E anche Monsieur Hubert de Givenchy ci lascia in un mondo ora più triste

Hubert de Givenchy e Audrey Hepburn, 1983, foto © Joe Gaffney (sito e account Instagram)

Una settimana: tanto è passato da quando, pranzando con una persona che stimo, si parlava di quanto risulti difficile per chi lavora nella moda rassegnarsi davanti al tempo che passa, mettendosi da parte e andando in pensione.

Sabato scorso, seduti al tavolino di un posticino accogliente, io e A. citavamo vari esempi, tra stilisti e giornalisti, e io gli esponevo una mia teoria: il motivo per cui in questo settore non ci si rassegna facilmente all’idea della pensione è che la moda è un lavoro fatto di una passione che spesso finisce per diventare totalizzante, sia che si crei concretamente (abiti) sia che si crei virtualmente (attraverso le parole).
E gli ho confessato come immagini già me stessa 70enne ancora intenta a girare – ahimè – per sfilate, presentazioni e press day in cerca di bellezza, creatività e genialità…

Seduti a quel tavolo, nessuno di noi due poteva immaginare come in quello stesso giorno – il 10 marzo – si stesse spegnendo uno dei più grandi couturier di tutto il Novecento, Hubert James Marcel Taffin de Givenchy, aristocratico di nascita ma soprattutto di modi, classe 1927, fondatore nel 1952 e a soli 25 anni della nota e prestigiosa casa di moda che porta il suo nome, Givenchy.
E con Hubert de Givenchy scompare purtroppo uno degli ultimi testimoni dell’epoca d’oro della Haute Couture francese; scompare un autentico gentiluomo che ha vestito donne bellissime e che sono state elegantissime anche grazie a lui.
Alto oltre due metri e slanciato, molte di quelle donne l’hanno descritto come uno degli uomini più seducenti mai incontrati.

A dare la triste notizia al mondo è stato Philippe Venet, il compagno dello stilista: il fatto che sia morto nel sonno, a 91 anni e dopo averci lasciato creazioni indimenticabili, non mi consola affatto.
Anzi, al contrario, mi addolora e mi fa sentire irrimediabilmente defraudata perché, insieme a uomini come Givenchy, scompare sempre più un mondo, scompare un modo di fare e intendere la moda, sebbene mi piace pensare (o sperare…) che quel certo concetto di eleganza che lui ha contribuito a creare sopravvivrà nel tempo.

Vi chiederete però perché io stia legando Givenchy all’aneddoto personale raccontato in principio: perché, nel 1988, il couturier aveva venduto la sua maison alla holding francese LVMH continuando a firmare le collezioni fino al 1995, anno del suo definitivo ritiro.
Lui, dunque, aveva saputo farsi da parte, senza clamore e senza chiasso, e in questa capacità – occorre ammetterlo – ha dimostrato ancora una volta un’eleganza sottile e suprema.
«Ho smesso di fare vestiti ma non di fare scoperte», aveva dichiarato, e credo non vi sia nulla da aggiungere.

Mettersi da parte non deve essere stato facile per un uomo del suo calibro, ma volete sapere una cosa?
Due anni prima, nel 1993, Hubert de Givenchy aveva vissuto un dolore davvero immenso e tangibile: il 20 gennaio di quell’anno era infatti scomparsa Audrey Hepburn, sua musa e amica per lunghissimi anni, quaranta, per l’esattezza. Leggi tutto

Dettagli di stile: i pantaloni, una conquista tutta al femminile

Per capire la moda bisogna conoscere la storia.

La mia vi sembra un’affermazione azzardata o esagerata?
In realtà non lo è affatto, anzi, sostengo con grande convinzione un ulteriore concetto: non solo storia e moda sono sempre andate a braccetto, ma si sono anche influenzate a vicenda.
La storia e le sue vicende hanno naturalmente influenzato il modo di vestire, ma nel contempo il modo di vestire ha accompagnato (e talvolta facilitato) tante rivoluzioni sociali.

Tutto ciò è vero specialmente se parliamo di moda femminile: l’abbigliamento è sempre stato inevitabilmente legato alla lotta per la parità dei sessi.
Facciamo due esempi pratici, quello del costume da bagno e quello dei pantaloni.

