Quando sono compassione ed empatia a finire in croce

Ho letto molte opinioni sulla morte di Andrea Papi, il giovane uomo ucciso da un’orsa nei boschi nella provincia di Trento, sembrerebbe per istinto di difesa verso i propri cuccioli.

Queste letture mi hanno lasciata basita se non sconvolta e a sconvolgermi sono in particolare i commenti social di moltissime persone.

Non mi riferisco certo a chi non vuole la morte dell’orsa, ma a chi manca completamente di qualsiasi forma anche minima di empatia, solidarietà e compassione verso Andrea nonché di rispetto verso la sua famiglia e il loro dolore.

Va bene anzi benissimo la solidarietà verso l’orsa, ma i commenti agghiaccianti verso Andrea, le certezze assolute nel giudicare i suoi comportamenti senza sapere niente né di lui né della sua vita… ecco, come vanno inquadrati?

Anche a me fa orrore chi chiede a gran voce la mattanza degli orsi trentini, ma non dimentico la morte di Andrea, non oso (e non voglio) immaginare gli ultimi istanti della sua vita, non oso immaginare lo straziante dolore dei suoi cari. E soprattutto non giudico una persona che non conoscevo esattamente come non la conosceva chi oggi sputa facili e ovvie sentenze via social.

Tantissimi sono pronti a giudicare, a emettere sentenze e giudizi inappellabili e definitivi, a ergersi a esperti, sempre e comunque, questa volta esperti di orsi e della loro gestione.

In Trentino c’è un evidente e grosso problema, ma io, per esempio, non ho la più pallida idea di come risolverlo perché non è il mio campo e non sono sufficientemente preparata; mi limito quindi a tacere e anche a non giudicare né Andrea né i suoi comportamenti, tanto più che non vivo in quella zona e dunque non vivo sulla mia pelle le consuetudini e la quotidianità di quei luoghi e degli abitanti.

Avrei continuato a tacere sulla questione proprio perché non sono competente, ma ora – basita dalla durezza delle troppe cose lette – mi piacerebbe chiedere ai tanti esperti e ancora di più ai tanti spietati giudici se le loro scelte siano sempre perfettamente assennate e precise, ineccepibili e inattaccabili. Leggi tutto

Un saluto a Maurizio Costanzo da una ex bambina che lui ha influenzato…

Ero solo una bambina quando esordì il Maurizio Costanzo Show.

Nonostante fossi in un’età decisamente acerba, mi innamorai da subito e istintivamente di quel modo così particolare di fare giornalismo in televisione e ora mi fa sorridere pensare che, sicuramente, all’epoca, nemmeno sarei stata capace di spiegare con precisione cosa significasse il termine «giornalismo».

Ricordo quante discussioni avevo con mia mamma – che è sempre stata severa, rigorosa e inflessibile quanto a orari e disciplina – per ottenere di restare ancora un po’ in piedi e poter carpire ancora qualche minuto di trasmissione.
Lei teneva al fatto che io dormissi a sufficienza per poter affrontare bene la scuola il giorno dopo, io avrei preferito restare ad ascoltare l’uomo che tanto mi affascinava nonché i suoi ospiti sempre curiosi e interessanti.

E ricordo anche un episodio di diversi anni dopo.

Non ho la più pallida idea di quale trasmissione si trattasse, ma rammento che si chiedeva agli intervistati, persone fermate casualmente per strada, di citare i propri personaggi televisivi preferiti.
Una persona iniziò a snocciolare il proprio elenco e, nel bel mezzo, aggiunse «e poi Maurizio Costanzo Show».
Disse proprio così, non Maurizio Costanzo bensì Maurizio Costanzo Show, un piccolo errore, una simpatica e ingenua svista che, in realtà, era molto sintomatica e rappresentativa.
Indicava quanto fosse quasi impossibile separare lo show, ovvero la creatura, da Costanzo, ovvero il creatore, quanto fossero profondamente e intimamente fusi insieme in un unico concetto radicato nella testa, nel quotidiano e nell’immaginario non solo di quella persona, ma di moltissimi altri, ne sono certa, milioni di spettatori appartenenti a diverse generazioni.

Maurizio Costanzo era ed è sinonimo di talk show, sinonimo di un certo modo di fare televisione, interviste, giornalismo; incarnava e incarna il modo e il mondo che, fin da bambina, mi hanno affascinata e che hanno contribuito a farmi desiderare di fare quello che per me è il mestiere più bello e appassionante del mondo, ovvero comunicare, raccontare, condividere.

Buon viaggio, Maurizio, e grazie per quelle serate nonché per quell’amore precoce e istintivo e per quel seme che hai posto in me così come in molti altri.

Manu

P.S.: oggi ho guardato i funerali di Maurizio Costanzo in tv e mi sono commossa quando la figlia Camilla ha letto una lettera a nome suo e dei fratelli Saverio e Gabriele. Da venerdì, giorno della scomparsa di Costanzo, non avevo mai pianto ma oggi, davanti alle parole di Camilla e a quel «papino», lo stesso nomignolo che uso per il mio, mi si sono riempiti gli occhi di lacrime. Ringrazio Camilla, Saverio e Gabriele per la generosità del pensiero rivolto verso i «molti figli acquisiti» del loro papà ♥

 

Omaggio a Giusi Ferré, maestra della bella scrittura

Ognuno ha le proprie icone, persone che rappresentano i nostri ideali e valori oppure che simboleggiano le nostre aspirazioni più grandi e che sono dunque un esempio, un modello al quale puntare.

Quanto a modelli e aspirazioni, io non ho dubbi: i miei fari sono Anna Piaggi e Giusi Ferré, due donne immense nell’ambito del giornalismo di moda.

Purtroppo non sono riuscita a conoscere Anna Piaggi di persona (ma continuo a cercarla attraverso ogni cosa e opera che parli di lei), mentre ho avuto il dono di incontrare parecchie volte Giusi Ferré.

Lei, naturalmente, non mai saputo chi fossi e non lo dico con orgoglio ferito né con rammarico: era nell’ordine giusto e naturale delle cose poiché io sono nessuno, una tra le tante e i tanti, mentre lei era unica, la maestra della parola e della bella scrittura, la giornalista sopraffine, la testimone diretta della moda degli ultimi 50 anni nonché amica, guida e consigliera di molti stilisti, il modello e l’icona per quei tanti come me, la donna capace di dare voce a mille e più racconti che io desideravo ardentemente ascoltare.

Il 14 aprile questa voce si è purtroppo spenta per sempre e io mi permetto di renderle omaggio con tre ricordi personali.

Parto dalla prima volta che incontrai Giusi Ferré.
Attirai la sua attenzione involontariamente, grazie a una fantasiosa collana che indossavo: di quel giorno (era il 2013) resta una foto insieme in cui io ho un sorriso che va da un orecchio all’altro, quel tipo di sorriso che solo un’icona riesce a dipingerci sul volto in una sorta di sogno che si avvera.
Quella foto è qui nel blog, ma non la tiro fuori oggi… Leggi tutto

Il mio (inutile) punto di vista a proposito di parlare o non parlare di Ucraina

Sono profondamente amareggiata nel leggere così tante polemiche attorno ai modi in cui ognuno di noi decide di affrontare la terribile questione Ucraina – Russia.
E ho la spiacevole sensazione che – qualunque cosa si faccia – si sbagli…

Se si continua a fare il proprio lavoro si viene tacciati di insensibilità; se lo si interrompe o si fa un gesto che vuole essere di solidarietà si viene accusati di essere in cerca di visibilità o pubblicità.
Se non se ne parla si viene accusati di menefreghismo; se se ne parla si viene invitati a tacere con frasi tipo «lasciamo parlare chi se ne intende».
Se si fa qualcosa… «perché per l’Ucraina sì e per altre guerre no».

