La “Carta preziosa” diventa protagonista di un libro di Bianca Cappello

Sapevate che marzo, il mese che salutiamo oggi, è stato quello dedicato al riciclo di carta e cartone?

Il Mese del Riciclo di Carta e Cartone è una campagna nazionale promossa da Comieco, ovvero il Consorzio Nazionale Recupero e Riciclo degli Imballaggi a base Cellulosica: dal 1985, Comieco si occupa di sensibilizzare noi italiani sull’importanza della raccolta differenziata.

La carta è un materiale multiforme e polifunzionale; è un’invenzione tutta umana, preziosa in molti sensi e anche in termini di disponibilità, usabilità e sostenibilità.

Appare fragile eppure ha dimostrato ampiamente di saper durare nei secoli; ha anche dimostrato di poter vivere innumerevoli vite grazie al riciclo.

Spesso non ci soffermiamo a pensare che, non esistendo in Natura, è appunto il frutto dell’ingegno e dell’abilità dell’Uomo, così come lo è anche il riciclo; non solo, mi piace sottolineare come proprio il riciclo di carta e cartone rappresenti un’eccellenza nel nostro Paese dove, ogni minuto, vengono riciclate dieci tonnellate di materiale cellulosico.

Tale materiale rientra nel processo produttivo e rinasce sotto molteplici forme: la nuova e più recente fatica letteraria della brava Bianca Cappello, ovvero lo splendido e originalissimo libro Carta preziosa – Il design del gioiello di carta, è una di queste forme molteplici ed estremamente affascinanti.

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Pillole dalla mia #MFW: Croci & Anada FW 2018 – 19

Visto che, costantemente e con entusiasmo, offro il mio sostegno al talento in tutte le sue forme ed espressioni, oggi mi fa piacere raccontarvi un’esperienza che ho vissuto al termine della recente Milano Fashion Week: ho assistito a una sfilata di dogswear, ovvero abbigliamento per amici a quattro zampe.
Una sfilata che ha trasformato la passerella da catwalk in… dogwalk!

Da buona curiosa di natura (e in senso assolutamente positivo) quale sono, non mi nego a priori alcuna possibilità: visto che non ero mai andata alla sfilata di una stilista per cani (sebbene io sia invece talvolta capitata a sfilate di stilisti un po’ cani… oops, mi è scappato), ho detto a me stessa «perché no?» e così, mercoledì 28 febbraio, mi sono ritrovata seduta in prima fila ad applaudire con entusiasmo splendidi modelli a quattro zampe.

A sfilare è stato un nuovo brand di nome Anada con uno show dedicato al dogswear ma non solo, poiché la sfida è quella di realizzare un concept che abbracci mondo animale ma anche creatività in tutte le sue declinazioni – e questo, naturalmente, è un aspetto che mi piace molto, ovvero creatività senza barriere e senza rigide distinzioni.
Il punto di forza di Anada è infatti l’abbinamento tra capi e accessori per cani e capispalla per i proprietari, in un armonico e riuscito incontro tra tessuti tecnici e materiali all’avanguardia.

Durante lo show al quale ho assistito, è stata presentata in particolare la collezione Anada FW 2018 – 19 che prende ispirazione dal british style proiettandosi nel futuro: tweed, pied-de-poule, tartan vengono rivisitati con ironia e incontrano materiali e ispirazioni moderne e un po’ pop.
La personalità dei capi, la qualità dei materiali e la vestibilità al limite del sartoriale sono le prerogative della collezione che vuole rappresentare il nuovo standard dell’abbigliamento cinofilo di alta gamma.
Forme e colori sono ispirati ai maggiori trend, come per esempio le stampe che richiamano mondo orientale e street style; non mancano tessuti tecnici anti-pioggia proposti in colori accattivanti.
A contraddistinguere Anada è inoltre la forte attenzione per i dettagli, anche grazie a collaborazioni importanti come quella con Malucchi, azienda toscana leader nella lavorazione delle pelli per la creazione di accessori di qualità.
(Qui trovate un po’ di foto dello show prima-durante-dopo e qui trovate il piccolo video che ho girato io.)

La collezione Anada, tutta Made in Italy, è disegnata da Anastasia Bessarab.
Anastasia ha trascorso la sua vita tra Russia, Italia, India, Cina e ha tratto ispirazione da queste diverse culture; fattore determinante nella creazione del nuovo marchio è stata la conoscenza e la collaborazione con Dario Croci.
I due hanno infatti unito i quasi 30 anni di esperienza dell’azienda Croci nel mondo degli animali con le idee spumeggianti e piene di creatività di Anastasia.

Croci nasce in provincia di Varese nel 1990 grazie all’intuizione imprenditoriale dei fratelli che hanno dato il nome all’azienda: nel corso degli anni, attraverso il costante investimento nella ricerca, la continua innovazione e l’attenzione prestata alle richieste dei clienti, Croci ha conquistato un importante ruolo di leadership nel mercato.
Il core business parte da acquariologia e cinofilia per offrire una vasta selezione di prodotti che spaziano da accessori e abbigliamento per cani fino ad arrivare al pet food: il marchio offre prodotti caratterizzati da importanti valori quali affidabilità, innovazione e rispetto per l’ambiente, come le lettiere ecologiche.

Croci (qui il sito) e Anada (qui il sito) desiderano creare una connessione emotiva tra umani e animali domestici, un mondo in cui il secondo è parte integrante di una nuova idea di famiglia; è una visione rivolta soprattutto alle generazioni future che – si spera – siano in grado di abbandonare dogmi e pregiudizi del passato.

