Brexit, i miei pensieri tra sogni europeisti e british icon

Brexit… Leave or Remain? That is the question! (credit NextQuotidiano)

Non sono un’esperta né di politica né di economia: cerco di seguire entrambe perché mi interessano, ma la verità è che le notizie connesse spesso mi lasciano perplessa o disorientata.
Sulle questioni sociali sono molto decisa: se si tratta di condannare tragedie come gli omicidi di genere o di schierarmi per garantire uguaglianza di diritti a tutti, sono determinata e inflessibile, mentre su tante questioni politiche ed economiche sono dubbiosa e mi è più difficile farmi un’opinione definitiva e prendere una posizione assoluta.

Tutti sanno che il 23 giugno il Regno Unito ha votato sulla Brexit, ovvero l’uscita dall’Unione Europea.
Tutti sanno anche quale sia stato l’esito del referendum: il Leave ha prevalso con il 51,9% dei voti. I britannici che hanno votato Leave sono stati 17.410.742; il fronte Remain ha ottenuto 16.141.241 voti.
La Scozia, l’Irlanda del Nord e Londra hanno votato largamente per il Remain; il Leave ha prevalso nel resto d’Inghilterra e in Galles. Insomma, altro che… regno unito!

In parole povere, sarà Brexit, ovvero il Regno Unito lascerà l’UE.
E, intanto, gli effetti – tutti negativi, al momento – si fanno sentire.
La sterlina è andata a picco, Borse e mercati finanziari sono andati in rosso in tutto il mondo. Da giovedì scorso, regna una sensazione di incertezza per il futuro, soprattutto in campo economico.
David Cameron, il primo ministro britannico, si è dimesso.
L’Europa sta rispondendo a muso duro: Jean-Claude Juncker, presidente della Commissione Europea, seguita a ribadire la volontà di iniziare immediatamente i negoziati con Londra (che temporeggia) in vista della Brexit.
Pare che Scozia e Irlanda del Nord siano decise a non seguire la maggioranza inglese nel divorzio da Bruxelles e si parla di referendum (in Scozia) per sancire il divorzio.
Intanto, i pentiti del Leave aumentano e qualcuno chiede che il referendum venga ripetuto.
È un bel disastro, insomma, un autentico terremoto che scuote non solo il Regno Unito e non solo l’Europa.

Ecco, questa è una di quelle questioni politiche ed economiche molto ingarbugliate e nella quale ci sono infinite variabili: lascio le analisi profonde a chi se ne intende, tuttavia vorrei esprimere tre pensieri abbastanza precisi, soprattutto dal punto di vista sociale e culturale.

Primo pensiero: un sogno chiamato Europa…

Ricordo benissimo quando, a scuola, studiai la Comunità Economica Europea, la sua storia, le sue strutture: mi innamorai immediatamente di quello che mi sembrò un progetto immenso, un ideale meraviglioso. Da giovane idealista, mi innamorai del sogno e da allora non ho mai smesso di desiderare un’Europa unita, non ho mai smesso di essere una sostenitrice dell’europeismo.
L’Unione Europea incarna il mio sogno, quello di un mondo senza barriere.
Ecco perché sono delusa dal referendum britannico e dalla vittoria dell’euroscetticismo.
Ecco perché mi sento tradita nonché defraudata di una possibilità.
Ecco perché penso che questa scelta sia un errore.
Certo, non sono un’illusa: so che l’Unione Europea ha fallito in tante cose, so che è molto lontana dall’essere perfetta. So che c’è ancora tanto bisogno di lavorarci.
Eppure… io non smetto di credere che l’unione dell’Europa si possa e si debba fare, perché nelle unioni di intenti e di obiettivi – e non nel separatismo – risiede la nostra unica speranza di uscire dagli errori del passato.
Uscire dall’UE non è il modo di risolverne gli attuali limiti e mi preoccupa il fatto che questa idea si diffonda come un cancro: molti cavalcano l’idea anche in Italia e non sono mancate le dichiarazioni entusiaste da parte di alcuni nostri esponenti politici. Io non vedo nessuna vittoria nella Brexit, vedo solo lo sgretolarsi di un sogno.
Non ho mai avuto paura dei sogni e del lavoro che c’è per realizzarli: piuttosto mi fa paura chi li soffoca, chi li respinge, chi li nega, chi li bolla come utopie irrealizzabili. Chi sceglie di mollare anziché lavorarci.

Secondo pensiero: è vero che bisogna lasciare andare chi non vuole restare?

