E anche Monsieur Hubert de Givenchy ci lascia in un mondo ora più triste

Hubert de Givenchy e Audrey Hepburn, 1983, foto © Joe Gaffney (sito e account Instagram)

Una settimana: tanto è passato da quando, pranzando con una persona che stimo, si parlava di quanto risulti difficile per chi lavora nella moda rassegnarsi davanti al tempo che passa, mettendosi da parte e andando in pensione.

Sabato scorso, seduti al tavolino di un posticino accogliente, io e A. citavamo vari esempi, tra stilisti e giornalisti, e io gli esponevo una mia teoria: il motivo per cui in questo settore non ci si rassegna facilmente all’idea della pensione è che la moda è un lavoro fatto di una passione che spesso finisce per diventare totalizzante, sia che si crei concretamente (abiti) sia che si crei virtualmente (attraverso le parole).
E gli ho confessato come immagini già me stessa 70enne ancora intenta a girare – ahimè – per sfilate, presentazioni e press day in cerca di bellezza, creatività e genialità…

Seduti a quel tavolo, nessuno di noi due poteva immaginare come in quello stesso giorno – il 10 marzo – si stesse spegnendo uno dei più grandi couturier di tutto il Novecento, Hubert James Marcel Taffin de Givenchy, aristocratico di nascita ma soprattutto di modi, classe 1927, fondatore nel 1952 e a soli 25 anni della nota e prestigiosa casa di moda che porta il suo nome, Givenchy.
E con Hubert de Givenchy scompare purtroppo uno degli ultimi testimoni dell’epoca d’oro della Haute Couture francese; scompare un autentico gentiluomo che ha vestito donne bellissime e che sono state elegantissime anche grazie a lui.
Alto oltre due metri e slanciato, molte di quelle donne l’hanno descritto come uno degli uomini più seducenti mai incontrati.

A dare la triste notizia al mondo è stato Philippe Venet, il compagno dello stilista: il fatto che sia morto nel sonno, a 91 anni e dopo averci lasciato creazioni indimenticabili, non mi consola affatto.
Anzi, al contrario, mi addolora e mi fa sentire irrimediabilmente defraudata perché, insieme a uomini come Givenchy, scompare sempre più un mondo, scompare un modo di fare e intendere la moda, sebbene mi piace pensare (o sperare…) che quel certo concetto di eleganza che lui ha contribuito a creare sopravvivrà nel tempo.

Vi chiederete però perché io stia legando Givenchy all’aneddoto personale raccontato in principio: perché, nel 1988, il couturier aveva venduto la sua maison alla holding francese LVMH continuando a firmare le collezioni fino al 1995, anno del suo definitivo ritiro.
Lui, dunque, aveva saputo farsi da parte, senza clamore e senza chiasso, e in questa capacità – occorre ammetterlo – ha dimostrato ancora una volta un’eleganza sottile e suprema.
«Ho smesso di fare vestiti ma non di fare scoperte», aveva dichiarato, e credo non vi sia nulla da aggiungere.

Mettersi da parte non deve essere stato facile per un uomo del suo calibro, ma volete sapere una cosa?
Due anni prima, nel 1993, Hubert de Givenchy aveva vissuto un dolore davvero immenso e tangibile: il 20 gennaio di quell’anno era infatti scomparsa Audrey Hepburn, sua musa e amica per lunghissimi anni, quaranta, per l’esattezza.

Sono rarissime, credo, le persone che non hanno presente il raffinatissimo tubino nero creato da Givenchy, indossato dalla Hepburn in Colazione da Tiffany nel 1961 e così consegnato all’eternità.
Quello tra il couturier e l’attrice fu un rapporto intenso a tal punto che molti studiosi ed esperti di moda e costume sostengono che la scomparsa della Hepburn abbia rappresentato per lui un punto di non ritorno, un segno del destino.

D’altro canto, molte cose nell’esistenza di quest’uomo straordinario sono stati segni di un destino quasi scritto come quando, contro il volere della famiglia, aveva iniziato la carriera nel mondo della moda lavorando per grandissimi nomi quali Luciene Lelong, Robert Piguet, Jacques Fath, Elsa Schiaparelli.

E come quando, fin dal debutto, riuscì a segnare lo stile dell’epoca grazie a intuizioni come la celebrata e celeberrima Blusa Bettina, con il corpetto stretto e le maniche ampissime, creata nel 1952 in omaggio a Bettina Graziani, l’indossatrice (così come venivano chiamate allora le modelle) che lui preferiva.