«Vedo il progetto Anada come qualcosa di profondamente innovativo, focalizzato su prodotti di alta qualità, prodotti per persone e animali, con l’obiettivo di creare un’esperienza unica e interessante.»
Così racconta Anastasia Bessarab e infatti, a chiudere la sfilata, sono stati due levrieri salvati dall’associazione non lucrativa GACI, acronimo di Greyhound Adopt Center Italy.
Dal 2002, GACI (la prima associazione di questo tipo nata nel nostro Paese) si occupa di salvare e far adottare levrieri reduci da una vita di sfruttamento nei cinodromi nei paesi anglosassoni e spagnoli.

Insomma, sfilata e collezione hanno mostrato di avere tutti gli elementi che prediligo: la storia di una bella azienda italiana, il talento, la creatività, il coraggio delle idee e del cambiamento, un tocco di emozione.
E volete sapere una cosa?
Non ricordo di essermi mai divertita così tanto a una sfilata, non ricordo di aver mai riso tanto (e guardate qui com’ero invece pensierosa mentre attendevo che iniziasse…).
E non ho riso perché fossi capitata alla sfilata di uno stilista un po’ cane, come accennavo scherzosamente ma non troppo in principio (e comunque quegli stilisti qui non entrano, visto che per fortuna il mio piccolo spazio è libero e autonomo…), bensì ho riso a cuor leggero perché in passerella ho visto bellezza, creatività, spontaneità.

Ben fatto, Anastasia e Dario.

Manu

Pillole dalla mia #MFW: Valeorchid FW 2018 – 19

Dalla collezione Valeorchid FW 2018 – 19 (foto della stilista stessa, modella Erica)

Parlare del lavoro di un amico che fa lo stilista è un enorme piacere nonché una grande emozione, naturalmente, ma implica anche una notevole responsabilità.
Perché c’è – anche solo per un istante – il timore che il giudizio professionale possa essere offuscato o influenzato dall’affetto.
Valentina, mia Amica (sì, con la A maiuscola) e stilista, mi libera completamente da detta paura, in quanto il suo talento è talmente limpido da non lasciare spazio a timori riguardo possibili confusioni dettate dal sentimento.

Di lei e del suo brand Valeorchid ho già parlato in un paio di post precedenti, quando qui ho presentato la sua collezione autunno / inverno 2016 – 17 e quando qui ho dato un assaggio della sua collezione nell’ambito di un reportage complessivo sulla primavera / estate 2018: stavolta, vi parlo della collezione Valeorchid FW 2018 – 19 che sono andata a visionare durante l’ultima Milano Fashion Week.

La collezione si intitola “…into the sound” e, proprio in questo titolo, è racchiuso il suo concept: raccontare l’essenza dei suoni del tempo passato fino a farli diventare capi da indossare.
Ogni suono accompagna e segue il movimento del corpo in una dolce danza d’inverno; bianco e nero percorrono le linee e le forme dei capi, realizzati in tessuti caldi e morbidi che avvolgono il corpo con rispetto.

La collezione Valeorchid FW 2018 – 19 è pensata per donne che hanno il coraggio di far risuonare in loro la vita, per donne che hanno il coraggio di far vibrare – e ascoltare – i loro sensi.
L’amore per la moda ha origini lontane per Valentina: «mia madre era una sarta e così, crescendo tra macchina da cucire, ago, filo, tessuto e, al tempo stesso, musica e arte, tutto è diventato linfa vitale», racconta a chi ha la fortuna di saperla ascoltare.

La filosofia del suo brand Valeorchid è quella di custodire il corpo rendendolo unico, proteggendolo come se fosse un gioiello contenuto all’interno di uno scrigno: in questo scrigno immaginario, spazio e tempo reali cessano di esistere per lasciare la possibilità di godere di momenti di qualità da prendere per sé, per amplificare la percezione di ognuno dei nostri sensi.
Le creazioni sono tutte collegate tra loro con un filo rosso come a raccontare una storia in musica, immagine e poesia; ogni capo è la fusione di tanti versi, ogni collezione diventa capitolo di un’unica grande storia.
Nel mondo Valeorchid è forte il rimando al nostro passato unito, talvolta, al rimando a terre lontane, dal primo Novecento fino ad arrivare al Giappone, ovvero periodi e luoghi in cui la femminilità ha sempre avuto un ruolo di primo piano nonostante condizioni sociali spesso avverse.

La donna Valeorchid è un’entità libera, indipendente e forte, che sa svelare le sue emozioni a tempo debito, sussurrando la propria femminilità.
Gli abiti, in cui sono costanti ricerca e cura del dettaglio, sono privi della costrizione delle taglie; in essi vi è, al contempo, forma e assenza di forma.
Assumono infatti forma definitiva attraverso un gioco di trasformazioni e sovrapposizioni, cambiando aspetto ogni volta anche a seconda di chi li indossa

«Vestire è un atto importante – racconta ancora Valentina – poiché è dedicare tempo a corpo e spirito per esprimere al meglio la propria personalità»: è esattamente tutto ciò che penso io, la moda che si fa linguaggio e racconta il nostro quotidiano, il nostro vissuto, la nostra storia.
Ecco perché con lei non ho timore che il mio giudizio possa essere inquinato dall’affetto: a parlare è invece la stima per la qualità e il contenuto del suo lavoro.

Il brand Valeorchid è attivo dal 2013: con la collezione “…into the sound”, Valentina giunge alla sua quinta collezione, oltre ad alcune produzioni limited edition e a collaborazioni con altri brand.
E sono orgogliosa di segnalare che le collezioni sono state apprezzate tanto da godere di una discreta distribuzione su buona parte del territorio italiano, da Udine fino a Roma, presso prestigiosi e selezionati concept store che potete trovare elencati qui.

Se volete seguire Valentina, vi segnalo che qui trovate il suo sito, qui la sua pagina Facebook e qui il suo account Instagram.
Se volete visionare tutta la collezione Valeorchid FW 2018 – 19, la trovate qui; personalmente, ho già commissionato a Valentina il soprabito a pois che, oltre ad avere una linea a uovo che mi fa impazzire, è anche reversibile per un uso ancora più libero e versatile.

