Pensieri a proposito delle elezioni regionali del 12 e 13 febbraio 2023

Ho scattato questa foto lunedì 13 febbraio, presso le scuole medie della mia zona, andando a votare in occasione delle elezioni regionali in Lombardia.

Quella mattina ero felice perché stavo andando a esercitare un diritto esprimendo la mia opinione e ho reputato questo murale come un buon auspicio.

L’effigie di Borsellino e Falcone insieme a quelle parole mi hanno fatto pensare che sì, esiste speranza se i giovanissimi credono che scuola e conseguentemente istruzione e cultura siano i peggiori nemici di quel cancro che è la mafia.

(E scusate per il bidone dei rifiuti nel mezzo ma non potevo spostarlo, i carabinieri giustamente mi tenevano d’occhio.)

Mentre scattavo, ero davvero colma di fiducia e ottimismo; ora, a pochi giorni di distanza, mi sento semplicemente una povera illusa, sconfitta, delusa e amareggiata, profondamente. E se mi sento così è perché moltissime persone hanno scelto di non votare, di non esprimere la propria opinione.

I dati dell’affluenza per le elezioni regionali di Lombardia e Lazio dicono che ha votato il 40% della popolazione avente diritto rispetto al 70,63% delle precedenti omologhe del 2018.

Sono dati agghiaccianti: indicano che, statisticamente, solo 40 persone su 100 hanno scelto di esercitare il proprio diritto di parola.

Non so per quale o quali motivi gli altri 60 – la maggioranza – abbiano rinunciato: penso sia per sfiducia e correggo la mia precedente affermazione, in realtà è anche questa un’opinione o un’idea.

Non votare è un po’ come dire «tanto non serve, la nostra voce non conta, i politici fanno comunque ciò che vogliono».
Non voglio pensare che dietro tale idea ci sia semplice disinteresse, temo che ci sia appunto tanta sfiducia. Leggi tutto

Perché a qualcuno potrebbe o dovrebbe «fregare» di andare a Lione

Sì, lo so: si parla da moltissimo tempo della ferrovia Torino – Lione, generalmente definita TAV (da treno ad alta velocità sebbene sarebbe in realtà una linea mista) e che andrebbe ad affiancare la linea storica già esistente tra la città italiana e quella francese.
Se ne parla spesso, tra infinite polemiche e malintesi, tra pro e contro, tra favorevoli e contrari; eppure confesso che, quando ho deciso di passare un paio di giorni proprio a Lione, non sapevo nulla della esternazione del nostro Ministro Toninelli.
Mi era sfuggito che, durante la trasmissione Coffee Break su La7, la mattina dello scorso 4 febbraio, il Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti del Governo Conte avesse dichiarato «Chi se ne frega di andare a Lione, lasciatemelo dire».
L’ho scoperto solo quando, instagrammando foto delle mie giornate lionesi, una persona simpatica e sempre piacevolmente ironica ha commentato: «Toninelli ti chiederebbe ‘ma che ci fai mai a Lione’… tu la risposta ce l’hai».

A Lione ci sono andata per accompagnare mio marito che doveva partecipare a un concorso internazionale di modellismo: per la precisione, Enrico costruisce e dipinge figurini e miniature storiche e fantasy.
E ci sono andata, anzi, tornata volentieri in quanto serbavo un ottimo ricordo della città che avevamo già visitato nel 2014: l’ho riscoperta anche più piacevole di quanto già fosse nei miei ricordi, con un’atmosfera vitale e frizzante che mi piace molto.

Parrebbe quindi, caro Ministro Toninelli, che vi sia qualche folle al quale andare a Lione interessi e che trova addirittura varie motivazioni per farlo.

