Sembro (e sono) un’eterna entusiasta verso molte persone, cose, situazioni e questo si riflette nel linguaggio con il quale mi esprimo, ricco di termini positivi; eppure, in realtà, doso bene le parole – in generale e in alcuni casi specifici ancora di più.
Una delle parole che doso e quasi centellino è icona e mi piace dosarla con parsimonia soprattutto quando la accosto alla dimensione che più mi è congeniale tra le varie di cui mi occupo: mi riferisco alla moda.
Considero icone solo i più grandi e rivoluzionari sarti, couturier e stilisti e riservo l’appellativo solo a pochi (pochissimi) di quelli attuali.
Perdonate questa severità, ma icona ha un immenso valore ed è dunque qualcosa che ci si guadagna nel tempo e attraverso il duro lavoro, altrimenti tutto perde di significato, tutto viene svilito.
Tra gli stilisti ai quali accosto senza indugio il prezioso appellativo figura Lee Alexander McQueen.
Faccio parte di coloro che, alla notizia del suicidio di Lee, come semplicemente lo chiamavano tutti, hanno perso un pezzo di cuore.
E divento tuttora indicibilmente triste ogni volta in cui penso al fatto che, quel maledetto 11 febbraio 2010, poco prima di compiere 41 anni, uno dei più grandi e visionari talenti mai esistiti nella moda si sia tolto la vita, fatalmente provato dall’abnorme carico di tensione, pressione, aspettativa sul fronte lavorativo nonché dai tormenti personali.
Lee era prima di tutto un sarto ed era poi uno stilista, aveva una personalità dirompente e sapeva essere disturbante come pochi, un vero sabotatore soprattutto dell’omologazione: davanti al suo lavoro era ed è impossibile rimanere indifferenti e impassibili e lui voleva esattamente questo.
Che fosse divertimento o disgusto, Lee voleva far provare un’emozione.
E, proprio come avrebbe voluto lui, è stata un’emozione forte e intensa poter assistere mercoledì sera alla proiezione di Alexander McQueen – Il genio della moda, il docufilm girato da Ian Bonhôte e Peter Ettedgui per raccontare la vita e il genio di Lee.
È un appuntamento che avevo messo in agenda da tempo e, nel buio e nel silenzio quasi irreale della sala di uno dei cinema più interessanti di Milano (Anteo Palazzo del Cinema dove avevo già visto il film dedicato ad Anna Piaggi), ho assistito con grande coinvolgimento alla ricostruzione minuziosa e veritiera del percorso e dei tormenti di Lee: posso assicurarvi che, in alcuni momenti, la tensione di tutti noi del pubblico era quasi palpabile.
Difficilmente mi è capitato di essere testimone di un silenzio così intenso come quello che ha segnato la fine di questa proiezione, mentre lasciavamo la sala, a testimonianza di quanto emotivamente impegnativo sia stato ciò che abbiamo visto poiché sì, è doloroso pensare che una persona così speciale sotto diversi punti di vista sia arrivata a sentirsi tanto disperata.
Il docufilm è davvero un pugno allo stomaco e fa capire fin troppo bene come genio e talento si siano pian piano quasi trasformati in una condanna aggravata da un costante senso di solitudine e vuoto affettivo (sentimenti tragicamente legati alla scomparsa della madre e alla scomparsa di Isabella Blow, amica e musa); fa capire come quei doni che privilegiano pochi esseri umani si siano trasformati in un vortice inarrestabile che ha poi inevitabilmente condotto Lee verso l’abisso, verso il baratro.
Per come si è sviluppata la sua vita, per Lee non esisteva epilogo diverso, molto probabilmente, ma questo mi fa sentire ancora più arrabbiata e quasi orfana. Leggi tutto