Geniale la mia Vale: in un panorama di proposte troppo spesso omologate e non particolarmente innovative, lei ha invece il coraggio di proporre la sua visione – che io sposo in toto.

Manu

Pillole dalla mia #MFW: Grinko FW 2018 – 19

Estratti della collezione Grinko FW 2018 – 19 dal mio account Instagram

Il nostro Paese sta vivendo un momento terribile per quanto riguarda la condizione femminile.
Gli omicidi di donne sono estremamente frequenti e spesso si consumano in ambiti familiari.
I delitti e gli episodi di violenza sembrano – se possibile – sempre più efferati, atroci, feroci, barbari, inumani.
La situazione non è migliore fuori casa: violenze sessuali, molestie sul posto di lavoro, disparità di trattamenti economici e di carriera.

Giovedì 8 marzo, Giornata Internazionale della Donna, pubblicando una foto nel mio account Instagram, ho scritto che, in realtà, credevo non ci fosse granché da festeggiare poiché molto, moltissimo resta ancora da fare e a ricordarcelo sono – purtroppo – grandi tragedie e perfino piccole cose quotidiane e il disastro, ahimè, si spinge ben oltre i nostri confini nazionali.
Senza distinzione né tra Paesi né tra classi sociali, quelle sulle donne continuano a figurare tra le violazioni dei diritti umani più diffuse in tutto il mondo: dalla violenza domestica fino alle mutilazioni genitali, gli stereotipi di genere impattano quotidianamente sulla vita di moltissime donne fin dall’infanzia.
E le statistiche a tal proposito sono a dir poco agghiaccianti.

Eppure, quel giorno ho anche scritto che, nonostante tutto, voglio restare ottimista verso l’umanità.
Perché penso che le persone di buona volontà siano donne e uomini, perché penso che tutte queste persone di buona volontà debbano e possano lavorare insieme per cambiare le cose.
Penso anche che puntare il riflettore sulle questioni aperte serva a non distrarsi, a focalizzare, a non dimenticare; penso che ognuno di noi possa fare la propria parte per cambiare le cose nel quotidiano, attraverso ciò che sa fare meglio.
E penso che la moda sia uno di quegli ambiti che può giocare un ruolo positivo, sfruttando la propria voce potente e la propria visibilità, la forte attrattiva che esercita su tante persone: la moda può e deve sfruttare quel potere comunicativo che io le riconosco da sempre per parlare di questioni davvero importanti.

Ecco perché, in un momento storico in cui parlare del concetto di women empowerment nonché di movimenti sostenuti da hashtag quali #Metoo e #Timesup diventa assolutamente fondamentale, io decido di parlarvi ancora una volta dello stilista Sergei Grinko che, in occasione della recente Milano Fashion Week, ha dato un titolo assai eloquente a collezione e sfilata: “That’s enough! Stop violence against women”.

Ebbene sì, Sergei si occupa di moda e la moda è ciò che sa fare meglio e così, da sempre, con coraggio e intelligenza, si è impegnato a legare la sua visione stilistica a tematiche sociali e politiche.

Con la collezione Grinko FW 2018 – 19, lo stilista ha voluto esprimere la sua indignazione per il presente ma, nel contempo, ha anche voluto dare voce alla speranza che le nuove generazioni sappiano creare uno scenario futuro più equo e dignitoso, uno scenario in cui uomini e donne possano vivere in reale armonia.

Esattamente come voglio sperare anch’io.

Ed è alle nuove generazioni che Sergei pensa con i suoi abiti attraversati da un’energia impetuosa e irriverente, applicando alla tradizione artigianale italiana un’attitudine decisamente moderna e che desidera scardinare il passato: in quest’ottica, decostruisce la silhouette in nome di una visione più sciolta nella quale si gioca con i generi, mischiando abiti femminili e capi dal sapore maschile, per un risultato libero e rilassato.

La collezione Grinko FW 2018 – 19 propone così elementi che trasmettono grinta: frange che diventano un fil rouge su capi e accessori richiamando un’attitudine un po’ western, tessuti naturali rivestiti da effetti metallici, spavalde immagini 3D declinate su tessuti innovativi progettati in esclusiva per la maison e tinte decise tra cui figurano bordeaux, marrone e grigio. Ritrovate tutti gli elementi in un piccolo video che ho girato a fine sfilata.

Da varie stagioni, Sergei ha fatto propria la tendenza a unire collezioni uomo e donna in un’unica sfilata e l’ha fatto anche stavolta: l’emozione è diventata palpabile quando, alla fine, sono entrati un ragazzo e una ragazza, fianco a fianco, con outfit coordinati e uniti dallo slogan “Stop violence against women”.

Bravo Sergei: ti ho sempre stimato, come persona e come stilista, fin dalla prima volta che ci siamo incontrati.
Buona parte della mia stima risiede nel fatto che sei una persona capace di agire; sai lottare per ciò in cui credi, attivamente.

Quando scrivo di credere nelle persone di buona volontà penso a persone come te: non ti sei tirato indietro e stai facendo la tua parte affinché le tue meravigliose bambine, Emma e Sophia, possano vivere in uno scenario in cui le donne non debbano avere costantemente paura.

Come persona e come donna, io ti dico il mio personale grazie.

Manu

Qui trovate il sito di Sergei (e qui tutta la collezione Grinko FW 2018 – 19), qui la sua pagina Facebook, qui Instagram e qui Twitter.