È cosa nota che, in passato, a noi donne non era consentito mostrarci neanche al mare e fu così, ahimè, quasi fino all’arrivo degli Anni Sessanta del Novecento: in un mio precedente post ho raccontato come, nonostante il bikini sia stato inventato nel 1946, fu necessario attendere quasi due decenni affinché si diffondesse.
Parlando di pantaloni, invece, mi piace sottolineare come alcune donne che vengono considerate tutt’oggi fonte di ispirazione in materia di abbigliamento ed eleganza – cito Audrey Hepburn, Grace Kelly, Jacqueline Kennedy – siano state persone che, oltre a possedere grande grazia, usavano appunto indossare i pantaloni.
Perché lo sottolineo?
Nei secoli passati, i pantaloni sono stati percepiti come dei veri e propri simboli di forza e potere, proviamo per esempio a pensare all’espressione portare i pantaloni, usata con il significato di comandare e avere autorità; pertanto, non solo alle donne non era concesso vestirsi come gli uomini, ma non potevano indossare i pantaloni proprio per quello che rappresentavano, ovvero il potere.
Poterli indossare rappresenta dunque una conquista per la quale dobbiamo dire grazie a tutte le donne che hanno infranto quello stereotipo.

Un diritto chiamato pantaloni: ecco la conquista!

Peccato, lussuria, prostituzione: queste erano solo alcune delle accuse che venivano scagliate in passato contro le donne che portavano i pantaloni, sia da parte dagli uomini sia da una certa parte del mondo religioso e persino da parte di altre donne.
Ma chi fu a indossarli per prima?
Nell’Ottocento, attiviste come Elizabeth Smith Miller, Elizabeth Cady Stanton e Amelia Jenks Bloomer (1818 – 1894) provarono a lanciare nuovi outfit: nacquero i primi pantaloni per signora che si ispiravano all’abbigliamento tipico delle donne turche. Furono chiamati Bloomers, proprio dal nome dell’attivista e scrittrice Amelia Bloomer.
Poi, il Novecento diede i natali a dive a loro modo trasgressive, come Marlene Dietrich (1901 – 1992), donne il cui mito era destinato a diventare immortale.
Superati gli scossoni degli Anni Sessanta (tra cui, come ho già raccontato, la definitiva consacrazione e diffusione del bikini), il decennio successivo vide i pantaloni diventare definitivamente un capo unisex, anche grazie a stilisti del calibro di Giorgio Armani e Yves Saint Laurent che hanno creato elegantissimi (e femminilissimi) tailleur pantalone, rendendoli capi rappresentativi del loro stile.

Et voilà, costume da bagno e pantaloni, ovvero due esempi di reciproca influenza tra storia e moda: l’introduzione e la diffusione dei pantaloni favorì tra l’altro anche un ruolo più attivo della donna nella società.

E oggi?

Gli stereotipi e i pregiudizi colpiscono ancora oggi il mondo femminile: si continua a bollare una camicetta come troppo scollata oppure un look come troppo provocante.
E così, esattamente come avveniva in passato, la moda continua ad avere un compito: rompere gli schemi e abbattere gli stereotipi, proponendo look destinati a creare nuove tendenze.
La moda resta insomma una via di fuga da un mondo che fatica ancora ad accettare la libertà della donna e resta un mezzo per manifestare la voglia di emancipazione e di comunicazione che continua a caratterizzarci.

Parliamo allora di pantaloni e tendenze: quali sono quelle per l’inverno che sta arrivando?

I pantaloni sono ancora sovrani: non c’è una sola collezione che non li contempli al proprio interno.
E non importa di quali pantaloni parliamo, va bene ogni stile perché non esistono più rigidi diktat come in passato: dai pantaloni skinny a quelli corti, da quelli oversize fino ad arrivare a quelli a campana, oggi ogni donna sa che può trovare ciò che le serve per esprimere sé stessa nel profondo.

Le tendenze 2017 portano il ritorno dei jeans a zampa, ma anche i pantaloni a sigaretta e quelli dal taglio sartoriale, prettamente maschili.
Il jeans, che è un capo evergreen, ha dominato anche quest’anno le passerelle: è sempre una soluzione ideale quando ci si trova in crisi da outfit e non può mai mancare nel nostro armadio.
Grazie ai virtual store – a me piace per esempio yoox.com – è possibile trovare modelli di jeans da donna capaci sia di soddisfare i gusti più svariati sia di valorizzare ogni tipologia di fisico: resta solo l’imbarazzo della scelta.