Qualche giorno fa, ho letto un articolo molto interessante, scritto da Fabio Scacciavillani, Chief Economist del Fondo d’Investimenti dell’Oman (uno che se ne intende, insomma, non una persona qualsiasi quale invece io sono).
Scacciavillani sostiene che, proprio se si è europeisti, bisogna vedere l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea come un bene. Perché? Riporto un significativo estratto del suo articolo.
«I vari governi del Regno Unito succedutisi nei passati 40 anni, all’interno delle istituzioni europee si sono distinti soprattutto per una pertinace azione di sabotaggio. Talora subdola, talaltra gretta, spesso sguaiata e arrogante. Qualsiasi progetto che consentisse sostanziali passi in avanti verso un’Europa federale con un’assemblea legislativa che approvasse leggi cogenti su tutto il territorio dell’Unione, con un esercito europeo e con un governo sovranazionale (e dunque una politica fiscale sottratta agli stati) trovava nel governo di Londra, indipendentemente dal colore, un’opposizione intrisa di xenofobia e di becera retorica. Per di più sbandierata in modo rozzo, invocando un fantomatico interesse nazionale per imbonire, attraverso la cinghia di trasmissione dei tabloid, l’elettorato più retrivo e ignorante.»
Il concetto, insomma, è quello che ho riassunto nel mio titoletto, «Bisogna lasciare andare chi non vuole restare»: Scacciavillani non ha torto, in effetti, però ho qualche piccola riflessione.
Pare che ad aver votato per il Leave sia stata soprattutto la fascia più anziana della popolazione britannica: parecchi osservatori dicono che, così facendo, questi cittadini hanno deciso per il futuro dei giovani negando loro una possibilità futura.
Se però si va ad analizzare la situazione dettagliata, è possibile fare delle scoperte, non bellissime, peraltro.
Infatti, se è vero che i cittadini di età superiore ai 65 anni hanno votato in forte maggioranza per uscire dall’Unione Europea (60%), è anche vero che questa classe ha più in generale votato (83%), mentre i giovani – benché abbiano espresso la propria posizione contraria alla Brexit – sono stati protagonisti di una partecipazione al voto decisamente inferiore (36% nella fascia d’età 18-24, secondo Sky Data).
I dati mostrano dunque un grande divario generazionale, non solo in relazione all’espressione del voto, ma anche per quanto riguarda il fatto di recarsi alle urne. I giovani britannici – e soprattutto quelli under 24 – hanno in questo modo delegato ai più anziani la scelta sul proprio futuro.
Se si unisce questo dato al divario di voto dei quattro Paesi che compongono il Regno Unito (in Inghilterra, addirittura, il divario è interno, tra Londra e il resto della nazione), il quadro che risulta è quello di una forte frattura: non è corretto, dunque, dire che il Regno Unito vuole l’uscita dall’Unione Europea, per giunta con un margine di differenza tra i due fronti bassissimo.
E allora mi chiedo: è giusto fare di tutta l’erba un fascio (per me non lo è mai), sostenendo che è meglio avere il Regno Unito fuori dall’UE? Senza il Regno Unito, l’UE risolverà i suoi problemi?
È giusto abbandonare tutti i britannici al volere «dell’elettorato più retrivo e ignorante», per usare le parole di Scacciavillani?
È giusto condannare i giovani che, forse, sono confusi davanti all’orgia di informazioni spesso fuorvianti se non false, disorientati come a volte lo sono io stessa sebbene sia molto più grande di loro?
Qualcuno dirà «È la democrazia, cara, la maggioranza vince»: lo so ed è vero, eppure permettetemi di dire che non mi consola molto né credo consolerà tutti i cittadini britannici che non volevano la Brexit.
E se invece state pensando «Ma cosa te ne frega, noi abbiamo già i nostri problemi, nel Regno Unito penseranno ai loro»… beh, vi faccio notare con estremo rispetto che, allora, il sogno dell’Europa unita è davvero finito. Ovunque, non solo in U.K, non nelle urne, ma nelle nostre teste prima di tutto.
E tutti, nessuno escluso, abbiamo irrimediabilmente perso qualcosa. E ci stiamo dichiarando sconfitti da soli.

Terzo pensiero: la trasversalità della cultura e le british icon che non tramonteranno, Brexit o non Brexit…