Grazie a quelle sue intuizioni, insieme a Cristóbal Balenciaga (che nel 1937 iniziò a proporre le sue sublimi creazioni sartoriali) e a Christian Dior (che nel 1947 lanciò la linea New Look come ho raccontato qui in un articolo per ADL Mag), Givenchy ha formato un’incredibile triade che, tra gli Anni Trenta e Cinquanta, ha segnato indelebilmente il corso della moda con proposte che, tuttora, vengono citate, rivisitate, emulate (con risultati che non sempre reggono il confronto).
(Per inciso: Balenciaga fu mentore di Givenchy e, anche in questo caso, li legò un rapporto di amicizia che durò fino alla scomparsa, nel 1972, dello stesso Balenciaga.)

Tra le sue clienti, il couturier ha annoverato donne come Jacqueline Kennedy, l’imperatrice Farah Pahlavi, Marella Agnelli, la principessa Grace, Wallis Simpson duchessa di Windsor; oltre a Audrey Hepburn, ha vestito le attrici Marlene Dietrich, Greta Garbo, Lauren Bacall, Jeanne Moreau e Ingrid Bergman.

Un altro segno del destino fu proprio la storia di immenso amore professionale tra Hubert de Givenchy e Audrey Hepburn, iniziata quasi per caso e quando lei non era ancora l’icona oggi venerata da moltissimi (sottoscritta inclusa).

Il loro incontro casuale è divenuto mitico non solo negli annali della storia della moda: accadde nel 1953, l’anno dopo il debutto di Givenchy in passerella e l’anno in cui Audrey interpretò il film Vacanze Romane per il quale vince poi l’Oscar nel 1954.

«Avevo capito di dover incontrare Katherine Hepburn e mi ritrovai invece dinanzi non la nota diva ma una ragazzina vestita da gondoliere con pantalone Capri, maglietta a righe orizzontali e cappello a tesa larga in paglia. Mi chiese di creare il suo guardaroba per il nuovo film, ma francamente non avevo tempo, troppo imminenti le sfilate parigine. Però – è innegabile – il suo fascino era sconfinato. Mi conquistò. Dovetti cedere e così accettai.»
Così ha raccontato in tante interviste colui che tutti chiavano semplicemente Monsieur e che definiva Audrey «un angelo». Per la cronaca, il film in questione era Sabrina.
E per quanto riguarda il legame unico tra lui e la sua musa, in un’intervista rilasciata a Paris Match nel 2013, il couturier lo descrisse come «una sorta di matrimonio durato quarant’anni, una storia d’amore platonico».

In occasione di dipartite che mi hanno toccato cuore e anima, mi è capitato di esprimere un auspicio, quello che, oltre questa vita, possa esistere un posto, non so dove né come, in cui grandi uomini e grandi donne di ogni epoca si incontrano e discutono amabilmente di visioni, sogni e idee.
Stavolta spingo oltre questo pensiero formulando l’augurio che, in questo ipotetico luogo, uomini e donne possano riallacciare discorsi rimasti in sospeso, possano riallacciare affetti eterni come lo straordinario amore platonico che legava Hubert de Givenchy e Audrey Hepburn.
Se chiudo gli occhi, li vedo insieme: ora, il couturier e la sua musa possono finalmente riprendere quel loro legame fatto di amicizia, affetto e stima, un amore platonico ma non per questo meno forte e reale.
E che stavolta sia per l’eternità, auguro loro con tutto il cuore.

Manu

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Manu

Mi chiamo Emanuela Pirré, Manu per gli amici di vita quotidiana e di web. Sono nata un tot di anni fa con una malattia: la moda. Amo la moda perché per me è una forma di cultura, una modalità di espressione e di comunicazione, un linguaggio che mi incuriosisce. Scrivo e creo contenuti in ambito editoriale, principalmente proprio per la moda. Insegno (Fashion Web Editing, Storytelling, Content Creation) in due scuole milanesi. Vivo sospesa tra passione per il vintage e amore per il futuro e sono orgogliosa della mia nutrita collezione di bijou iniziata quando avevo 15 anni. Per fortuna Enrico, la mia metà, sopporta (e supporta) entrambe, me e la collezione, con pazienza e amore. Oltre a confessare un'immensa curiosità, dichiaro la mia allergia a pregiudizi, cliché, luoghi comuni, conformismo e omologazione. Detesto i limiti, i confini, i preconcetti – soprattutto i miei – e mi piace fare tutto ciò che posso per superarli. La positività è la mia filosofia di vita: mi piace costruire, non distruggere. Moda a parte, amo i viaggi, i libri e la lettura, l'arte, il cinema, la fotografia, la musica, la buona tavola e la buona compagnia. Se volete provare a diventare miei amici, potete offrirmi un piatto di tortellini in brodo, uno dei miei comfort food. Oppure potete propormi la visione del film “Ghost”: da sognatrice, inguaribile romantica e ottimista quale sono, riesco ancora a sperare che la scena finale triste si trasformi miracolosamente in un lieto fine.

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