Per quanto invece riguarda i tessuti, si trovano accenni Anni Ottanta tra pelle nera e lustrini: lo sguardo non è però solo al passato ma anche al futuro e così saranno in gran voga le asimmetrie e i tessuti tecnici, quelli che solitamente si utilizzavano nell’abbigliamo sportivo. Un esempio? Il PVC.
Non siete pronti a una simile rivoluzione? Non temete, nel nostro armadio troveranno spazio anche i tessuti cozy, quelli accoglienti e che coccolano, come i filati di cachemire, la seta e i velluti.

Io dico che le donne che hanno lottato affinché potessimo indossare i pantaloni apprezzerebbero una simile libertà di scelta.

Manu

 

We Wear Culture, dal little black dress di Coco allo street style di Tokyo

We Wear Culture: la cover della sezione dedicata al virtual tour del Metropolitan Museum of Art

Tra i tanti vantaggi del web, uno dei miei preferiti è senza dubbio quello di aver ridotto i limiti fisici e geografici.

Per esempio, possiamo stare comodamente seduti alla nostra scrivania e contemporaneamente fare ricerche grazie a luoghi virtuali, biblioteche e librerie, archivi e musei. Oppure, possiamo rilassarci sul divano mentre chiacchieriamo in live chat con persone che si trovano dall’altra parte del mondo. O ancora, possiamo fare acquisti in pochi click.

Certo, a volte tutto ciò non basta: io, in questo periodo, mi struggo per il fatto di non poter essere a New York fisicamente, precisamente al Metropolitan Museum of Art dove si sta svolgendo la mostra Rei Kawakubo / Comme des Garçons: Art of the In-Between.

Non so cosa darei per visitare l’esposizione dedicata a una delle più importanti stiliste del Novecento, colei che nel 1969 ha fondato il brand Comme des Garçons e che insieme a Yohji Yamamoto e Issey Miyake forma l’eccezionale triade giapponese che, alla fine degli Anni Settanta, ha portato un grandissimo rinnovamento nella moda.

Qui, però, torna in ballo Internet e la sua capacità di essere un mezzo che ci dà infinite possibilità che sta a noi saper sfruttare al meglio: non posso teletrasportarmi a New York, è vero, ma grazie al web posso consultare il sito del Metropolitan, godere di filmati e gallery, leggere articoli, consultare reportage.

Ed è proprio in nome di tutto ciò che, oggi, sono molto felice di parlarvi di un progetto che si chiama We Wear Culture.

We Wear Culture ovvero Indossiamo la Cultura, in quanto ben tremila anni di storia del costume e della moda confluiscono in una sorta di sfilata (o vetrina, chiamatela come preferite) che debutta online in questi giorni.

Disponibile attraverso la piattaforma Google Arts & Culture, il progetto consente di esplorare stili e look di epoche diverse nonché le storie che sono alla base degli abiti che indossiamo oggigiorno: inoltre, pezzi iconici che hanno cambiato il modo di vestire di intere generazioni vengono letteralmente fatti vivere grazie alla realtà virtuale.

L’iniziativa è frutto di una collaborazione con oltre 180 istituzioni culturali di fama mondiale: tra i nomi italiani, figura il Museo del Tessuto di Prato e una selezione di tessuti proveniente proprio dalle collezioni antiche di tale Museo è ora disponibile online. Leggi tutto

Sonia Rykiel, non solo la regina del tricot

Ammiro le persone che dimostrano di avere carattere e personalità.
Mi piace che una persona si distingua nel mestiere che fa, qualunque esso sia. Resto ancor più affascinata quando si tratta di donne in quanto diventano fulgidi esempi da seguire.
Per questo motivo ammiravo tanto Mariuccia Mandelli, la stilista che aveva scelto Krizia come proprio pseudonimo, nome preso in prestito dall’ultimo Dialogo incompiuto di Platone, quello incentrato sulla vanità femminile.
Nel 2013, dopo una sfilata, avevo avuto l’immenso onore di poterle stringere la mano: lo scorso dicembre, a 90 anni, se n’è andata. Nel mio cuore c’è un posto che sarà suo per sempre e ora, al suo fianco, ne riservo uno per Sonia Rykiel: appena ho saputo della sua morte, ho subito pensato alla signora Mandelli e mi è venuto istintivo unirle indissolubilmente nel fatto di essere donne di grande carattere e personalità, stiliste che hanno saputo diffondere e difendere la loro opinione a proposito della femminilità e dei possibili modi di interpretarla.