È assurdo.
Io penso che ognuno abbia il proprio modo di reagire.
Penso che non parlarne non significhi e non comporti che invece non si ascolti e non ci si interessi / informi; penso che parlarne non voglia dire cercare visibilità ma tentare di esorcizzare le proprie paure.

Desidero dire solo una cosa e attenzione, non è né un giudizio né una presa di posizione, è solo una condivisione di pensieri.
Quando ero alle scuole superiori scoppiò la Guerra del Golfo.
Ricordo noi giovanissimi attoniti, disorientati, smarriti, impotenti e increduli davanti alle televisioni eccezionalmente accese a scuola con i notiziari e le immagini che fino a quel momento avevamo visto solo nei libri di storia.
Molti di noi (io compresa) scelsero di manifestare scendendo in strada e tanti ci criticarono dicendo «è inutile».
Forse avevano ragione, ma era il nostro sentire e il nostro reagire.

Allora non esistevano i social network, oggi sì; se allora una manifestazione o uno striscione andavano al limite su un giornale nazionale, oggi possono arrivare fino in Ucraina e forse dare un microscopico sostegno morale.
Idem per ogni altra iniziativa “simbolica”.
Tutto qui.

Detto ciò, concludo con una proposta: ognuno faccia ciò che può, ciò che riesce e ciò che sente.
Non perdiamo energie a criticare e cerchiamo di comprendere, la situazione gravissima ma anche gli altri e i loro atteggiamenti.
O almeno proviamo a rispettarli.

Dire no alla guerra è anche questo.

Manu ♥

 

 

 

*** Ho pubblicato questi stessi pensieri poco fa in Instagram.
Ho il desiderio che restino anche qui, visto che reputo i social network potenzialmente utili, come ho scritto,
ma allo stesso tempo anche fin troppo veloci… ***

 

 

Sono nata in Italia – e per questo sono privilegiata

Ho pubblicato i pensieri che seguono il 19 agosto in Instagram.
Ho il desiderio che restino anche qui, visto la velocità (che tutto cancella) dei social network…

Sono nata in Italia e, anche grazie a questo luogo di nascita, i miei genitori hanno potuto educarmi alla libertà e al rispetto.
Per essere nata in Italia ho potuto giocare, sognare, crescere a tempo debito e non precocemente, ho potuto decidere chi amare, scegliere chi frequentare.
Ho potuto e posso studiare.
Ho potuto e posso lavorare.
Ho potuto e posso fare scelte personali e professionali senza particolari costrizioni o limiti.
Ho potuto e posso viaggiare – com’è accaduto nei giorni scorsi (qui sopra sono a Étretat, in Normandia).
Ho potuto e posso ascoltare musica, visitare musei, vedere un film, prendere un aperitivo, pranzare o cenare fuori, usare Internet e utilizzare i canali social per potermi esprimere e poter ampliare le mie conoscenze.
Ho potuto e posso vestirmi, pettinarmi e truccarmi come mi pare.

Sono nata in Italia e poter fare tutte queste cose fa di me una privilegiata come lo sono la maggior parte delle persone che vivono nel cosiddetto Occidente.

Sono una privilegiata nel senso che Gino Strada attribuiva a tale termine, ovvero questi che dovrebbero essere normali diritti di tutti gli esseri umani sono in realtà privilegi solo di una parte dell’umanità.

Ne sono conscia, di questo privilegio, e ci sono giorni in cui questa consapevolezza mi manda in crisi, mi atterrisce e mi fa sentire sbagliata, un vero e proprio schifo, privilegiata solo e semplicemente perché nata nella parte “giusta” del mondo per un puro caso.

Ho sempre cercato – nel mio essere una minuscola nullità – di dare voce a chi non ha i miei stessi privilegi. So che non è sufficiente. E confesso che non ho soluzioni, al momento, per essere di maggiore utilità.
Però coltivo la consapevolezza (e quel tormento) nella speranza… non lo so, nella speranza – forse – di poter capire cosa fare, di più e meglio. Credo sia il minimo che ogni persona privilegiata debba fare, oggi più che mai, capire come mettere a buon frutto e non sprecare questi privilegi che non smetto di sperare (e sognare) possano trasformarsi in diritti.

Manu
Agosto 2021, pensando all’Afghanistan

In ricordo di Sarah Hegazi perché… gli altri siamo noi

C’è una notizia che mi tormenta da giorni.
È quella del suicidio della trentenne egiziana Sarah Hegazi (molte testate italiane scrivono Sarah Hijazi), attivista LGBTQ+.

Sarah viene arrestata nel 2017 nel suo Paese per aver alzato la bandiera arcobaleno al concerto della band libanese Mashrou’ Leila: agli amici racconta poi degli abusi, delle violenze e delle torture fisiche e psicologiche subite durante i due mesi in carcere.
Quando la rilasciano, Sarah viene pubblicamente additata per il suo gesto e per il suo orientamento sessuale: decide di lasciare l’Egitto e chiede protezione internazionale in Canada.
Le viene accordata e così lei parte, alla ricerca di un nuovo inizio: dal Canada continua a chiedere la liberazione degli attivisti nelle carceri egiziane.

Ma il dolore e il ricordo degli abusi subiti non passano: pochi giorni fa, Sarah Hegazi si è suicidata lasciando una lettera.

«To my siblings, I have tried to find salvation and I failed, forgive me.
To my friends, the journey was cruel and I am too weak to resist, forgive me.
To the world, you were cruel to a great extent, but I forgive.»

L’orrore generato dalla violenza ha vinto: il ricordo incancellabile ha infine sopraffatto Sarah.

Ed è successo mentre siamo nel Pride Month che si tiene a giugno di ogni anno dal 1970.
(Se non sapete perché: nel giugno 1969, la comunità LGBTQ+ fu protagonista di una serie di rivolte scoppiate in seguito a un raid della polizia di New York allo Stonewall Inn, club gay nel Greenwich Village. Un anno dopo la rivolta di Stonewall, l’attivista Brenda Howard ebbe l’idea degli eventi che oggi costituiscono il Pride Month.)

È successo mentre le umane ingiustizie continuano a mietere vittime.

È successo mentre ancora non vi sono né verità né chiarezza né giustizia per il nostro connazionale Giulio Regeni, torturato – e ucciso – a sua volta in Egitto nel 2016.
È successo mentre Patrick George Zaki, attivista egiziano e studente dell’Università di Bologna, resta in stato di detenzione preventiva anche lui in Egitto, per il suo lavoro in favore dei diritti umani e per le opinioni politiche espresse sui social media.