Ora – non ho alcuna intenzione di scendere nel merito della questione della ferrovia Torino – Lione.
Né voglio parlare di politica o – meglio ancora – non desidero schierarmi pro o contro nessun partito.
E non avevo minimamente pensato di scrivere un post sul mio breve soggiorno ma, riguardando le foto che ho scattato a Lione, mi sono detta che l’esternazione del Ministro Toninelli era davvero infelice e ingiusta quanto fuori luogo.
Di conseguenza, se avete voglia di venire con me, ho il desiderio di condividere con voi qualche parola e qualche foto, senza alcuna polemica ma solo per elencare i motivi (oltre a quelli personali e soggettivi che ho finora citato) per i quali a qualcuno (o a molti) potrebbe invece «fregare» – eccome! – di andare a Lione.

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Gender gap vs women empowerment: la moda non è un lavoro per donne?

È da un bel po’ (precisamente da qualche mese) che medito sul contenuto di un articolo di Pambianco.

Dovete sapere che detta rivista è una delle mie preferite e che non manca mai tra le letture quotidiane: dunque, se intitola un articolo ‘Allarme gender gap, la moda non è un lavoro per donne’, ecco che Pambianco attira immediatamente la mia attenzione anche perché si tratta di un argomento che mi sta particolarmente a cuore.

Cosa sostiene l’autorevole magazine nell’articolo datato 22 maggio?

Viene citato uno studio intitolato ‘The glass runway’, redatto dal Council of Fashion Designers of America (CFDA), Glamour e McKinsey & Company: in questo studio si afferma che, sebbene le donne rappresentino l’85% delle laureate presso i principali istituti di moda americani, i ruoli chiave ricoperti da nomi femminili sono ben pochi.

Il mondo della moda – rincara la dose Pambianco – ha recentemente mostrato interesse per le diversità di orientamento sessuale e di taglia, ma non abbastanza per il gender gap.

Con gender gap si intende l’insieme di tutte quelle differenze che si riscontrano a livello di condizioni economiche e sociali (dall’istruzione fino all’accesso al lavoro) e che influenzano la vita degli esseri umani in base al loro genere di appartenenza: in parole povere, parliamo di disparità di condizione tra uomini e donne.
E generalmente, quando si parla di gender gap, si tende (purtroppo) a osservare l’esistenza di maggiori penalizzazioni a sfavore delle donne rispetto agli uomini.

«Non ne parliamo molto perché c’è la sensazione che tutti ne siano già a conoscenza, ma a volte è necessario dire qualcosa affinché le persone non facciano finta sia un problema inesistente», ha dichiarato Diane von Fürstenberg, presidente dello stesso CFDA.

I dati contenuti nello studio ‘The glass runway’ sono alquanto desolanti. Leggi tutto

Quando Rolling Stone ci invita a fare la nostra scelta…

Quella che vedete qui sopra è la copertina di luglio 2018 di Rolling Stone Italia, in edicola da oggi.
E io vorrei dire qualcosa in merito, soprattutto a chi sostiene che tale copertina sia esagerata, fuori luogo, populista, demagogica, sinistroide. Che si tratti di sciacallaggio, come ho letto da qualche parte.
Quel qualcosa che desidero dire non sono parole mie: le prendo in prestito dal tedesco Martin Niemöller (1892 – 1984), teologo, pastore protestante e oppositore del nazismo.
Le parole – che mi fanno pensare ogni volta in cui le rileggo – sono queste.

«Quando i nazisti presero i comunisti,
io non dissi nulla perché non ero comunista.
Quando rinchiusero i socialdemocratici,
io non dissi nulla perché non ero socialdemocratico.
Quando presero i sindacalisti,
io non dissi nulla perché non ero sindacalista.
Poi presero gli ebrei,
e io non dissi nulla perché non ero ebreo.
Poi vennero a prendere me.
E non era rimasto più nessuno che potesse dire qualcosa.»

Ho scelto i versi originari e originali di Martin Niemöller, ma esistono diverse versioni e anche interpretazioni e reinterpretazioni.
Le sue parole risultano così forti da aver avuto influenza su molte opere venute in seguito, come la canzone Yellow Triangle del cantante di musica folk irlandese Christy Moore; anche il duo musicale scozzese Hue and Cry ha parafrasato la poesia in una propria canzone e i versi hanno avuto un peso anche per la canzone Emigre del gruppo punk statunitense Anti-Flag.