Lo ammetto, mi dispiace che ad aver dato il via a tutto ciò sia stato il Regno Unito, Paese che ha sempre goduto della mia ammirazione e della mia stima.
Mi sembra ieri quando ci andai per la prima volta, appena 15enne, in college, come studentessa per uno stage estivo: il mio primo viaggio da sola, le prime boccate di libertà, i primi approcci diretti con una cultura che, per chi come me è innamorato di storia, arte, letteratura, moda, contiene innumerevoli punti di riferimento.
Ricordo l’impressione che mi fece Londra, nonostante io arrivassi da una grande città come Milano. Ricordo l’entusiasmo con il quale mi immersi nell’atmosfera cosmopolita e multietnica che si respirava nella capitale inglese.
In fondo, già nel 1700, il poeta e saggista Samuel Johnson scrisse «When a man is tired of London, he is tired of life, for there is in London all that life can afford!», ovvero «Quando un uomo è stanco di Londra, è stanco della vita, perché a Londra c’è tutto ciò che la vita può offrire».
Dal mio stage sono passati molti anni e, nel frattempo, la mia vita si è riempita di modelli, icone e miti (più o meno pop); molti sono Made in United Kingdom e hanno abbracciato i settori più disparati.
Ho imparato a conoscere e ad amare la musica britannica.
Ho ascoltato (in ordine puramente sparso…) i Beatles e i Rolling Stones. Bob Geldof. I Led Zeppelin. David Bowie (piangendo la sua scomparsa). Bryan Ferry. Rod Stewart. I Queen e Freddie Mercury. Gli Ultravox. I Pink Floyd. I Dire Straits. I Police e Sting. Gli Who, i Clash, i Cure. I Genesis, Phil Collins e Peter Gabriel. I Simple Minds. I Tears for Fears. I Depeche Mode. Gli U2. I Level 42. Annie Lennox. Gli Wham! (e George Michael e, idem, piangendone la scomparsa), i Duran Duran, gli Spandau Ballet, i Pet Shop Boys, i Talk Talk. Sinéad O’Connor. I Culture Club e Boy George. I Simply Red. Le Spice Girls. Amy Winehouse. Adele. Duffy. Il movimento Britpop, da Robbie Williams a gruppi come gli Oasis e i Coldplay.
(E chissà quanti ne sto dimenticando nella foga del momento…)
(E lo ammetto, non sono stata molto precisa nel fare distinzioni tra Regno Unito con le sue quattro Home Nations da una parte – Inghilterra, Scozia, Galles, Irlanda del Nord – e Repubblica d’Irlanda dall’altra, separata fin dal 1922… anche perché avrei dovuto lasciar fuori esponenti del calibro degli U2 e di Sinéad O’Connor, per esempio…)
Ho apprezzato attori del calibro di Sean Connery, Roger Moore, Antony Hopkins, Judi Dench, Helen Mirren. Audrey Hepburn.
(Per inciso: circa 280 personalità dello showbiz britannico, dell’arte e della moda hanno firmato un lungo e accorato appello che recitava, tra l’altro, che un Regno Unito «nell’Unione Europea non è solo più forte, ma anche più creativo e con più immaginazione e il nostro successo creativo globale verrebbe duramente indebolito da un abbandono».)
Ho studiato i movimenti sociali e culturali, dal punk (con i Sex Pistols) alla Swinging London.
Ho studiato le gesta di Mary Quant e dei sarti di Savile Row. Ho sognato la Central Saint Martins.
(Altro inciso: a proposito di università e studio, forse gli studenti europei, inclusi gli italiani, non avranno più accesso alle facilitazioni come avvenuto finora.)
Ho amato personalità come Lee Alexander McQueen (qui un mio post..). Vivienne Westwood. Philip Treacy. Isabella Blow.
Ho ammirato giornalisti e redattori, da Anna Wintour a Grace Coddington. Le modelle, da Kate Moss a Cara Delevingne (di lei ho parlato varie volte).
Ho amato i fotografi – e cito Cecil Beaton, Rankin (ne ho anche scritto qui), Don McCullin.
Ho letto William Shakespeare, ritenuto il più eminente drammaturgo della cultura occidentale. Oscar Wilde.
Ho perfino seguito la politica, con figure come quella di Margaret Thatcher, una delle donne più forti e toste che siano mai esistite.
(Terzo inciso: nel 1975, nel Regno Unito ci fu un primo referendum per decidere se continuare a far parte dell’UE e il 67,2% dei partecipanti votò per restare. In quell’anno, la Lady di Ferro, che divenne poi primo ministro nel 1979, era stata da poco eletta leader del Partito Conservatore e sostenne la campagna per la permanenza della Comunità Europea. Per correttezza, occorre dire che le sue posizioni europeiste cambiarono nel corso dei suoi mandati.)
Ho osservato e seguito le vicende della British Royal Family.
L’elenco non è affatto esaustivo e sono sicura, nella foga del momento, di aver tralasciato tanti nomi – lo ripeto…
Omissioni e rimbambimenti personali a parte, c’è una cosa che tengo a dire e a sottolineare fortemente: non c’è referendum o Brexit che potrà mai privarci di tutto ciò.
Idee, riferimenti, miti, icone continueranno – per fortuna – a essere trasversali, ad appartenerci, a unire le generazioni e tutti coloro che credono nell’universalità della cultura e della bellezza.
Perché cultura e bellezza ignorano – per fortuna – la nostra propensione a mettere paletti: esse rifiutano di avere genere, sfuggono alle definizioni soprattutto vincolanti, valicano le linee di confine che tracciamo, mischiano le carte unendo cose e persone apparentemente lontane.
Il tutto sopra le istituzioni nazionali e internazionali, oltre i passaporti, oltre a essere fuori o dentro la Comunità Europea, oltre i confini di qualsiasi Stato o i limiti di qualsiasi Unione sovranazionale.
Nessuno potrà mai privarci di questo né dei sogni né degli ideali.
E – per paradosso – questi sogni possono unire perfino europeisti ed euroscettici…
Anzi, il sogno dell’Europa unita era proprio questo, doveva essere questo…