È successo quando non è trascorso nemmeno un mese (era il 25 maggio) dalla morte di George P. Floyd, l’uomo afroamericano che dopo quasi 9 minuti di agonia, nonostante con un filo di voce continuasse a ripetere «I can’t breathe», è stato soffocato dal ginocchio di Derek Chauvin, poliziotto bianco di Minneapolis in Minnesota, negli Stati Uniti.
La sua morte violenta e assurda ha scatenato proteste in tutti gli Stati Uniti e, a catena, in tantissime città nel mondo e in Europa, riportando al centro dell’attenzione il movimento attivista Black Lives Matter nato nel 2013.

Sembrerebbe, dunque, che intolleranza nonché odio razziale e religioso stiano soffocando il mondo.
Ci massacriamo gli uni con gli altri.
Inclusività… accettazione… rispetto… quando diventeranno parole più note, comuni e diffuse di intolleranza, razzismo, omofobia? Leggi tutto

Bob Krieger, il grande fotografo che io ricorderò anche per la sua simpatia

«Stamattina ho avuto il piacere di conoscere e ascoltare Bob Krieger in occasione dell’anteprima stampa della mostra che Palazzo Morando gli dedica.
Ed è così che ho scoperto qualcosa che non sapevo: oltre a essere un grande fotografo, uno dei fotografi che più hanno influenzato moda e costume a partire dagli Anni Sessanta (e questa parte mi era nota), ho scoperto che Krieger è anche un uomo simpatico, brillante e appassionato, davvero piacevolissimo da ascoltare, generoso quanto ad aneddoti ed esperienze.
Sono felice ogni volta in cui scopro che una persona nota è umile e non arrogante come invece sono molti anche senza essere conosciuti a livello mondiale…
E così, la cartelletta stampa con l’autografo e la dedica di Bob Krieger resterà tra i miei ricordi più cari.»

Sono le parole che ho scritto il 7 marzo 2019 dopo la conferenza stampa grazie alla quale ho avuto l’immenso onore di conoscere Bob Krieger.

Quando giovedì sera ho appreso della sua scomparsa… ero incredula.
L’ennesima scomparsa, l’ennesimo vuoto, l’ennesimo lutto per il mondo e non per quello della cultura, ma per l’intera umanità.

Silenziosa e pensierosa, gli do allora il mio saluto condividendo le foto che avevo realizzato quella mattina in occasione della conferenza stampa e dell’anteprima nonché riportando parte dell’articolo che avevo scritto per ADL Mag per raccontare la bella mostra di Palazzo Morando… Leggi tutto

Luis Sepúlveda e quelle lezioni (oggi ripetizioni…) di volo

«Mi trovo oggi a scrivere un omaggio per un uomo che non era un amico che frequentavo, eppure che tanto peso ha avuto per me, perché siamo fatti di concreto e di sogno, di frequentazioni reali e di affinità mai vissute nel quotidiano eppure ugualmente forti, di necessario e di voluttuario, di tangibile e di spirituale.»

Sono le parole che, tre anni fa, ho dedicato a George Michael: quando il 25 dicembre 2016 ha lasciato questo mondo, George ha portato con sé l’ultimo pezzo della mia adolescenza e in un post pubblicato qui nel blog avevo provato a spiegare perché si possa piangere e provare un dolore pungente per la scomparsa di una persona che non era un parente o un amico e che, eppure, aveva un ruolo preciso nella nostra vita.

Ieri, purtroppo, ho provato la stessa sensazione quando ho saputo che è scomparso lo scrittore Luis Sepúlveda, ucciso anche lui come troppe persone dal COVID-19.

E, ancora una volta, ho provato quella sensazione, la sensazione che una parte della mia vita stesse scomparendo insieme a lui.

Il suo romanzo ‘Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare’ uscì nel 1996, quando io una giovanissima donna.
Lo lessi quindi non come una favola per bambini, ma come una lezione magica e potente per adulti.
Ero in un momento particolare della mia vita e il libro e le sue parole mi attraversarono e mi trafissero, regalando anche a me il coraggio di volare.

Non ho mai dimenticato quella lettura e non ho mai dimenticato quale significato abbia avuto per me.
Conservo il libro gelosamente, mi è sempre rimasto caro ed è questo il motivo per cui oggi sento di aver perso una parte di me e della mia vita.

Ho pianto spesso nell’ultimo mese, ho pianto davanti alla televisione e leggendo i giornali, davanti a storie di persone mai conosciute, davanti a lutti che ho sentito come miei.
Sto male da un intero giorno eppure non sono riuscita a versare una sola lacrima per Luis Sepúlveda e la cosa peggiore è che sento il dolore in mezzo al petto e non riesco a farlo sciogliere, non riesco a tirare fuori il groppo che mi serra la gola.

Non riesco a scrivere altro, ma voglio condividere un pezzo della conclusione della Gabbianella e il Gatto.

«(…) “Bene, gatto. Ci siamo riusciti” disse sospirando.
“Sì, sull’orlo del baratro ha capito la cosa più importante” miagolò Zorba.
“Ah sì? E cosa ha capito?” chiese l’umano.
“Che vola solo chi osa farlo” miagolò Zorba.
“Immagino che adesso tu preferisca rimanere solo. Ti aspetto giù” lo salutò l’umano.
Zorba rimase a contemplarla finché non seppe se erano gocce di pioggia o lacrime ad annebbiare i suoi occhi di gatto nero grande e grosso, di gatto buono, di gatto nobile, di gatto del porto.»

Zorba il Gatto si riferisce a Fortunata, la Gabbianella alla quale insegna a volare in un romanzo che è una favola per i bambini e una lezione di vita per gli adulti.
Ed è lei, Fortunata, che lui resta a guardare fino a confondere pioggia e lacrime.

Ho deciso che in questo week-end rileggerò il romanzo sperando – in questo momento così complesso – di tornare a prendere qualche utile ripetizione di volo. Le sfide da affrontare oggi sono sicuramente diverse dalle difficoltà in cui mi agitavo quando lo lessi la prima volta e c’è bisogno di incoraggiamento, di tornare a ricordare che vola solo chi osa farlo.

Chissà, forse anche questo dolore che sento in mezzo al petto mi darà tregua. Forse.

Grazie e buon volo, Mr. Sepúlveda.

Manu

Io penso positivo: da Peter Lindbergh a Meghan Markle passando per Vogue

Il lancio della cover e del numero di settembre di British Vogue con gli scatti di Peter Lindbergh attraverso l’account Instagram del magazine

Il primo pensiero che ha attraversato la mia testa quando ho appreso della scomparsa di Peter Lindbergh è stato «non posso crederci».

Non me l’aspettavo (non vi era alcuna voce che potesse far temere per la sua vita) e non posso credere che lui non ci sia più perché, come ha ben scritto il mio amatissimo amico e maestro Stefano Guerrini in un suo post, «Mr. Lindbergh ci ha lasciato e di nuovo, dopo Franca, Anna, Isabella, Karl, sento che il mondo dal quale sono stato attratto e che mi ha fatto sognare è finito».

Franca, Anna, Isabella, Karl sono Franca Sozzani, Anna Piaggi, Isabella Blow, Karl Lagerfeld, ovvero alcune delle sue (e delle mie) icone in un mondo – quello della moda – sempre più orfano di personalità magari un po’ ingombranti ma indubbiamente straordinarie e sempre più pieno, invece, di personaggi vacui che fondano la loro celebrità su un’apparenza priva di qualsiasi spessore.