Quando le scrisse, Niemöller si riferiva all’inattività degli intellettuali tedeschi in seguito all’ascesa al potere dei nazisti e agli obiettivi da loro scelti, gruppo dopo gruppo; la poesia è in seguito diventata un monito contro il pericolo dell’apatia sociale e politica, per sottolineare come essa possa trasformarsi in qualcosa che si ritorce proprio contro chi pensa di non essere toccato da certi fenomeni.
Contro chi è indifferente, apatico, chiuso nel proprio guscio che crede sia una protezione.

Io non desidero affatto dirvi cosa dovete pensare, amici che state leggendo.
Cerco di non farlo mai, in nessun ambito e su nessun argomento: mi limito a esporre il mio punto di vista e a esporre quante più possibilità mi vengono in mente.

Non sono dunque qui per dirvi se abbia ragione Matteo Salvini, Rolling Stone Italia o chi si schiera contro la rivista.
Non vi sto dicendo da quale parte stare, vi dirò semplicemente cosa farò io.

Io che credo nella libertà (a partire da quella di parola e di stampa) e che amo i diritti, io che i diritti li voglio per tutti (come ho scritto nel 2015 qui e nel 2016 qui), io che credo nelle persone di buona volontà e di pensiero indipendente, che siano di destra o di sinistra, bianche o nere, omosessuali o eterosessuali, italiane o straniere, io che amo il mio Paese e che lo vorrei vedere progredire veramente; domani, io che ho tutto ciò nella testa e nel cuore, andrò in edicola, comprerò Rolling Stone Italia e lo leggerò (qui trovate un’anticipazione, se volete).
Non solo: continuerò sempre a informarmi e continuerò sempre a tenere testa e cuore aperti.
Darò sempre a me stessa una, dieci, cento possibilità.

E vi dirò anche cosa non farò.

Io non mi farò rinchiudere in un recinto, anzi, non mi ci rinchiuderò da sola, non resterò indifferente, non farò finta che vi siano categorie umane alle quali non appartengo.
O che non mi interessano o che mi infastidiscono o che disturbano i miei interessi.
Io non penserò di essere protetta dal fatto di essere cittadina italiana figlia di cittadini italiani e discendente di cittadini italiani, non mi sentirò protetta dal fatto di essere bianca, di religione cattolica anche se non praticante, eterosessuale e coniugata.
Io non crederò che esista guscio che possa proteggermi.

Rolling Stone è stato fondato negli Stati Uniti 51 anni fa come periodico di musica, politica e cultura di massa.
Dal 1967 porta avanti i concetti di intrattenimento e di impegno sociale: è fallibile, come qualsiasi opera e associazione umana, ma ha tanta passione da darsi lo slogan «Sulla pietra che rotola non cresce il muschio».

Ovvero chi rifiuta di stare fermo sulle proprie posizioni, chi continua a muoversi… chi fa tutto ciò impedisce che il cervello si atrofizzi imprigionato dal muschio dell’indifferenza, dell’inattività, dell’apatia, della pigrizia, dell’indolenza, della paura.

E io chiedo questo, a me e a voi: diamo a noi stessi una chance, non aspettiamo di voltarci e di non trovare anima viva attorno a noi.
Io vedo in tutto ciò, nella copertina di Rolling Stone, un’occasione, una possibilità.
L’importante è non tacere, perché non prendere posizione e non avere un’opinione è cosa che mi terrorizza più di qualsiasi scelta, sicuramente molto più di una persona che la pensi in maniera diametralmente opposta alla mia.

Manu

Il ventaglio: solo vezzo e aria fresca? O c’è di più? (Buona la seconda)

Amo la bella stagione.

Della primavera e dell’estate amo praticamente tutto, ogni loro singolo manifestarsi.

Amo i ritmi che portano.
Amo i colori, i profumi, i sapori.
Amo la luce e amo il fatto che le giornate durino più a lungo.
Amo le serate fuori e le cene conviviali all’aperto. Amo i pranzi sotto le pergole.
Amo i cibi che si consumano d’estate, dai barbecue fino alla frutta, colorata, saporita, allegra.
Amo le vacanze o anche solo le gite al mare, perché d’estate sembra tutto più semplice, perfino essere felici sembra più a portata di mano. E di cuore.