Se volete leggere i miei articoli sulle precedenti collezioni di Sergei: qui trovate un assaggio della sua collezione nel mio reportage complessivo sulla primavera / estate 2018; qui trovate un assaggio della sua collezione nel mio reportage complessivo sull’autunno / inverno 2017-18; qui trovate l’articolo sulla collezione autunno / inverno 2016-17: qui quello sulla collezione primavera / estate 2016; qui quello sulla collezione autunno / inverno 2015-16; qui quello sulla collezione primavera / estate 2015; qui quello sulla collezione autunno / inverno 2014-15; qui quello sulla collezione primavera / estate 2014; qui quello sulla collezione autunno / inverno 2013-14.

E anche Monsieur Hubert de Givenchy ci lascia in un mondo ora più triste

Hubert de Givenchy e Audrey Hepburn, 1983, foto © Joe Gaffney (sito e account Instagram)

Una settimana: tanto è passato da quando, pranzando con una persona che stimo, si parlava di quanto risulti difficile per chi lavora nella moda rassegnarsi davanti al tempo che passa, mettendosi da parte e andando in pensione.

Sabato scorso, seduti al tavolino di un posticino accogliente, io e A. citavamo vari esempi, tra stilisti e giornalisti, e io gli esponevo una mia teoria: il motivo per cui in questo settore non ci si rassegna facilmente all’idea della pensione è che la moda è un lavoro fatto di una passione che spesso finisce per diventare totalizzante, sia che si crei concretamente (abiti) sia che si crei virtualmente (attraverso le parole).
E gli ho confessato come immagini già me stessa 70enne ancora intenta a girare – ahimè – per sfilate, presentazioni e press day in cerca di bellezza, creatività e genialità…

Seduti a quel tavolo, nessuno di noi due poteva immaginare come in quello stesso giorno – il 10 marzo – si stesse spegnendo uno dei più grandi couturier di tutto il Novecento, Hubert James Marcel Taffin de Givenchy, aristocratico di nascita ma soprattutto di modi, classe 1927, fondatore nel 1952 e a soli 25 anni della nota e prestigiosa casa di moda che porta il suo nome, Givenchy.
E con Hubert de Givenchy scompare purtroppo uno degli ultimi testimoni dell’epoca d’oro della Haute Couture francese; scompare un autentico gentiluomo che ha vestito donne bellissime e che sono state elegantissime anche grazie a lui.
Alto oltre due metri e slanciato, molte di quelle donne l’hanno descritto come uno degli uomini più seducenti mai incontrati.

A dare la triste notizia al mondo è stato Philippe Venet, il compagno dello stilista: il fatto che sia morto nel sonno, a 91 anni e dopo averci lasciato creazioni indimenticabili, non mi consola affatto.
Anzi, al contrario, mi addolora e mi fa sentire irrimediabilmente defraudata perché, insieme a uomini come Givenchy, scompare sempre più un mondo, scompare un modo di fare e intendere la moda, sebbene mi piace pensare (o sperare…) che quel certo concetto di eleganza che lui ha contribuito a creare sopravvivrà nel tempo.

Vi chiederete però perché io stia legando Givenchy all’aneddoto personale raccontato in principio: perché, nel 1988, il couturier aveva venduto la sua maison alla holding francese LVMH continuando a firmare le collezioni fino al 1995, anno del suo definitivo ritiro.
Lui, dunque, aveva saputo farsi da parte, senza clamore e senza chiasso, e in questa capacità – occorre ammetterlo – ha dimostrato ancora una volta un’eleganza sottile e suprema.
«Ho smesso di fare vestiti ma non di fare scoperte», aveva dichiarato, e credo non vi sia nulla da aggiungere.

Mettersi da parte non deve essere stato facile per un uomo del suo calibro, ma volete sapere una cosa?
Due anni prima, nel 1993, Hubert de Givenchy aveva vissuto un dolore davvero immenso e tangibile: il 20 gennaio di quell’anno era infatti scomparsa Audrey Hepburn, sua musa e amica per lunghissimi anni, quaranta, per l’esattezza. Leggi tutto

Pillole dalla mia #MFW: Angelo Marani FW 2018 – 19

Dalla presentazione della collezione Angelo Marani FW 2018 – 19 (photo courtesy ufficio stampa)

Ci sono parole che, pur essendo inglesi, fanno ormai parte del nostro quotidiano.
Io sostengo con forza e convinzione l’italiano, per la sua bellezza e la sua ricchezza, eppure devo ammettere che dalla parte dell’inglese c’è spesso il potere della sintesi, la straordinaria capacità di fotografare qualcosa in un solo termine con l’efficacia e la rapidità che ben si addicono ai tempi sempre più veloci che viviamo.

Prendete la parola trend: chi mai, al suo posto, userebbe l’espressione «andamento di un fenomeno entro un certo periodo di tempo»?
Nessuno – credo – anche se, a ben guardare, si potrebbe usare tendenza…

A ogni modo: io stessa, oggi, uso una frase che ho letto e che ha catturato la mia attenzione.
«Due i macrotrend emersi dalla fashion week: da un lato l’appeal inossidabile dell’heritage e dall’altro un’impetuosa, salutare corrente di rinnovamento.»
È stato Fashion Magazine a scrivere ciò al termine dell’edizione di Milano Moda Donna che ha da poco presentato le collezioni autunno / inverno 2018 – 19 e se la riporto integra e in virgolettato è perché mi trova in sintonia assoluta.

Come avrete già notato, questa frase abbonda di termini inglesi, a partire da macrotrend.
I trend vengono spesso distinti in base alla loro longevità e diffusione: i microtrend sono influenti in una data sfera e tendono a durare alcuni anni, mentre i fenomeni più pervasivi e persistenti sono i macrotrend.
Il macrotrend è dunque un cambiamento consistente e su larga scala: gli esperti affermano che le tendenze di questo tipo dipingono gli scenari futuri con una buona certezza.
Altro termine anglosassone usato nella frase in questione è appeal ovvero richiamo, attrazione.
E, infine, ultimo termine è heritage ovvero l’eredità e il patrimonio di un marchio, la sua storia, i valori sui quali ha fondato il proprio percorso.