Alla luce di tutto ciò, capisco che una domanda potrebbe attraversare i pensieri di chi sta leggendo queste parole: «perché stai allora intitolando questo post ‘Io penso positivo’? Come si sposano la positività e la scomparsa di un grande fotografo?».

Avete tutte le ragioni per farvi (e farmi) questa domanda e io desidero rispondervi: non voglio che la tristezza vinca, non voglio salutare Peter Lindbergh tra le lacrime, non voglio che il legittimo cordoglio prevalga sullo straordinario lascito e sulla preziosa lezione che ci ha regalato attraverso il lavoro e il pensiero di tutta una vita.

E non voglio in fondo pensare che quel certo mondo tanto amato da Stefano e da me sia davvero finito.

Desidero invece rendergli omaggio con un post che, in realtà, era in programma già prima delle vacanze estive per raccontare quello che ora è diventato uno degli ultimi lavori di Peter Lindbergh, ovvero la copertina del numero di settembre di British Vogue intitolato ‘Forces for Changes’ e che vede come guest editor Meghan Markle, Sua Altezza Reale la Duchessa di Sussex.

Il post era già in programma, ebbene sì, e infatti, dopo l’incredulità, il secondo pensiero che mi ha attraversato la testa è stato «la vita sa essere davvero beffarda, strana, ironica». Leggi tutto

La scomparsa del grande Niki Lauda e le mie personali cicatrici…

Photo by Dawid Zawiła on Unsplash

Subire un’ustione grave equivale a vivere un trauma che dura tutta la vita.
Non si guarisce mai del tutto, non passa mai del tutto, non se ne esce mai del tutto.
Si resta, per tutta la vita, dei sopravvissuti, feriti e segnati – irrimediabilmente – nel corpo e nella mente.

Sono stata vittima di un incidente gravissimo e che ha messo a serio rischio la mia vita: ero molto piccola all’epoca, eppure ho precisi ricordi nella mia mente, ricordi che mi piacerebbe non avere perché vedo una me in versione mini in un momento di quasi inenarrabile sofferenza…
Come quando mi tolsero il dolcevita di lana che indossavo: era inverno, purtroppo, e a me sembrò di andarmene via insieme alla lana intrisa di caffè bollente…
Come quando stavo in piedi nella vasca da bagno, impietrita dallo choc, mentre tentavano di darmi sollievo…
Come quando una notte ardevo di sete nella camera asettica dell’ospedale: nonostante l’estrema umanità del personale medico e infermieristico, nonostante l’immenso e disperato amore dei miei genitori, nonostante sforzi e tentativi… la mia gola bruciava, disidratata…
Non vado oltre e perdonatemi se ho condiviso dettagli tanto dolorosi.

Oggi, oltre ai ricordi, porto i segni permanenti, evidenti e indelebili delle ustioni di terzo grado, segni che – da adulta e dopo molte lotte interiori – non ho infine voluto cancellare: ho sempre pensato che, pur avendoli talvolta detestati profondamente, fanno parte di me e hanno contribuito a rendermi chi sono oggi.
Ho già scritto di tutto ciò in un’altra occasione (qui) e credevo di aver così detto quanto avessi da dire: in realtà, la vita ci sorprende sempre e, a volte, ci fa capire che cose che pensavamo di aver superato in realtà non lo sono – e forse non lo saranno mai del tutto.
La vita ci ricorda, insomma, ciò che ho affermato in principio: rimaniamo dei sopravvissuti rispetto ad alcuni eventi traumatici delle nostre vite.

Nel post che ho appena citato, ho scritto una frase che, a rileggerla oggi, mi colpisce profondamente, una frase riferita a mia mamma: «ha curato le cicatrici del mio corpo e ha impedito che si formassero sulla mia anima».
Mi riconosco profondamente in tali parole, le penso davvero ed è proprio così: intendevo dire che – grazie a mia mamma e a mio papà e a come mi hanno educata e cresciuta – non mi sono mai vergognata delle cicatrici, non sono diventate né un complesso né uno scoglio. A volte sono perfino riuscita a dimenticarle.
Ammetto però anche che il trauma, il dolore, la paura… beh, sono un’altra cosa. Sono tutta un’altra partita.

E ammetto che, in varie occasioni, ho appunto capito di avere conti in sospeso con le mie cicatrici esterne e con le paure.
Come quella volta in cui, guardando in tv un programma che ricostruiva un incidente simile al mio, sobbalzai indietreggiando e rannicchiandomi sulla sedia, con le ginocchia al petto, chiudendomi, lo stesso gesto istintivo fatto proprio quel giorno lontanissimo.
Come ogni volta in cui vedere un bambino vicino a un fornello e a una caffettiera (i colpevoli del mio incidente) mi provoca una sofferenza che posso definire fisica, a me che ho una soglia altissima di sopportazione del dolore…
E poi… c’è qualcosa che credo di aver confessato a pochissime persone: quando ero bambina, avevo il terrore di morire in un incendio, di notte. Non un terremoto o un incidente o un altro cataclisma: avevo paura di morire bruciata, il dolore più grande che avessi assaggiato su me stessa…

E ora, negli ultimi giorni, a riaprire le ferite è stata la scomparsa di Niki Lauda.

Com’è noto, Niki Lauda ha incarnato il ruolo di autentica leggenda della Formula 1 ed è stato tre volte campione del mondo.
Il 1° agosto 1976, al Gran Premio di Germania, sul pericoloso circuito del Nürburgring, ebbe il più grave incidente della sua carriera, incidente che gli ha lasciato gravi danni fisici e il volto sfigurato a vita.
Mostrando immenso coraggio, Lauda decise di tornare al volante dopo solo 42 giorni dall’incidente, al Gran Premio d’Italia: le sue condizioni erano ancora precarie e fu necessario modificargli il casco per cercare di limitare lo sfregamento sulle lesioni non ancora cicatrizzate.
Seppur martoriato da tali ferite e nonostante le palpebre danneggiate non gli offrissero una visione totalmente corretta, si classificò quarto dimostrando di che pasta fosse fatto – quella appunto di un immenso campione.

Non oso paragonare nemmeno lontanamente le mie sofferenze a quelle di Niki Lauda, non oso nemmeno immaginare il dolore di bruciare imprigionato in un’auto.
So però che per lui ho sempre provato una stima e un’ammirazione sconfinate e una vicinanza e un’affinità per esperienze non paragonabili, lo ribadisco, ma che in qualche modo purtroppo mi appartengono.
E so che lui era anche le sue cicatrici e le sue sofferenze, come me. Molto più di me.
Si dice che fosse poco emotivo e fortemente determinato: agli occhi di chi lo conosceva appariva quasi come un computer, un nomignolo che si è portato dietro per tutta la vita proprio per la freddezza in pista e per la rara capacità di individuare in pochi istanti e con assoluta precisione i difetti di una macchina.

Sapere che non c’è più, che è scomparso a 70 anni dopo aver tanto lottato e dopo aver subito negli anni due trapianti di rene e uno di polmone, che è scomparso dopo aver continuato a inanellare successi e realizzazioni (ma comunque sempre troppo presto, 70 anni oggi non sono sinonimo di vecchiaia), è un fatto che mi rende molto triste.