Solo una cosa non mi piace: quando l’afa si fa esagerata e – conseguentemente – ci rende paonazzi, rossi come peperoni troppo arrostiti.
Ciò non è piacevole, lo ammetto, anzi, è piuttosto imbarazzante.

Un po’ per combattere questo inconveniente e un po’ perché amo le vestigia del passato (quando corrispondono a belle abitudini che valga la pena di conservare), parecchi anni fa ho iniziato a collezionare e usare i ventagli.

Non ricordo se io abbia fatto di necessità virtù, come si suol dire, ovvero se abbia iniziato per avere con me uno strumento che possa combattere il caldo o se sia stata semplicemente attratta dalla loro bellezza, dalla loro storia e dai loro molteplici significati.

Sia l’una o l’altra opzione, sta di fatto che, negli anni, ho messo insieme diversi ventagli di vario tipo. Leggi tutto

Buon lavoro, Presidente Trump. E non è un augurio ironico.

L’ho già ammesso: di politica non capisco granché.
Mi limito a scriverne, raramente e a modo mio, solo quando desidero trattare una delle numerosi interazioni che essa intrattiene con tutti gli aspetti della nostra vita e della nostra società.
Per esempio, ho parlato di pensieri e timori a proposito di Brexit; mi sono divertita a tracciare un piccolo excursus su come alcune donne di potere abbiano vissuto o vivano la moda; ho scritto di un certo tailleur viola indossato da Hillary Clinton.
Interazioni: ho scelto questo vocabolo appositamente e con cura, perché – che ci piaccia o no – la verità è che la politica riguarda tutti noi e che nessuno può (o dovrebbe) disinteressarsene, soprattutto nella sua forma più pura, ovvero come arte o tecnica di governare, far funzionare e far progredire la nostra società.
Dunque, nonostante io non sia un’esperta di tale (spinosa) materia, ho deciso di scrivere il presente post e di condividere la mia opinione semplicemente in veste di cittadina del mondo e in qualità di membro dell’umana comunità.

Opinione su che cosa?
Oggi, 20 gennaio 2017, Donald Trump presta giuramento diventando il 45° Presidente degli Stati Uniti nonché l’uomo più potente del mondo.
Credo di non aver nascosto né la mia poca simpatia verso Trump né le mie perplessità per quanto riguarda la scelta dei cittadini americani di eleggerlo, ma nutro un profondo rispetto della democrazia, dunque accetto la sua elezione – e invito tutti a farlo come primo gesto di civiltà e come presupposto dal quale partire.
Non so come sarà Trump nei panni di Presidente, non so se si rivelerà ottimo o pessimo, così come nessuno può saperlo in quanto non possediamo la cosiddetta sfera di vetro.
Certo, tanti presupposti non mi fanno stare serena e sicuramente ho il (grande) timore che Trump dimostri che i suoi tanti detrattori abbiano ragione, ho il timore che possa mantenere tante delle minacce più o meno velate che ha fatto.
Vedete, in questa fase, arrivati al dunque e archiviata la presidenza Obama, non mi interessano nemmeno più certe polemiche che finora ho magari trovato pittoresche, definiamole così.
Per esempio, non mi interessano le polemiche su chi voglia o meno esibirsi per Trump oppure su chi voglia o non voglia vestire sua moglie Melania. In tal senso, penso solo che ognuno sia libero di fare le proprie scelte in base a coscienza ed etica, personale e professionale, e faccio notare con grande rispetto una piccola contraddizione che ho rilevato leggendo giornali e soprattutto social network: è sciocco affermare (come spesso quasi tutti facciamo) che le persone famose si fanno facilmente comprare dai soldi o dal desiderio di apparire se poi non rispettiamo un loro no quando sanno dirlo, nel bene e nel male, giusto o sbagliato.
Non mi interessa nemmeno giudicare l’operato di Trump come businessman in quanto, da oggi, mi interessa piuttosto il suo operato come uomo di stato – salvo affiorino reati del passato.

