – Anna Dello Russo – sta facendo la stessa operazione di smantellamento archivio, naturalmente con le debite proporzioni (ovvero il suo archivio è infinitamente più sostanzioso, significativo e importante del mio).

Anna Dello Russo, classe 1962, ha una laurea in arte e letteratura nonché un master universitario in design della moda: è una vera influencer con ben trent’anni di carriera come fashion editor (molti di quegli anni trascorsi in Condé Nast) e dal 2006 è direttrice creativa di Vogue Japan. Leggi tutto

error: Sii glittering... non copiare :-)