Dunque, Fashion Magazine sostiene che – dopo aver osservato Milano Moda Donna – è possibile affermare che i brand di moda assecondano il richiamo esercitato dal proprio patrimonio; sostiene inoltre che tale tendenza è ampiamente condivisa e che è destinata a durare, insieme alla volontà di cercare di rinnovare e rinfrescare detto capitale fatto di preziosa eredità.

Sono d’accordo, l’ho scritto qui sopra, e oggi desidero darvi una dimostrazione di tale visione o teoria, definitela come preferite, grazie alla collezione Angelo Marani FW 2018 -19.

Credo che la mia stima verso la famiglia Marani sia cosa nota, tanto che non conto più post e articoli a loro dedicati.
Da anni seguo sia Angelo Marani, grande stilista, amico delle donne e portabandiera del Made in Italy, sia la figlia Giulia che ha seguito le orme paterne con umiltà, passione e capacità.
Quando, lo scorso anno, Angelo è prematuramente scomparso, oltre a provare un grande dolore (la stima è professionale e anche personale), mi sono interrogata circa la direzione che avrebbe preso un marchio da sempre caratterizzato da una conduzione di tipo familiare.

La risposta me l’ha data Giulia proprio attraverso la collezione Angelo Marani FW 2018 – 19, una risposta forte, chiara, concreta e che parla di heritage.

È infatti in tale ottica e in tale direzione che Giulia compie una sorta di giro di giostra del brand fondato dal padre, proponendo una capsule collection con la quale fa tesoro dell’eredità e dell’insegnamento che lui ha lasciato.
Giulia (la prima a destra nella foto qui sopra) sale su questa giostra metaforica ma anche concreta (vedere l’allestimento), sale su uno di quei cavallucci che tanto affascinano grandi e piccini e si avventura all’interno degli archivi dell’azienda di famiglia, reinterpretandone e rivisitandone alcuni grandi classici come la maglieria, il jeans, il maculato.

La maglieria è fatta di filati pregiati, cento per cento cashmere e cammello garzato, con elementi di decoro pop applicati a mano, come le maxi-stelle con le frange, i cavalli con gli strass (come la più classica delle giostre) e le macro-paillette.
Un esempio su tutti è la maglia di cashmere dal taglio lineare e le maniche preziose, con la testa di leopardo intarsiato che giganteggia sul davanti, tempestato da macro paillette nere ancora una volta rigorosamente ricamate a mano e da strass che delineano il maculato.

Il jeans è una rilettura del modello proposto dal brand negli Anni Novanta: il taglio è modificato per creare un effetto contemporaneo, ma la vita rimane alta, cosa che mi piace.
Sul tessuto stretch dai toni rosso, grigio, arancione, compare la macchia della lince: per ottenere un effetto sfumato e un’impressione tridimensionale (la macchie sembrano in rilievo), la stampa è ottenuta con la tecnica tradizionale propria dei foulard.

Ma, in questa nuova collezione, il maculato non è solo stampa bensì diventa nucleo da sviluppare ed elaborare.
Le macchie evolvono in elementi geometrici astratti, estese o ripetute ritmicamente come se si muovessero sul capo, impreziosite di macro-paillette nere ricamate a mano (e scusate se lo ripeto ancora e per la terza volta ma è estremamente importante sottolinearlo).
La macchia di lince sul velluto o sul jeans, invece, si trasforma in una texture e, attraverso colori pop applicati a un bomber, infonde un’atmosfera da jungla metropolitana, elegante e ricca di fascino moderno.

Altro leitmotiv della collezione Angelo Marani FW 2018 – 19 è il velluto stampato.
Si ritrova in vari capi e diventa estremamente intrigante nei piumini proposti non in tessuto tecnico, ma appunto in un lussuoso e confortevole velluto per un’originale reinterpretazione di un grande classico.

Il fatto che Giulia abbia lavorato per anni fianco a fianco con il padre Angelo è evidente: oltre al talento, ad accomunarli è la medesima passione, la medesima attenzione, la medesima cura in ogni singolo dettaglio, il medesimo rispetto per la tradizione insieme alla voglia di guardare costantemente verso il futuro.

Mentre Giulia mi mostrava i capi, i suoi occhi brillavano esattamente come brillavano quelli di Angelo quando mi raccontava i segreti delle sue collezioni.
E quegli occhi, perfino prima ancora della voce, mi hanno raccontato storie, esperimenti nonché la conoscenza meticolosa delle macchine per maglieria che il padre Angelo ha messo insieme e fatto ristrutturare grazie a una ricerca caparbia condotta per tutta la sua vita, affinché potessero dare vita a lavorazioni che si ottengono solo con certe macchine e che caratterizzano la maglieria Marani collezione dopo collezione, anno dopo anno.

E proprio mentre Giulia parlava, un pensiero prendeva forma nella mia testa: l’eredità Marani è in ottime mani, le migliori possibili, per giunta con quel tocco di freschezza che caratterizza la giovane stilista.
Non che avessi dubbi in proposito, visto che conosco Giulia da anni, ma avere conferme evidenti e tangibili è sempre un piacere.
È cosa che dà conforto in un mondo che offre poche certezze e questo – credo – è il fascino del cosiddetto heritage.

Manu

 

Qui trovate il sito Angelo Marani, qui la pagina Facebook, qui il profilo Instagram.
I post nei quali ho avuto il piacere e l’onore di parlare del brand: qui trovate un assaggio della collezione nel mio reportage complessivo sulla primavera / estate 2018; qui trovate un assaggio della collezione nel mio reportage complessivo sull’autunno / inverno 2017-18; qui trovate il mio post sulla collezione primavera / estate 2017, qui quello sulla collezione primavera / estate 2016, qui quello sulla collezione autunno / inverno 2015 – 16, qui quello sulla collezione primavera /estate 2015, qui quello sulla collezione autunno / inverno 2014 – 15 e qui quello sulla collezione primavera / estate 2014.