L’episodio che invece al momento attira la mia attenzione e che rinnova i miei timori riguarda ciò che potrebbe accadere da oggi in poi è piuttosto lo scontro con Meryl Streep. Leggi tutto

Hillary Clinton e i significati di un tailleur dai dettagli viola

Hillary Clinton e il marito Bill in occasione del Concession Speech del 9 novembre 2016 a New York (Photo Getty Images through Vogue)

Lo ammetto: dopo l’esito delle elezioni negli Stati Uniti, sono rimasta sotto shock per qualche giorno, al punto tale da non riuscire a scrivere nemmeno due righe sui social, Facebook, Twitter oppure Instagram.
In particolare, sono scioccata dalla schiacciante vittoria di Donald Trump, ammetto anche questo; sono però ugualmente basita davanti a certi commenti e ad alcune reazioni sia pro sia contro il nuovo presidente.
Si sente e si legge di tutto: c’è perfino chi sostiene che non si possa parlare di una vera vittoria di Trump, quanto piuttosto di una sconfitta – pesantissima – della Clinton poiché il voto non sarebbe una scelta da leggere in positivo, bensì un rifiuto deciso e categorico diretto alla esponente del partito democratico. Mi spaventa il fatto che ciò possa essere la verità, mi sembra terribile votare non a favore di qualcuno in cui crediamo, ma contro un altro candidato.
Si parla anche di un ulteriore messaggio, ovvero della saturazione della gente rispetto alla politica, ai suoi giochi e ai suoi protagonisti più consumati, come Hillary, appunto: qualcuno si spinge fino ad affermare che tutto ciò influenzerà anche il referendum italiano del prossimo 4 dicembre.
Vedete, non so se invidiare chi nutre tutte queste certezze: io ho piuttosto una montagna di dubbi e interrogativi e nutrivo molte speranze sul fatto che, finalmente, un Paese come gli Stati Uniti fosse pronto a dare fiducia a una donna. Ora, morta la speranza, mi pongo un ennesimo quesito: gli americani hanno ragione? Hillary Clinton è una donna tanto pessima da non poterle dare fiducia e lo è al punto tale da preferirle un uomo considerato mediocre e non all’altezza da molti, perfino all’interno dello stesso partito repubblicano del quale fa parte?
In fondo, desiderio di una donna presidente a parte, ho nutrito io stessa diversi dubbi sulla candidatura e su certi atteggiamenti di Hillary (in parte ne avevo parlato anche qui nel blog a proposito di donne e politica): forse, la Clinton non era davvero la candidata giusta affinché il sogno, mio e di molti altri, si avverasse.
Oggi come oggi, dubbi personali a parte, faccio comunque fatica a comprendere fino in fondo la scelta degli americani, un popolo che stimo per molti motivi; eppure, pur non comprendendo e non riuscendo a condividere la loro scelta finale, non mi piace nemmeno chi dà loro degli idioti oppure degli ignoranti o ancora degli ottusi senza analizzare le ragioni profonde di questo voto.
No, non ci sto e non accetto tali generalizzazioni, così come non le accetto mai e in nessun caso.
Siccome mi piace colmare la mie lacune ascoltando gli altri, in tutti questi giorni sono stata zitta e mi sono posta in ascolto proprio per cercare di capire le ragioni dei cittadini degli Stati Uniti: per esempio, ho ascoltato spiegazioni a mio avviso interessanti grazie a Kay Rush, giornalista nonché conduttrice radiofonica e televisiva che stimo.
Kay è statunitense (è nata a Milwaukee nello Stato del Wisconsin) anche se è naturalizzata italiana: può ben dire di conoscere la mentalità americana ed è dunque in grado di tastare il polso dei suoi connazionali.