Sonia Rykiel, classe 1930, iniziò a disegnare abiti nel 1962 quando, durante la gravidanza, non riusciva a trovare vestiti che le fossero comodi.
Soprannominata regina del tricot, concentrò la propria creatività sulla lana, dandole la stessa importanza che altri stilisti riservavano a tessuti pregiati e riuscendo a portare la maglieria oltre la dimensione artigianale.
Il pezzo che le fece ottenere il titolo di regina del settore fu un piccolo pullover attillato a righe: il capo finì sulla copertina di Elle e diventò un simbolo di liberazione e seduzione nonché di uno stile sofisticato e ribelle. Le donne – e prime fra tutte celebrità quali Audrey Hepburn, Catherine Deneuve, Lauren Bacall, Brigitte Bardot – se ne innamorano.

La sua filosofia? No, ai total look, no ai diktat, no ai limiti imposti dall’età.
Per lei era la moda a doversi mettere al servizio del corpo femminile e non viceversa (e questo è uno dei motivi per cui l’ammiro); ogni donna doveva essere libera di creare il proprio guardaroba, celebrando liberamente le proprie forme.
I capi di Sonia Rykiel conquistarono la ribalta della moda perché parlavano un linguaggio schietto e perché coglievano i desideri delle donne degli anni ’70: lei regalò loro libertà di movimento e di espressione.
«È la donna che anima l’abito. Non può essere il contrario. La provocazione è la donna, mai quello che indossa», così era solita dire.

Nel 1985, ricevette la Légion d’honneur, l’onorificenza più alta attribuita dalla Repubblica Francese. Nel 1987, le celeberrime Galeries Lafayette ospitarono Vingt ans de mode, la prima grande retrospettiva a lei dedicata; nel 2008, fu invece il prestigioso Musée des Arts Décoratifs a dedicarle una mostra, sempre monografica e sempre a Parigi.
La Rykiel non ebbe paura di sperimentare anche per quanto riguarda la possibilità di collaborazioni inedite e nel 2009 firmò una collezione per H&M.
Nel 2012, rivelò di avere la malattia di Parkinson tenuta nascosta per molti anni, fino a quando le era stato possibile, proprio in nome di quel carattere forte che l’animava. La rivelazione avvenne attraverso la pubblicazione di un libro autobiografico intitolato N’oubliez pas que je joue, dove non esitò a descrivere tutti i segni visibili della patologia sul suo fisico, dai tremori alle difficoltà di deambulazione.

Ed è stato il Parkinson a portarla via il 25 agosto.
Ai suoi funerali, a Parigi, c’era anche Lionel Jospin, ex primo ministro e suo amico; come ultima dimora della stilista, la famiglia ha scelto il cimitero di Montparnasse.
Lì riposano, tra gli altri, grandi personalità della cultura e dello spettacolo tra i quali Charles Baudelaire, Guy de Maupassant, Samuel Beckett, Marguerite Duras, Simone de Beauvoir, Jean-Paul Sartre, Serge Gainsbourg, Susan Sontag, Philippe Noiret. Un luogo affine alla personalità e allo spirito di una donna che ha amato la moda, l’arte, la musica, i libri, la letteratura (fu autrice di nove romanzi), la buona cucina e il cioccolato e che era molto di più della regina del tricot.
Folgorò anche Andy Warhol che la ritrasse e le dedicò un’intervista.

Sonia Rykiel è stata dunque un emblema di unicità, anticonformismo e ribellione.

Non solo dal punto di vista professionale, ma anche sotto il profilo personale e perfino nella malattia che – purtroppo – avvicina il suo destino a quello di André Courrèges, altro stilista che amavo molto e che è mancato all’inizio di quest’anno.

In un’intervista a Elle, Madame Rykiel non nascose di amare il potere e aggiunse di aver «lavorato per ottenerlo».
«Penso che le donne e gli uomini di potere siano uguali. Ce ne sono di incapaci e di formidabili», affermò nella stessa occasione. «Ma se mi chiedete di citarne una esemplare, non so chi dire. Soprattutto tra le politiche. Non sanno conservare quel potere di seduzione e quella dolcezza, tipicamente femminili. Si comportano troppo da uomini».
Esattamente ciò che ho sostenuto a mia volta in un post recente: come pensava la stilista, anch’io sostengo che le donne, per essere accettate e per ricoprire certi ruoli, non debbano affatto comportarsi come gli uomini, ma trovare il proprio modo.