Grazie per il tuo coraggio e per la tua tenacia, caro Niki Lauda, grazie per aver vissuto la vita al massimo, senza farti fermare né dai danni fisici né dalla paura.
Grazie per aver però saputo ascoltare la paura quando era sensato e intelligente farlo, come nell’ottobre del 1976 in Giappone, sul circuito del Fuji, quando ti ritirasti sotto un autentico diluvio e perdesti il mondiale. Grazie perché, quella volta, avesti il coraggio di avere paura, tu che eri sopravvissuto all’orribile rogo di pochi mesi prima.
Grazie per essere stato per me un esempio di resistenza, resilienza e coraggio – ripeto questo termine – e per avermi dato l’opportunità, osservandoti e seguendoti negli anni, di fare altri passi, dolorosi quanto necessari, nel superamento del mio incidente.
Perché io, proprio come te, ho sempre voluto vivere e non solo sopravvivere (tra l’altro anch’io, una volta, sono scesa in pista, letteralmente, al fianco di una giovane e valorosa campionessa che si chiama Michela Cerruti); dunque ho sempre preferito affrontare apertamente i miei fantasmi.
E capisco benissimo, sai, perché tu dovessi essere tanto freddo da apparire a qualcuno come un computer.

E ora, riposa in pace, Niki Lauda, mio amato campione: ti auguro davvero con tutta me stessa e con tutto il cuore che la terra ti sia lieve, ti auguro di volare libero e leggero come il soffione che desidero idealmente donarti…

Ho detto in altre occasioni come io creda che la scrittura sia talvolta anche una forma di autoterapia.
In questo post, la scrittura ha due declinazioni: la prima coincide con un atto di stima verso un uomo che è stato un simbolo per me e per moltissime persone; la seconda coincide con una seduta di autoanalisi, ebbene sì.
Torno a chiedere perdono a voi, miei cari lettori, per avervi coinvolti.

Manu

Cara Maria Vittoria Albani… questo è solo un arrivederci…

Stamattina, al mio risveglio, ho ricevuto una notizia per me scioccante, ovvero la scomparsa di Maria Vittoria Albani, colei che è stata giustamente definita la signora del gioiello moda italiano dalla professoressa Alba Cappellieri in un bellissimo articolo per Preziosa Magazine.

Si è spenta a 89 anni, per un brutto male.
«È stata creativa e combattiva, lucidissima fino a pochi giorni fa.»
Così ha scritto la persona che mi ha dato la notizia: vi confesso che, avendo avuto l’immenso onore di conoscere questa donna straordinaria, minuta di fisico ma vulcanica quanto a testa e cervello, non sono affatto sorpresa della vitalità che ha dimostrato fino all’ultimo.

Ho incontrato Maria Vittoria Albani per la prima volta quattro anni fa, in marzo 2015, quando il Museo del Bijou di Casalmaggiore, in collaborazione con Bianca Cappello, storica e critica del gioiello, ha allestito un’importante e bellissima mostra interamente dedicata a Ornella Bijoux, l’azienda fondata nel lontano 1944 da Maria Vittoria e dalla mamma Piera.

Anno dopo anno, la loro creatura si è trasformata in una griffe di costume jewellery mondialmente riconosciuta e che viene considerata una tra le più ricercate e apprezzate da intenditori e appassionati.

All’epoca, nel 1944, Maria Vittoria aveva solo 14 anni e la mamma, Piera Albani, era rimasta vedova: rilevare un campionario di bigiotteria fu per loro l’inizio di una nuova avventura – che continua ancora oggi con Simona e Marta, rispettivamente figlia e nipote di Maria Vittoria – e di una nuova vita.

I primi tempi furono all’insegna di grandi sacrifici: il campionario era sistemato in bauli e portato in giro in bicicletta per essere mostrato ai vari rivenditori e, in un’Italia in gran parte distrutta, le due donne si avventurano fino al sud, spesso ottenendo fortuiti passaggi.

Nonostante la giovanissima età, Maria Vittoria mostrò una straordinaria attitudine al disegno e alla composizione creativa e, già agli inizi degli Anni Cinquanta, divenne ufficialmente la disegnatrice di Ornella Bijoux: nel 1957, vinse il “Primo Concorso Nazionale Sorelle Fontana per l’Accessorio nell’Alta Moda”.

La storia di Ornella Bijoux si fonde dunque con le vicissitudini italiane: parla di coraggio, di autentico spirito imprenditoriale in un momento difficilissimo come quello del secondo dopoguerra, parla di due donne straordinarie e coraggiose che sono state artefici del proprio destino in un’epoca in cui nemmeno esisteva l’espressione women empowerment.

Quel pomeriggio del 21 marzo 2015, a Casalmaggiore, mi sono innamorata immediatamente di Maria Vittoria: a folgorarmi è stato proprio il suo carattere, un mix di vitalità, energia, entusiasmo, tenacia, volontà, talento, carisma, verve, competenza, il tutto condito da un’immensa gentilezza.

Le uniche cose che Maria Vittoria Albani non possedeva erano infatti la spocchia e l’arroganza: sono sempre stati gli altri a riconoscerle l’indiscussa importanza e grandezza.

Tornata a casa, ho scritto un post raccontando della mostra e narrando tutta la lunga e gloriosa storia di Ornella Bijou, Piera e Maria Vittoria, una storia costellata di successi e grandi realizzazioni: il titolo eloquente che ho scelto, “Ornella Bijoux, un’autentica icona italiana”, racconta tutta la mia ammirazione.

Un paio di mesi dopo, sono andata a trovare Maria Vittoria nel suo laboratorio di Milano: ricordo come fosse ieri la mia enorme emozione nel poter entrare nel suo mondo, quanto fossi onorata del fatto che lei avesse accettato di accogliermi nel suo regno.
La foto che vedete qui in alto è stata scattata proprio quel giorno: il sorriso racconta la mia felicità meglio di mille parole e, al collo, porto una delle creazioni di Maria Vittoria, una delle tante che lei mi ha permesso di provare nonché la mia preferita.
Anche quella volta, dai racconti e dalle scoperte, è nato un post intitolato “Maria Vittoria Albani, vorrebbe adottarmi?”.

Non me ne voglia la mia mamma – che adoro – né Simona, la vera figlia: quel titolo affettuosamente scherzoso voleva esprimere tutta la mia stima per una donna la cui creatività mi faceva desiderare di poter essere una figlia adottiva, io che ho scelto il nomignolo glittering woman.

Di quel pomeriggio nel suo laboratorio conservo anche un paio di ricordi nitidi e inediti che oggi condivido.

Il primo è che mi confessò di non indossare gioielli, con la sola eccezione delle spille: questa cosa mi incuriosì molto, mi incuriosì il fatto che la signora del gioiello moda non fosse anche un’utilizzatrice.

Il secondo ricordo è relativo a quando, prima di andare via, mi invitò a scegliere un suo pezzo: voleva farmi un regalo e il suo pensiero così gentile e delicato mi fece emozionare.
Non dimenticherò mai il suo sguardo intenerito davanti alla mia emozione che credo le avesse fatto comprendere quanto la ammirassi.

Da allora, negli anni, ci siamo incontrate tante volte, soprattutto in occasione degli eventi culturali legati a moda e gioiello: ci salutavamo sempre con grande entusiasmo e simpatia, una simpatia che sentivo essere reciproca.