Ai microfoni di Radio Monte Carlo, Kay ha offerto punti di vista ai quali non avevo pensato o che non avevo considerato, proprio perché, non essendo americana e non vivendo negli Stati Uniti, sicuramente non posso conoscere a fondo l’animo di quel Paese (e mi permetto di dire che di questo dovremmo tenere conto tutti prima di esprimere giudizi basati su conoscenze sommarie e non dirette).
Il primo motivo per cui Hillary non è stata apprezzata da molti è il comportamento che tenne quando suo marito Bill, allora Presidente degli Stati Uniti, fu coinvolto nello scandalo con Monica Lewinsky: gli americani, ha spiegato Kay, amano le donne forti, orgogliose e indipendenti, quindi non hanno apprezzato che la Clinton sia rimasta sposata per ragioni giudicate di mero interesse politico. Inoltre, i cittadini statunitensi amano che alla Casa Bianca ci sia una vera coppia e una vera famiglia, condizioni non più riconosciute ai Clinton. Infine, un ulteriore motivo è una certa altezzosità della quale si accusa Hillary che si è un po’ messa su un piedistallo: prova ne è, secondo la giornalista, il fatto che la Clinton non si sia recata in diversi Stati durante la campagna, facendo sospettare di essere arrogante al punto tale da dare per scontata la vittoria in alcuni luoghi. L’ha fatto perfino in Illinois, il suo Stato di nascita, dove era (forse) ciecamente convinta di poter vincere proprio per un motivo di origini.
Ma gli americani non sono sciocchi (come afferma sbagliando qualcuno) e Hillary, insomma, pagherebbe oggi lo scotto del suo atteggiamento, le accuse di chi la taccia di essere una guerrafondaia (vedere il suo ruolo di Segretario di Stato in un periodo in cui il Paese è stato protagonista di molti interventi bellici) e le sue scelte all’epoca del Sexgate.
Anche il ritardo con il quale la Clinton ha fatto la telefonata di resa (quella con cui ogni candidato statunitense sconfitto ammette tale condizione) non è stato visto di buon occhio in un Paese in cui prendere atto della chiusura dei giochi è un gesto importante che apre la nuova fase che subentra a campagna elettorale e votazioni finite.
Anche in questo caso, si sono sprecate illazioni di ogni tipo, genere e grado, mentre già si iniziano a fare confronti (spesso impietosi e imbarazzanti) tra la First Lady uscente Michelle Obama e Melania Trump, la nuova padrona di casa alla White House.
Sinceramente, a me tutto ciò un po’ infastidisce, quasi quanto i risultati delle elezioni stesse ed esattamente come e quanto sono stata infastidita dalle polemiche (a mio avviso di bassissimo livello) che sono seguite all’ultima cena data da Barack Obama e che ha visto la partecipazione di Matteo Renzi, il nostro Presidente del Consiglio.
Per giorni, non si è parlato di altro che dei vestiti di Agnese Landini Renzi e di Michelle Obama, del loro peso, della loro taglia e della loro forma fisica, della loro bruttezza e / o bellezza (delle signore e dei vestiti), dei brand scelti e via discorrendo.
Voi direte: sarai contenta, ti occupi di moda. Eh no, cari amici, non mi piace che gli abiti vengano usati per discorsi banali, triti e superficiali né mi piace che vengano usati per giudicare le persone.
Visto che penso che sia un linguaggio, mi piace che la moda sia tirata in ballo per fare analisi stimolanti e interessanti in grado di aggiungere nuovi piani di lettura e inediti spunti di riflessione: la critica fine a sé stessa e che sfiora il pettegolezzo mi annoia e mi nausea, invece, e chi mi legge d’abitudine lo sa. Leggi tutto