Margaret Thatcher indossa la maglia “9 bandiere” a una manifestazione per la permanenza del Regno Unito nell’UE, Londra, 4 giugno 1975 (photo credit P. Floyd/Daily Express/Hulton Archive/Getty Images)
Margaret Thatcher indossa la maglia “9 bandiere” a una manifestazione per la permanenza del Regno Unito nell’UE, Londra, 4 giugno 1975 (photo credit P. Floyd/Daily Express/Hulton Archive/Getty Images)

Sarà il tempo a dirci dove ci porterà la Brexit.
Io, intanto, voglio sperare che ci saranno sempre sognatori, idealisti e visionari che faranno vivere quelle che a tanti sembrano solo utopie irrealizzabili.
Perché, come scriveva proprio William Shakespeare, «Siamo fatti anche noi della materia di cui son fatti i sogni; e nello spazio e nel tempo d’un sogno è racchiusa la nostra breve vita».
E quel sogno sopravvive, ben oltre i nostri limiti mortali.

Noi, però, intanto pensiamo. Pensiamo se le separazioni rappresentino davvero una soluzione.

Manu

 

In nome della trasversalità della cultura nonché della libera circolazione di pensieri e idee, vi lascio il link dell’articolo di Fabio Scacciavillani.

A proposito di British Royal Family… un mio articolo per SoMagazine

 

 

 

 

 

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Manu

Mi chiamo Emanuela Pirré, Manu per gli amici di vita quotidiana e di web. Sono nata un tot di anni fa con una malattia: la moda. Amo la moda perché per me è una forma di cultura, una modalità di espressione e di comunicazione, un linguaggio che mi incuriosisce. Scrivo e creo contenuti in ambito editoriale, principalmente proprio per la moda. Insegno (Fashion Web Editing, Storytelling, Content Creation) in due scuole milanesi. Vivo sospesa tra passione per il vintage e amore per il futuro e sono orgogliosa della mia nutrita collezione di bijou iniziata quando avevo 15 anni. Per fortuna Enrico, la mia metà, sopporta (e supporta) entrambe, me e la collezione, con pazienza e amore. Oltre a confessare un'immensa curiosità, dichiaro la mia allergia a pregiudizi, cliché, luoghi comuni, conformismo e omologazione. Detesto i limiti, i confini, i preconcetti – soprattutto i miei – e mi piace fare tutto ciò che posso per superarli. La positività è la mia filosofia di vita: mi piace costruire, non distruggere. Moda a parte, amo i viaggi, i libri e la lettura, l'arte, il cinema, la fotografia, la musica, la buona tavola e la buona compagnia. Se volete provare a diventare miei amici, potete offrirmi un piatto di tortellini in brodo, uno dei miei comfort food. Oppure potete propormi la visione del film “Ghost”: da sognatrice, inguaribile romantica e ottimista quale sono, riesco ancora a sperare che la scena finale triste si trasformi miracolosamente in un lieto fine.

Glittering comments

Marco
Reply

Non vogliono rimanere in Europa? Che se ne vadano. Semplice.

Manu
Reply

Carissimo Marco,
Per prima cosa desidero dirti che sono felice di ospitarti in questo mio piccolo spazio: benvenuto 🙂
Venendo a noi: affermi che la cosa è semplice, che se il Regno Unito vuole andarsene occorre lasciarlo andare.
Mi permetto di dire che, a mio avviso, la questione non è semplice, sotto diversi punti di vista, e ti faccio un piccolo esempio pratico.
Mi sono dimenticata (e chiedo scusa) di scrivere che, per quanto riguarda il fronte Remain, oltre a Scozia, Irlanda del Nord e Londra, anche Gibilterra si è schierata in tal senso.
I 30mila abitanti di Gibilterra, territorio britannico d’oltremare, hanno dato un’indicazione estremamente chiara: il 95% dei cittadini ha votato per il Remain, rimanere nell’UE. Ma ora si profila tutt’altro scenario per la piccola penisola nel sud del territorio iberico, nel cuore dell’Europa.
E si tratta di un paradosso, tant’è che la Spagna ha annunciato di voler spingere per la co-sovranità di Gibilterra.
Ecco, a me questo sembra uno scenario per niente semplice, carico di mille implicazioni e difficoltà. E quelle persone si troveranno in piena Europa ma fuori dall’Europa…
Ti auguro buona settimana,
Manu

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