In tali incontri, non mancavo di ammirare la sua innata eleganza senza fronzoli, ricordando ciò che mi aveva confessato quel pomeriggio in laboratorio: è vero, non portava gioielli se non qualche spilla eppure, per tutta la sua vita, ha sempre saputo con estrema precisione cosa noi donne amiamo indossare.
Tutto ciò grazie a un fiuto istintivo e infallibile, a un gusto squisito, a una curiosità inarrestabile e infinita: ed ecco perché, a 89 anni, Maria Vittoria è scomparsa essendo ancora giovane e vitale.

Non dimenticherò mai la sua energia e il suo entusiasmo.
Incontrarla e conoscerla, ascoltarla, visitare il suo laboratorio, aprire con lei cassetti e vetrine scoprendo infinite meraviglie: considero tutto ciò uno dei grandi regali che la vita mi ha fatto.

Ho scritto tanti post dedicati alle mie icone scomparse, uomini e donne che tanto hanno fatto nell’ambito dell’ingegno e della creatività.
In alcuni casi, ho avuto la fortuna di stringer loro la mano almeno una volta, come accadde con Krizia; in altri casi, nonostante la possibilità di vari incontri, non ho mai avuto l’ardire di farmi avanti, come accadde con Elio Fiorucci; in due casi, quelli di Angelo Marani e Maria Vittoria Albani, il dolore della scomparsa è aggravato dal fatto di aver avuto l’onore di intrattenermi e chiacchierare con loro in varie occasioni.

Ecco perché, oggi, mi sento un po’ orfana: sento di aver perso quella mamma adottiva per affinità elettiva.
Naturalmente, con tutto il mio più grande rispetto per il dolore della vera famiglia alla quale mi unisco in un affettuoso abbraccio.

Manu

Postilla del 30 aprile…
Ieri sono stata alla funzione in onore di Maria Vittoria Albani e il parroco della Chiesa di Santa Maria Segreta ha detto tante cose che hanno colpito il mio cuore, come quando ha parlato di lei come di una persona nella quale molti riconoscevano una figura di confidente e di riferimento all’insegna di una maternità diffusa (non ero poi folle a percepirla come una sorta di mamma adottiva per affinità elettiva…) o come quando l’ha descritta come persona capace di un’ironia leggera (specificando che è cosa ben diversa dalla superficialità e che, al contrario, è la rara capacità di saper distinguere le cose davvero serie riuscendo a ironizzare con leggerezza) o come quando ha raccontato di come si era inventata le spillette per il gruppo scout…
Che donna!
«Commemoriamo con la testa e ricordiamo con il cuore»: così ha concluso e non c’è dubbio che Maria Vittoria sarà ricordata con tanto cuore

Alexander McQueen – Il genio della moda: emozione e verità di un docufilm

Sembro (e sono) un’eterna entusiasta verso molte persone, cose, situazioni e questo si riflette nel linguaggio con il quale mi esprimo, ricco di termini positivi; eppure, in realtà, doso bene le parole – in generale e in alcuni casi specifici ancora di più.
Una delle parole che doso e quasi centellino è icona e mi piace dosarla con parsimonia soprattutto quando la accosto alla dimensione che più mi è congeniale tra le varie di cui mi occupo: mi riferisco alla moda.

Considero icone solo i più grandi e rivoluzionari sarti, couturier e stilisti e riservo l’appellativo solo a pochi (pochissimi) di quelli attuali.
Perdonate questa severità, ma icona ha un immenso valore ed è dunque qualcosa che ci si guadagna nel tempo e attraverso il duro lavoro, altrimenti tutto perde di significato, tutto viene svilito.
Tra gli stilisti ai quali accosto senza indugio il prezioso appellativo figura Lee Alexander McQueen.

Faccio parte di coloro che, alla notizia del suicidio di Lee, come semplicemente lo chiamavano tutti, hanno perso un pezzo di cuore.
E divento tuttora indicibilmente triste ogni volta in cui penso al fatto che, quel maledetto 11 febbraio 2010, poco prima di compiere 41 anni, uno dei più grandi e visionari talenti mai esistiti nella moda si sia tolto la vita, fatalmente provato dall’abnorme carico di tensione, pressione, aspettativa sul fronte lavorativo nonché dai tormenti personali.

Lee era prima di tutto un sarto ed era poi uno stilista, aveva una personalità dirompente e sapeva essere disturbante come pochi, un vero sabotatore soprattutto dell’omologazione: davanti al suo lavoro era ed è impossibile rimanere indifferenti e impassibili e lui voleva esattamente questo.
Che fosse divertimento o disgusto, Lee voleva far provare un’emozione.

E, proprio come avrebbe voluto lui, è stata un’emozione forte e intensa poter assistere mercoledì sera alla proiezione di Alexander McQueen – Il genio della moda, il docufilm girato da Ian Bonhôte e Peter Ettedgui per raccontare la vita e il genio di Lee.
È un appuntamento che avevo messo in agenda da tempo e, nel buio e nel silenzio quasi irreale della sala di uno dei cinema più interessanti di Milano (Anteo Palazzo del Cinema dove avevo già visto il film dedicato ad Anna Piaggi), ho assistito con grande coinvolgimento alla ricostruzione minuziosa e veritiera del percorso e dei tormenti di Lee: posso assicurarvi che, in alcuni momenti, la tensione di tutti noi del pubblico era quasi palpabile.
Difficilmente mi è capitato di essere testimone di un silenzio così intenso come quello che ha segnato la fine di questa proiezione, mentre lasciavamo la sala, a testimonianza di quanto emotivamente impegnativo sia stato ciò che abbiamo visto poiché sì, è doloroso pensare che una persona così speciale sotto diversi punti di vista sia arrivata a sentirsi tanto disperata.

Il docufilm è davvero un pugno allo stomaco e fa capire fin troppo bene come genio e talento si siano pian piano quasi trasformati in una condanna aggravata da un costante senso di solitudine e vuoto affettivo (sentimenti tragicamente legati alla scomparsa della madre e alla scomparsa di Isabella Blow, amica e musa); fa capire come quei doni che privilegiano pochi esseri umani si siano trasformati in un vortice inarrestabile che ha poi inevitabilmente condotto Lee verso l’abisso, verso il baratro.

Per come si è sviluppata la sua vita, per Lee non esisteva epilogo diverso, molto probabilmente, ma questo mi fa sentire ancora più arrabbiata e quasi orfana. Leggi tutto

Karl Lagerfeld, il Kaiser della Moda tra grandezza e umanità

Quando Franca Sozzani scomparve, nel 2016, mi trovai a confessare qui nel blog di nutrire una simpatia alquanto tiepida per lei sebbene invece la stima professionale fosse forte: ora mi ritrovo nella stessa situazione con lui, Karl Lagerfeld, il Kaiser della Moda scomparso il 19 febbraio.

Come ho già scritto in un post pubblicato nel mio account Instagram, c’è una cosa importante che ho imparato grazie al fatto di scrivere non solo per me stessa ma anche per i magazine che negli anni mi hanno dato fiducia: è andare oltre simpatie, antipatie e gusti personali per focalizzarmi obiettivamente su meriti e demeriti allo scopo di riuscire a fare un’analisi lucida.