E a mio avviso, una delle sue dichiarazioni più belle fu qualcosa che disse a Elle sempre in quella stessa intervista, una frase che mi pare possa ben riassumere l’essenza del suo lavoro e della sua vita.
«Non mi considero una femminista. Amo così tanto gli uomini. Non amo il femminismo di bandiera, anche se ho sempre difeso la mia libertà. Non penso che tra donna e uomo vada cercata la parità. Ma l’uguaglianza.»

Non credo ci sia nient’altro da aggiungere se non un affettuoso augurio: bon voyage, Madame Rykiel.

Manu

Il ritratto di Sonia Rykiel viene dalla pagina Facebook del brand.
Si tratta dell’invito alla sfilata della collezione autunno/inverno 1978-1979
e mostra Sonia Rykiel ritratta da Sarah Moon

Riflessioni su moda e costume passando per i jeans

Oggi mi sento in vena di nostalgia per il passato.
E – chissà perché – spesso capita che quello che proviamo sembra essere acuito e amplificato da ciò che ci circonda.
Mi spiego meglio: avete presente quando vi sentite romantiche e non vedete altro che coppie che si baciano? Oppure quando siete tristi e in televisione danno solo film strappalacrime?
Ecco, oggi, nelle mie incursioni sul web, mi sembra di trovare solo materiale che alimenta pensieri e nostalgie, ma ho deciso di volgere il tutto in un’ottica positiva: la mia convinzione è che si guarda avanti solo conoscendo ciò che è stato. Presente e futuro privi della memoria del passato equivalgono a una casa senza fondamenta e mi piacerebbe dimostrare quanto ciò sia vero più che mai nella moda e nel costume.

Ho usato – appositamente distinguendoli – i termini moda e costume e qui mi tocca fare una digressione: c’è differenza? Possono essere considerati sinonimi?
Diciamo che esistono delle sfumature.
La moda riguarda il cambiamento progressivo – e sempre temporaneo – del nostro modo di vestire e di arredare, ma anche, per esempio, di viaggiare, spostarci o divertirci: racconta, insomma, lo stile di vita sia della società sia dei singoli individui. Un tempo, tali cambiamenti erano molto lenti, mentre oggi sono sempre più veloci.
Il costume analizza invece comportamenti, usi e abitudini in chiave antropologica, ovvero studia i bisogni alla base e le caratteristiche che permettono di riconoscere una civiltà da un’altra o un’epoca da un’altra.

Naturalmente, moda e costume si influenzano a vicenda e sono correlati: non dimentichiamo inoltre che l’essere umano è l’unica creatura vivente che interviene volontariamente sul proprio aspetto attraverso il tramite di elementi esterni e lo fa per moltissimi motivi pratici e sociali, dall’esigenza di coprirsi e proteggersi al bisogno di comunicare passando per la pura vanità (l’intervento di modifica avviene talvolta anche nel mondo animale e vegetale, è vero, ma solitamente è finalizzato e limitato a precise fasi e a momenti specifici quali per esempio il corteggiamento, l’accoppiamento, l’impollinazione).

Sapete, Enrico, il mio amore, mi ha appena regalato un libro molto interessante, si intitola Fashion:Box ed è edito da Contrasto: racconta quelli che sono considerati i grandi classici della moda (la minigonna, la camicia bianca e via discorrendo) e li collega alle icone che hanno contribuito a renderli immortali (un esempio per tutti, Audrey Hepburn e il tubino nero).
Proprio iniziando a leggere questo volume, mi è venuto in mente un esempio di capo che ha fatto la storia del costume e che oggi racconta la moda: mi riferisco ai jeans.