Pillole dalla mia #MFW: Alberto Zambelli FW 2018 – 19

Estratto dalla collezione Alberto Zambelli FW 2018 – 19

A volte, vorrei proprio essere capace di portare indietro il tempo, riavvolgendolo su sé stesso esattamente come si faceva con i nastri delle musicassette che ascoltavo quand’ero ragazzina.
Mi piacerebbe riavvolgere il tempo per poter rivivere la stagione d’oro della moda e in particolare gli ultimi trent’anni del Novecento, i tempi che sono i protagonisti assoluti della grande mostra che si sta tenendo a Palazzo Reale a Milano (Italiana, l’Italia vista dalla moda 1971 – 2001 aperta fino al 6 maggio) nonché i tempi in cui grandi giornaliste vivevano a stretto contatto con i più grandi stilisti.
E quando parlo di grandi giornaliste mi riferisco a figure del calibro della rimpianta Anna Piaggi oppure alla sua amica e collega Anna Riva, donna instancabile e incredibile che ho la fortuna di incrociare di tanto in tanto in occasione di qualche conferenza stampa.

In quegli anni d’oro in cui il Made in Italy trovava la definitiva consacrazione, molti stilisti oggi universalmente celebri muovevano i primi passi e professioniste integerrime e appassionate come la Piaggi e la Riva erano chiamate a dar loro consigli, suggerimenti, conferme, in uno scambio autentico e diretto: nasceva una sorta di simbiosi creativa che ha avuto come risultato la nascita di grandi icone della moda.
Me lo concedete? Rimpiango quello scenario e quei tempi poiché viverli deve essere stato straordinariamente stimolante, per gli stilisti e per coloro che hanno avuto la fortuna di affiancarli, vedendoli crescere e contribuendo a lanciarli.
Ho bene in mente quando la signora Riva, con grande generosità, mi ha raccontato di come sia stata consigliera di alcuni grandi nomi e ricordo altrettanto bene la giornalista Giusi Ferré fare racconti simili in occasione di un seminario in Accademia del Lusso.

Credo che per chi come me ha trovato la propria dimensione non nel creare la moda bensì nel comunicarla, nulla sia più desiderabile che avere l’opportunità di vivere quello scambio diretto.
Ecco perché tornerei indietro ed ecco perché mi rattrista vedere che tra i giovanissimi che aspirano a seguire le orme dei più grandi giornalisti non esiste più (o quasi) tale ambizione: molti non fanno altro che continuare a scrivere ossessivamente ed esclusivamente degli ormai soliti noti. Dov’è il coraggio di osare nuove strade?
Poi, mi dico che – forse – devo solo avere pazienza perché, in questi anni, ho avuto la fortuna di confrontarmi con parecchi stilisti che, a mio avviso, hanno tutte le carte in regola: forse, avrò il privilegio di vedere finalmente brillare i nomi di coloro che ho seguito fin dagli esordi in ambiti ancora più elevati, nella speranza che finalmente si realizzi il tanto necessario e auspicabile cambio generazionale.

Tra questi nomi figura senza dubbio quello di Alberto Zambelli, stilista talentuoso ma anche persona con una spiccata sensibilità – umana e artistica – capace di condurlo sempre oltre, perfino oltre ogni mia più rosea aspettativa.

Ogni volta in cui penso «Alberto non potrà sorprendermi oltre», ecco che lui, invece, riesce a farlo: è esattamente ciò che è successo anche in occasione della recentissima Milano Fashion Week durante la quale sono state presentate le collezioni per il prossimo autunno / inverno.

La collezione Alberto Zambelli FW 2018 – 19 parte da un pensiero: ogni essere umano è unico, nessuno è identico a un altro.
Individualità, personalità, unicità ci caratterizzano, tuttavia esiste qualcosa che ci fa smettere di essere tanti singoli, tante isole, esiste qualcosa che ci mette in connessione con i nostri simili per diventare collettività: questo qualcosa è l’abbraccio, un gesto semplice quanto primordiale che ricompone due singoli, che unisce ciò che è fisicamente separato.

«Siamo angeli con un’ala soltanto e possiamo volare solo restando abbracciati.»
Così declamava uno dei personaggi in un famoso film di Luciano De Crescenzo (Così parlò Bellavista) e nello stesso modo la pensa Alberto che trasferisce la gestualità dell’abbraccio negli abiti, attraverso un linguaggio fatto di rappresentazioni figurative e di materiali avvolgenti che si incontrano. Come avviene, appunto, in un abbraccio che unisce due metà.

La naturalezza dell’abbraccio viene così tradotta in capispalla sartoriali, caldi e avvolgenti; fasce che percorrono abiti e top e strutture tridimensionali simili a origami si palesano come braccia che stringono il corpo in una stretta morbida e calorosa.
Trasformando il gesto in rappresentazione grafica, Alberto ha inoltre creato stampe dal gusto rigoroso che si ritrovano su abiti, gonne e bluse nonché preziosi ricami in cristalli.
Ho apprezzato l’uso del jersey bianco, tecnico eppure al tempo stesso confortevole e femminile; mi piace anche il fatto che la quasi perfetta neutralità della collezione dal punto di vista dei colori (che sono sobri e moderati) conviva in perfetta armonia con interventi inattesi e decisi, estrosi e frizzanti.
Cito, per esempio, le fasce in visone colorato (in tinte che Alberto ama definire cielo e melone) oppure i calzettoni con la scritta hug, abbraccio.

Vi ho incuriositi? Lo spero e vi invito allora a guardare tutta la collezione Alberto Zambelli FW 2018 – 19 qui: spero che vi dia emozione, perché a me ne ha data.