Karl Lagerfeld – stilista, fotografo, illustratore e non solo – non mi era particolarmente simpatico per vari motivi, non ultime alcune sue esternazioni in merito agli scandali sessuali in ambito moda, ma è assolutamente innegabile che – esattamente come Franca Sozzani – anche lui ha avuto un ruolo fondamentale nella moda degli ultimi decenni vestendo i panni di direttore creativo di Fendi (dal 1965) e di Chanel (dal 1983) nonché della linea che porta il suo nome, senza dimenticare le esperienze da Pierre Balmain, Jean Patou e Chloé (dove è rimasto per 15 anni).
Innegabile è, infatti, che sia stato un uomo estremamente eclettico, un’icona luxury (vedasi Chanel e Fendi) eppure pop al tempo stesso (fu il primo stilista, nel 2004, a collaborare con H&M inaugurando il ciclo e il successo delle campagne di masstige del celebre colosso svedese, ovvero le collaborazioni con brand e designer), una persona dalla genialità e dal talento multiforme, un instancabile creativo, prolifico e stacanovista: era altrettanto noto per la spigolosità del suo fortissimo carattere, per non avere peli sulla lingua, per alcune sue stranezze.
Nei primi anni 2000, per esempio, Lagerfeld si sottopose a una dieta perdendo circa 40 chili in tredici mesi solo per vestire gli abiti dalla silhouette slim disegnati dallo stilista Hedi Slimane; tra i suoi eredi, figura la gattina Choupette che, da lui adottata nel 2011 e resa una star del web, sta ora per ereditare una parte della vasta fortuna del Kaiser.
In base alle volontà dello stilista riportate dal quotidiano Le Monde, Karl Lagerfeld non avrà funerali pubblici né una sepoltura: verrà organizzata una celebrazione privata durante la quale le sue ceneri saranno disperse insieme a quelle della madre e del grande amore, ceneri che lui aveva custodito sin dal giorno delle loro rispettive scomparse.
Il grande amore è Jacques de Bascher, famoso come il dandy nero, scomparso nel 1989 e mai dimenticato da Lagerfeld: per 18 anni, i due formarono una coppia insolita e ultra-moderna.
Dopo la scomparsa di De Bascher a soli 48 anni, Lagerfeld pare aver preferito dedicarsi all’amore per gli animali (si dice che non si sia mai ripreso del tutto dalla morte prematura di colui che è stato l’unico vero amore della sua vita): quella che potrebbe apparire come una stranezza, ovvero nominare la micia Choupette tra i suoi eredi, è in fondo il desiderio di assicurarle una vita serena.

Per quanto riguarda Chanel, sarà ora Virginie Viard, direttore del Fashion Creation Studio della maison e braccio destro di Lagerfeld per oltre 30 anni, a prendere le redini creative della griffe.
«In questo modo – si legge in un comunicato Chanel – l’eredità di Gabrielle Chanel e di Karl Lagerfeld si proietta nel futuro».
Auguro buon lavoro a Virginie poiché sostituire Kaiser Karl sarà senza dubbio una sfida impegnativa.

Io gli rendo omaggio con queste righe e con una illustrazione fatta da una persona piena di talento, ovvero la bravissima Giovanna Sitran alias The Glam Pepper: l’illustrazione rappresenta Lagerfeld in compagnia di Lily-Rose Depp, una delle sue muse.
Penso che non vi sia modo migliore per onorare lui e la sua visione: talento per talento, bellezza per bellezza.

Sostengo da tempo che spero esista un luogo, da qualche parte, dove donne e uomini eccellenti si ritrovano per discutere amabilmente e in eterno di bellezza.
Ciao Karl, spero che ora tu sia lì 🖤

Manu

Azzedine Alaïa, «Non sono un designer, sono un couturier»

Quando un anno fa, il 18 novembre 2017, il grande couturier Azzedine Alaïa si è spento, non ce l’ho fatta a dedicargli un articolo così come ho invece fatto spesso da quando ho inaugurato A glittering woman, rendendo omaggio a grandi personalità che hanno avuto un ruolo importante nella mia formazione, dalla moda alla musica passando per la letteratura.

E se non ce l’ho fatta è perché in quel momento non ho proprio avuto cuore, lo confesso, in quanto mi sono resa conto che sempre meno sono i couturier e gli stilisti ancora in vita e dei quali si possa dire che abbiano dato un loro forte e indimenticabile contributo alla moda, un’impronta senza la quale, oggi, non solo lo stile, ma anche (e soprattutto) il costume e la società sarebbero diversi.
E questa consapevolezza mi lascia attonita, mi atterrisce…

Quando la scorsa estate ho saputo che, durante la Milano Fashion Week, la mia città avrebbe reso omaggio ad Alaïa ospitando dopo Parigi la tappa italiana di una splendida mostra, non ho avuto alcun dubbio: è così che avrei chiuso l’edizione settembrina della settimana dedicata alla moda.

Lunedì 24 settembre, in una mattinata quieta, nella calma assoluta di Palazzo Clerici (uno dei luoghi che preferisco a Milano, in particolare la Sala degli Arazzi con gli affreschi di Giambattista Tiepolo), mi sono dunque goduta un impareggiabile momento di bellezza assoluta, visitando la mostra Azzedine Alaïa Couture Sculpture. Leggi tutto

E anche Monsieur Hubert de Givenchy ci lascia in un mondo ora più triste

Hubert de Givenchy e Audrey Hepburn, 1983, foto © Joe Gaffney (sito e account Instagram)

Una settimana: tanto è passato da quando, pranzando con una persona che stimo, si parlava di quanto risulti difficile per chi lavora nella moda rassegnarsi davanti al tempo che passa, mettendosi da parte e andando in pensione.

Sabato scorso, seduti al tavolino di un posticino accogliente, io e A. citavamo vari esempi, tra stilisti e giornalisti, e io gli esponevo una mia teoria: il motivo per cui in questo settore non ci si rassegna facilmente all’idea della pensione è che la moda è un lavoro fatto di una passione che spesso finisce per diventare totalizzante, sia che si crei concretamente (abiti) sia che si crei virtualmente (attraverso le parole).
E gli ho confessato come immagini già me stessa 70enne ancora intenta a girare – ahimè – per sfilate, presentazioni e press day in cerca di bellezza, creatività e genialità…

Seduti a quel tavolo, nessuno di noi due poteva immaginare come in quello stesso giorno – il 10 marzo – si stesse spegnendo uno dei più grandi couturier di tutto il Novecento, Hubert James Marcel Taffin de Givenchy, aristocratico di nascita ma soprattutto di modi, classe 1927, fondatore nel 1952 e a soli 25 anni della nota e prestigiosa casa di moda che porta il suo nome, Givenchy.
E con Hubert de Givenchy scompare purtroppo uno degli ultimi testimoni dell’epoca d’oro della Haute Couture francese; scompare un autentico gentiluomo che ha vestito donne bellissime e che sono state elegantissime anche grazie a lui.
Alto oltre due metri e slanciato, molte di quelle donne l’hanno descritto come uno degli uomini più seducenti mai incontrati.