Donne e politica: Hillary Clinton & Co… la moda è una cosa seria?

Donne.

Donne, politica.

Donne, politica, potere.

Donne, politica, potere, moda.

È così che, molto spesso, mi metto in testa certe idee. Parto da una parola, ne aggiungo un’altra e poi un’altra ancora. Nasce una fila (quasi) ordinata e, infine, metto a fuoco un pensiero.

In genere, c’è qualcosa che, in principio, cattura la mia attenzione, magari un fatto che sembra piccolo e isolato. Poi ne metto vicino un altro. Un altro ancora. Ed ecco che nasce un post per il blog, uno di quelli che di solito chiamo pensieri in ordine (quasi) sparso.

Credo che la suggestione alla base della sequenza donne, politica, potere, moda sia iniziata quando ho scritto il post sulla Brexit e sul referendum dello scorso 23 giugno, quello che sta conducendo all’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea.

Tra i tanti personaggi presenti in quel post, ho citato Margaret Thatcher e il primo referendum che ci fu nel 1975 nel Regno Unito per decidere se continuare a far parte dell’UE: il 67,2% per cento dei partecipanti votò per restare. Quell’anno, la Lady di Ferro, che divenne poi primo ministro nel 1979, sostenne la campagna per la permanenza della Comunità Europea: per correttezza e completezza d’informazione, occorre precisare che le sue posizioni europeiste cambiarono nel corso dei suoi mandati.

L’episodio che mi ha fatto pensare al suo rapporto con la moda accadde proprio in quel periodo.

A una manifestazione a favore del sì, la Thatcher indossò infatti un maglione diventato famoso come la maglia “9 bandiere”: di lana e a maniche lunghe, nero sulle maniche e sulla schiena, recava sul davanti le bandiere dei Paesi che facevano parte della Comunità Europea nel ’75, ovvero Belgio, Danimarca, Francia, Irlanda, Italia, Germania Ovest, Lussemburgo, Paesi Bassi e Regno Unito. Leggi tutto

Brexit, i miei pensieri tra sogni europeisti e british icon

Brexit… Leave or Remain? That is the question! (credit NextQuotidiano)

Non sono un’esperta né di politica né di economia: cerco di seguire entrambe perché mi interessano, ma la verità è che le notizie connesse spesso mi lasciano perplessa o disorientata.
Sulle questioni sociali sono molto decisa: se si tratta di condannare tragedie come gli omicidi di genere o di schierarmi per garantire uguaglianza di diritti a tutti, sono determinata e inflessibile, mentre su tante questioni politiche ed economiche sono dubbiosa e mi è più difficile farmi un’opinione definitiva e prendere una posizione assoluta.

Tutti sanno che il 23 giugno il Regno Unito ha votato sulla Brexit, ovvero l’uscita dall’Unione Europea.
Tutti sanno anche quale sia stato l’esito del referendum: il Leave ha prevalso con il 51,9% dei voti. I britannici che hanno votato Leave sono stati 17.410.742; il fronte Remain ha ottenuto 16.141.241 voti.
La Scozia, l’Irlanda del Nord e Londra hanno votato largamente per il Remain; il Leave ha prevalso nel resto d’Inghilterra e in Galles. Insomma, altro che… regno unito!

In parole povere, sarà Brexit, ovvero il Regno Unito lascerà l’UE.
E, intanto, gli effetti – tutti negativi, al momento – si fanno sentire.
La sterlina è andata a picco, Borse e mercati finanziari sono andati in rosso in tutto il mondo. Da giovedì scorso, regna una sensazione di incertezza per il futuro, soprattutto in campo economico.
David Cameron, il primo ministro britannico, si è dimesso.
L’Europa sta rispondendo a muso duro: Jean-Claude Juncker, presidente della Commissione Europea, seguita a ribadire la volontà di iniziare immediatamente i negoziati con Londra (che temporeggia) in vista della Brexit.
Pare che Scozia e Irlanda del Nord siano decise a non seguire la maggioranza inglese nel divorzio da Bruxelles e si parla di referendum (in Scozia) per sancire il divorzio.
Intanto, i pentiti del Leave aumentano e qualcuno chiede che il referendum venga ripetuto.
È un bel disastro, insomma, un autentico terremoto che scuote non solo il Regno Unito e non solo l’Europa.

Ecco, questa è una di quelle questioni politiche ed economiche molto ingarbugliate e nella quale ci sono infinite variabili: lascio le analisi profonde a chi se ne intende, tuttavia vorrei esprimere tre pensieri abbastanza precisi, soprattutto dal punto di vista sociale e culturale. Leggi tutto

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