Si dice che i jeans siano nati a Genova sebbene la loro definitiva affermazione sia poi partita dagli Stati Uniti, nel periodo della corsa all’oro: nel 1853, Levi Strauss apre a San Francisco un negozio per vendere oggetti utili a lavoratori e cercatori d’oro e propone dei grembiuli in denim, un pesante tessuto di colore blu.
Un sarto di nome Jacob Davis, originario del Nevada, si unisce a lui e, nel 1873 (precisamente il 20 maggio), l’ufficio americano dei brevetti rilascia loro l’autorizzazione a produrre in esclusiva pantaloni di cotone robusto tenuti insieme anche grazie a rivetti metallici posti nei punti più soggetti a tensione e usura.
In quegli anni, il denim viene usato dagli operai che costruiscono le prime ferrovie americane, dai taglialegna e dai mandriani di bestiame: i jeans vanno dunque a soddisfare un bisogno, quello di avere indumenti funzionali, resistenti e longevi.
Con l’avvento del secolo successivo e in particolare negli Anni Cinquanta, il cinema americano porta i jeans nelle case dei giovani attraverso idoli quali James Dean o Elvis Presley: i pantaloni in denim diventano il simbolo della ribellione giovanile e della voglia di prendere le distanze dalla monotonia (e dall’ipocrisia) del mondo degli adulti.
In seguito, però, i jeans diventano trasversali e negli Anni Ottanta si trasformano addirittura in un capo di lusso. Oggi non parlano necessariamente di bisogni soddisfatti o di voglia di ribellione e sono indossati da tutti, qualsiasi mestiere si faccia e a qualsiasi età, cambiando rapidamente fogge e modelli: hanno smesso quindi di essere un fenomeno di costume per entrare a pieno titolo nelle vicende di moda.

A questo punto, dopo aver fatto una piccola distinzione tra costume e moda, torno a ciò che volevo affermare fin dal principio: il passato ci dà chiavi di lettura che permettono di capire il presente e ci consentono di guardare al futuro.
Inoltre, osservando lo scorrere del tempo, possiamo fare un’altra constatazione: i cambiamenti nella moda non sono affatto un prodotto della società moderna come molti credono, bensì hanno accompagnato ogni epoca.
Al limite, ciò che è cambiato è l’atteggiamento, l’attitudine a fare dei trend una mania che può diventare malsana nel momento in cui perdiamo la componente critica che invece dovrebbe essere sempre presente.
La critica alla quale mi riferisco deve essere costruttiva e non distruttiva: semplicemente, come ho affermato in altri casi, cerchiamo di non accettare pedissequamente tutto ciò che la moda ci propina e facciamo invece sentire la nostra voce e la nostra personalità. È così che taluni sono riusciti a scrivere la storia della moda.

A dimostrazione del perenne mutare della moda in ogni epoca, vi mostro il delizioso quadretto qui sopra: illustra quanto e come siano cambiate le fogge femminili in un periodo relativamente breve, dal 1809 al 1828 (1).
E concludo con due video molto divertenti: per par condicio, uno è dedicato alle donne e uno agli uomini.
Guardando i video, a me è venuto un pensiero: in alcuni casi, preferisco la moda del passato, naturalmente senza tornare a estremismi come i corsetti che stringevano la vita, per carità, orpelli che rendevano la donna prigioniera (2).

Ve l’avevo detto che oggi sono nostalgica, tuttavia non voglio perdere di vista il mio obiettivo primario e torno a sottolineare che storia e ricordo devono avere una valenza educativa e fungere da insegnamento senza imprigionarci: «Coloro che non ricordano il passato sono condannati a ripeterlo», scriveva il filosofo e saggista spagnolo George Santayana.
Sono d’accordo con lui e lo sono comunque sia il passato, bello o brutto.

Manu

(1) Per chi fosse curioso quanto lo sono io: l’illustrazione cita un periodico pubblicato in Inghilterra tra il 1809 e il 1829 dall’editore e litografo Rudolph Ackermann. Sebbene tale periodico fosse spesso chiamato Ackermann’s Repository o semplicemente Ackermann’s, il titolo esatto e completo era Repository of arts, literature, commerce, manufactures, fashions and politics: in effetti, andava a coprire tutti questi campi e, durante gli anni della sua pubblicazione, ha avuto grande influenza sui gusti inglesi.
Il quadretto d’insieme è un’elaborazione digitale dell’artista Evelyn Kennedy Duncan aka EKDuncan.

(2) Nel caso in cui qualcuno non creda al fatto che i corsetti stringivita imprigionassero le donne, riporto le significative parole di Thorstein Bunde Veblen, economista e sociologo statunitense: «Il busto – scriveva Veblen, grande ritrattista della classe agiata – è sostanzialmente uno strumento di mutilazione al fine di ridurre la vitalità del soggetto e di renderla evidentemente inadatta al lavoro».
Durante tutto il 1800, la donna doveva avere il cosiddetto vitino di vespa con una circonferenza che non superava i 40 centimetri, in netto contrasto con l’ampiezza delle gonne.

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