A dare la triste notizia al mondo è stato Philippe Venet, il compagno dello stilista: il fatto che sia morto nel sonno, a 91 anni e dopo averci lasciato creazioni indimenticabili, non mi consola affatto.
Anzi, al contrario, mi addolora e mi fa sentire irrimediabilmente defraudata perché, insieme a uomini come Givenchy, scompare sempre più un mondo, scompare un modo di fare e intendere la moda, sebbene mi piace pensare (o sperare…) che quel certo concetto di eleganza che lui ha contribuito a creare sopravvivrà nel tempo.

Vi chiederete però perché io stia legando Givenchy all’aneddoto personale raccontato in principio: perché, nel 1988, il couturier aveva venduto la sua maison alla holding francese LVMH continuando a firmare le collezioni fino al 1995, anno del suo definitivo ritiro.
Lui, dunque, aveva saputo farsi da parte, senza clamore e senza chiasso, e in questa capacità – occorre ammetterlo – ha dimostrato ancora una volta un’eleganza sottile e suprema.
«Ho smesso di fare vestiti ma non di fare scoperte», aveva dichiarato, e credo non vi sia nulla da aggiungere.

Mettersi da parte non deve essere stato facile per un uomo del suo calibro, ma volete sapere una cosa?
Due anni prima, nel 1993, Hubert de Givenchy aveva vissuto un dolore davvero immenso e tangibile: il 20 gennaio di quell’anno era infatti scomparsa Audrey Hepburn, sua musa e amica per lunghissimi anni, quaranta, per l’esattezza. Leggi tutto

Che la terra le sia infine lieve, cara Marina Ripa di Meana

Marina Ripa di Meana mi era simpatica.
Mi era simpatica in quel modo istintivo (e a volte ingovernabile) in cui apprezzo le persone che hanno un carattere forte, deciso, indomabile.
Mi era simpatica perché la consideravo una persona fuori dagli schemi: molto spesso era sopra le righe risultando perfino eccessiva, è vero, ma era dotata di un’intelligenza vivace che mi piaceva.
Era una persona caratterizzata dai forti contrasti, esuberante quanto controversa. Il carattere a volte diventava caratteraccio, come capita a tutti coloro che vivono di estremi, ma credo non abbia mai peccato di una cosa: essere banale.
Non riuscivo a provare antipatia nei suoi confronti nemmeno quando si esibiva in quei suoi eccessi: come mi aveva fatto arrabbiare con le sue esternazioni a proposito della legge per i matrimoni delle coppie omosessuali, eppure la simpatia superava infine i contenuti delle sue tante battaglie che a volte condividevo e altre volte no.
Perché sto imparando – faticosamente – che per apprezzare una persona non è necessario approvare le sue azioni in toto: si può essere in disaccordo, parziale o perfino quasi totale, eppure stimarne e rispettarne l’audacia, la passione, la dedizione, la convinzione.
Ed ecco quindi che stimavo Marina Ripa di Meana esattamente come stimavo Cayetana de Alba, con luci e ombre (che tutti, peraltro, abbiamo), senza la necessità di approvare ogni parola e ogni gesto, con quella ammirazione che sento per le menti e le persone libere. Quelle che sono libere di essere sé stesse, un’audacia che agli occhi di molti appare talvolta come arroganza.
Provocatrice – l’hanno spesso definita; combattiva e battagliera – preferisco dire io, pur dubitando che un paio di parole possano descriverla, racchiuderla, raccontarla.
Guerriera – l’ha definita la figlia Lucrezia Lante della Rovere in un post affettuoso nel suo account Instagram, con una foto tanto bella, tenera e rappresentativa che mi sono permessa di prenderla in prestito.
In fondo, avevamo alcune cose in comune, la signora Marina Ripa di Meana e io.
Avevamo in comune l’allergia verso l’omologazione e – cosa buffa – abbiamo avuto modi comuni di manifestare tale allergia nelle piccole cose: l’amore per la moda un po’ alternativa e l’amore per cappellini, gioielli e bijou oltre misura e stravaganti.
Avevamo in comune l’anticonformismo e il desiderio di abbattere quel finto perbenismo, quel falso moralismo e quell’ipocrisia spesso imperanti – ahimè: lei è stata una donna che ha sfidato le convenzioni, che ha anticipato i tempi con scelte e comportamenti molto criticati e che oggi, invece, sono diventati normali. Si è goduta la vita e penso che abbia anche sofferto.
Ed è proprio per il suo saper essere tanto audace che non compresi le esternazioni sui matrimoni gay: forse, la spiegazione è da ricercare proprio nel fatto che fosse talmente sincera e talmente sé stessa da non temere né le critiche né le antipatie. Di sicuro, non le interessava essere politically correct e non aveva paura di essere contro.
A ogni modo ho affermato che occorre accettare una persona con luci e ombre e dunque confesso che se ero in dubbio circa il fatto di scrivere o meno questo post non è stato certo per quello o per altri episodi, bensì semplicemente perché non ero certa di riuscire a trovare la chiave giusta.
L’ho trovata invece ieri, guardando un frammento del video che Marina Ripa di Meana ha voluto lasciare come sua ultima testimonianza.
«Fatelo sapere» dice in quel video, con la voce rotta dalla fatica e dal dolore eppure con un ardore che è stato vivo fino in fondo.
E allora io accolgo il suo invito, fatelo sapere, e lo faccio con slancio, con passione, con ardore e con sincerità.
E le faccio volentieri spazio in questo mio umile luogo virtuale.
E dunque facciamolo sapere che la speranza di salvarsi dal cancro è data dalla medicina e dalle cure.
Riporto da una sua intervista al Corriere della Sera:
«Non ne ho mai fatto mistero. Non c’è nulla di cui vergognarsi. Se posso essere utile con la mia testimonianza, racconto la mia storia. Mi curo da anni e non sempre è stato semplice. La chemioterapia non è stata una passeggiata, ho passato momenti difficili, ma sono terrorizzata da chi dice che la chemioterapia fa male: ciarlatani, gente senza scrupoli che propone cure alternative e peraltro a scopo di lucro, perché costano e anche tanto. La mia nuova battaglia è questa, a favore della prevenzione dei tumori, che può salvare la vita: per questo è importante “vivere bene” e fare i controlli previsti. E a favore delle terapie ufficiali, contro i “venditori di bufale”.»
E facciamolo sapere che oggi, in Italia, si può scegliere la sedazione profonda, in ospedale o a casa, così come ha scelto lei dopo 16 anni di lotta contro il tumore.
«Fate sapere ai malati terminali che c’è un’alternativa al suicidio assistito in Svizzera» dice Marina Ripa di Meana nel video del quale ho accennato e del quale vi lascio il link.
Devo avvisarvi, è un video forte dal punto di vista emotivo. Eppure, secondo me, va visto.
Perché credo nel progresso, nella scienza, nella medicina.
Perché credo nella libera informazione che dà la possibilità più grande di tutte, quella di scegliere ciò che è più giusto per noi stessi.
Ecco, Marina cara, grazie per avermi suggerito lei stessa il modo giusto per darle un ultimo saluto e ora importa solo che lei e io condividessimo ciò che più conta: l’amore per la vita e l’amore per una vita che sia degna di essere vissuta.
Fino in fondo, fino all’ultimo respiro.
Che la terra le sia davvero e infine lieve.

Manu

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