Così come ho provato emozione in backstage quando, allungando le braccia verso di me e sfoderando il suo bel sorriso, Alberto mi ha detto «abbracciamoci»: la mia speranza che possa esserci una nuova stagione d’oro della moda italiana si è rinnovata, una stagione in cui chi crea e chi racconta possano lavorare insieme nell’ottica di un amore comune – quello verso il bello e il ben fatto.

Alberto è maestro in questo e io sono felice di esserne fedele testimone, collezione dopo collezione.

Manu

Qui trovate il sito, qui la pagina Facebook e qui l’account Instagram di Alberto Zambelli.

Se volete leggere i miei post sulle precedenti collezioni di Alberto Zambelli: qui trovate un assaggio della sua collezione nel mio reportage complessivo sulla primavera / estate 2018; qui trovate un assaggio della sua collezione nel mio reportage complessivo sull’autunno / inverno 2017-18; qui trovate il post sulla collezione autunno / inverno 2016 – 17; qui quello sulla collezione primavera / estate 2016; qui quello sulla collezione autunno / inverno 2015 – 16; qui quello sulla collezione primavera / estate 2015; qui quello sulla collezione autunno / inverno 2014 – 15; qui quello sulla collezione primavera / estate 2014.

Pillole di #PFW: Poiret FW 18 – 19, Le Magnifique rivive 100 anni dopo

Si chiude oggi il mese dedicato alle quattro principali Settimane della Moda (in ordine di tempo New York, Londra, Milano e Parigi) e alla presentazione delle collezioni donna per l’autunno / inverno 2018 – 19: prima che il lungo tour de force iniziasse, la mia attenzione era stata attirata da una notizia riguardate la Paris Fashion Week le cui passerelle sarebbero state calcate anche dalla maison Poiret.

Perché la notizia ha catturato la mia attenzione?

In primo luogo, perché Paul Poiret è una delle mie icone in ambito moda, uno di quei couturier che sono stati protagonisti di grandi cambiamenti e grandi innovazioni.

In secondo luogo, perché lo storico marchio nato nel 1903 era stato chiuso nel 1929 per essere poi resuscitato in tempi recenti sotto la guida della business woman Anne Chapelle, già fautrice della rinascita di brand di moda tra i quali Ann Demeulemeester e Haider Ackermann.
Nel nuovo corso intrapreso, Anne Chapelle, in qualità di CEO, ha affidato la direzione creativa e stilistica alla designer cinese Yiqing Yin, classe 1985, nata a Pechino ma di stanza a Parigi fin dalla più tenera età, vincitrice di prestigiosi premi.
Non solo: visto che in Francia la moda è presa con grande serietà e che le viene riconosciuta estrema importanza, l’appellativo Haute Couture viene giuridicamente protetto e può essere accordato esclusivamente dalla Fédération de la Haute Couture et de la Mode alle case che figurano in una lista stabilita ogni anno insieme al Ministero dell’Industria. Ebbene, da luglio 2011, dopo aver presentato la sua seconda collezione, Yiqing Yin è stata invitata come membro ospite; nel 2015, è diventata uno dei pochissimi membri ufficiali e permanenti e, da allora, può fregiarsi dell’appellativo di grand couturier.
Tutto ciò per dirvi che quella di Yiqing Yin è stata una scelta di grande qualità.

Alla luce di tutto ciò, curiosità, attesa e aspettativa da parte di tutti – sottoscritta inclusa – erano enormi, insieme a una certa dose di timore.
Il tentativo di rilanciare brand analoghi quanto a storia e glorioso passato (cito per esempio Vionnet) è un’operazione assai rischiosa che, spesso, non dà gli esiti sperati tuttavia, forte anche della presenza di Yiqing Yin, Anne Chapelle era molto positiva.
«Sono sicura che i social media e il digital marketing faranno risorgere Poiret», aveva dichiarato la manager alla prestigiosa testata Business of Fashion, concludendo con la frase «è come leggere un libro alle giovani generazioni». Già, un libro di storia nell’era del digitale.

Tant’è che, nelle mie lezioni in Accademia del Lusso, non manco mai di citare Paul Poiret (1879 – 1944) ai miei studenti, raccontando loro chi sia stato l’uomo al quale si deve la liberazione della donna dalla costrizione del corsetto, colui che è universalmente considerato il primo creatore di moda in senso moderno, tanto che i suoi contributi alla moda del ventesimo secolo sono stati paragonati a quelli di Picasso nell’ambito dell’arte.

Poiret fondò la propria casa di moda nel 1903: le vetrine del suo negozio, a differenza di quello che era il costume dell’alta moda dell’epoca, erano ampie e appariscenti anche perché ciò che maggiormente contraddistinse Poiret rispetto agli altri stilisti fu l’istinto per il marketing.
Non per nulla, fu il primo a pubblicare a scopo promozionale i propri bozzetti e a organizzare défilé itineranti per promuovere i propri lavori in giro per l’Europa.
Attorno al 1910, Paul Poiret decise di rivoluzionare il campo sartoriale abolendo decisamente il corsetto, proponendo una linea stile impero, con la vita alta e la gonna stretta e lunga: «ho dichiarato guerra al busto», scrisse nelle sue memorie.
La produzione della maison Poiret ben presto si allargò all’arredamento e ai complementi d’arredo; fu il primo a dedicarsi alla realizzazione di profumi, lanciando una consuetudine che sarebbe stata poi seguita dai maggiori stilisti del XX secolo (tra i quali Coco Chanel).

Oltre che per alcuni suoi abiti stravaganti (gonne asimmetriche, pantaloni alla turca e tuniche velate in stile harem nonché fantasiose creazioni per donne del calibro della marchesa Luisa Casati Stampa, come potete vedere in questo mio precedente post), il maggiore contributo al mondo della moda da parte di Poiret fu lo sviluppo di un approccio incentrato sul drappeggio che rappresentava un cambiamento radicale rispetto alle strutture in voga in quegli anni.
Le maggiori fonti di ispirazione di Poiret provenivano dalle tradizioni folcloristiche regionali e la struttura delle sue creazioni rappresentò «un momento fondamentale nella nascita del modernismo e fissò i paradigmi della moderna moda, cambiando irrevocabilmente la direzione della storia del costume», citando dal catalogo della mostra Poiret King of Fashion tenuta nel 2007 al Metropolitan Museum of Art di New York.

Negli anni della Prima Guerra Mondiale, Poiret dovette abbandonare le sue attività: nel 1919, quando poté far ritorno, la maison era sull’orlo della bancarotta.
Durante la sua assenza, nuovi stilisti come la già menzionata Coco Chanel si erano accaparrati una buona fetta della clientela grazie a creazioni dalle linee semplici e sobrie in linea con le tendenze moderniste: in breve tempo, le elaborate e sontuose creazioni di Poiret furono considerate fuori moda e lui fu costretto a ritirarsi.
Nel 1929, la maison stessa fu chiusa, mentre lui morì nel 1944, ormai dimenticato da tutti.

Così com’è accaduto a molti uomini e donne geniali, la storia di Poiret è piena di luci e ombre, grandezze e debolezze, momenti di genio assoluto alternati a cadute e contraddizioni: per questo lo amo, perché la sua è una storia estremamente ricca di umanità e perché il suo apporto alla moda è stato davvero fondamentale, tanto da essersi guadagnato il titolo di Le Magnifique.
Per questo tifavo per Yiqing Yin così come, allo stesso tempo, avevo timore che nessuno – nemmeno lei – avrebbe potuto far rivivere l’unicità di un uomo decisamente sopra le righe: forse, dovremmo adeguarci all’idea che certe avventure non possono proprio continuare oltre il proprio creatore.

Siete curiosi? Volete sapere com’è andata? Se sono stata delusa o meno?

Diciamo che la brava e intelligente stilista cinese ha fatto l’unica cosa che – secondo me – poteva fare: non ha aperto gli archivi storici della maison semplicemente reinterpretandoli, come molti si aspettavano, bensì ha pensato a ciò che un visionario come Poiret avrebbe probabilmente fatto oggi, nel 2018, più di cento anni dopo e in uno scenario molto diverso.

Lui che, a inizi Novecento, ebbe il coraggio di proporre capi e fogge considerate scandalose e irriverenti, oggi non avrebbe replicato sé stesso ma avrebbe invece trovato il modo di rompere ancora una volta gli schemi ricorrenti: nella nostra epoca, in un momento di proposte stilistiche cariche di ridondanza e di massimalismo (avete notato, per esempio, le paillette presenti su molte passerelle nonché il ritorno delle spalle esagerate e dei colori accesi se non fluo nonché le sovrapposizioni e le stratificazioni sempre più abbondanti?), tale rottura può essere rappresentata dalla pulizia.

Quindi niente pantaloni alla turca – ciò che tutti si sarebbero aspettati in casa Poiret – e plissettature presenti in abiti fluidi che danzano attorno alla figura.
Movimento è una delle parole chiave e gli abiti oversize offrono spazio alla libertà: la donna di Poiret mantiene il suo lato misterioso che non viene mai completamente rivelato al primo sguardo.

Definirei tutto ciò un debutto cauto e intelligente, lo sottolineo nuovamente, forse privo dei colpi di scena tanto cari a Paul Poiret eppure libero da qualsiasi spiacevole sensazione di flop.
Non è poco e, a questo punto, aspetto fiduciosa di vedere come la storia di Poiret potrà proseguire nell’epoca del digitale quando, se non dal corsetto, donne – e uomini – hanno bisogno di liberarsi ancora da molte gabbie, fisiche e mentali, liberando il corpo, risvegliando i sensi, abbandonando gli stereotipi per emancipare finalmente e veramente i propri pensieri.

Manu

Se anche voi volete seguire la maison Poiret: qui il sito e qui l’account Instagram dal quale viene anche l’immagine che ho scelto per illustrare il post. Qui, qui, qui e qui trovate alcune foto e brevissimi video dall’account Instagram di Suzy Menkes, una delle mie giornaliste preferite, sulla collezione e il backstage.

Come la sfilata Iulia Barton Inclusive Fashion ha testato la mia coerenza

È proprio vero.
È facile, tutto sommato, fare bei discorsi in linea teorica.
È facile scrivere che si è a favore della moda inclusiva – ovvero di quella moda che sia davvero rappresentativa della società in cui viviamo e di tutte le persone che la compongono.
È facile parlare di uguaglianza, di accettazione, di superamento e abbattimento di qualsiasi barriera, limitazione, ostacolo.
È facile riportare una frase bella come «la diversità è un attributo privo di fondamento».
Ma – come disse saggiamente qualcuno – tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare.
E c’è di mezzo il mare perfino per chi è fondamentalmente una persona coerente. Una persona che davvero crede in ciò che dice e scrive, come la sottoscritta.

Perché esordisco così?

Perché, così come avevo annunciato in un post precedente, martedì 27 febbraio, a chiusura della Milano Fashion Week, sono stata alla sfilata Iulia Barton Inclusive Fashion Industry, il progetto creato da Giulia Bartoccioni.

Alla presenza di Carlo Capasa, presidente della Camera Camera Nazionale della Moda Italiana, sono andati in passerella sei stilisti rappresentativi del Made in Italy: a indossare le loro creazioni sono stati chiamati modelli e modelle, uomini e donne, scelti senza alcuna limitazione o barriera.
E scrivendo senza alcuna limitazione o barriera, mi riferisco alla scelta di far sfilare modelle e modelli con e senza disabilità. Leggi tutto

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