Omaggio a Giusi Ferré, maestra della bella scrittura

Ognuno ha le proprie icone, persone che rappresentano i nostri ideali e valori oppure che simboleggiano le nostre aspirazioni più grandi e che sono dunque un esempio, un modello al quale puntare.

Quanto a modelli e aspirazioni, io non ho dubbi: i miei fari sono Anna Piaggi e Giusi Ferré, due donne immense nell’ambito del giornalismo di moda.

Purtroppo non sono riuscita a conoscere Anna Piaggi di persona (ma continuo a cercarla attraverso ogni cosa e opera che parli di lei), mentre ho avuto il dono di incontrare parecchie volte Giusi Ferré.

Lei, naturalmente, non mai saputo chi fossi e non lo dico con orgoglio ferito né con rammarico: era nell’ordine giusto e naturale delle cose poiché io sono nessuno, una tra le tante e i tanti, mentre lei era unica, la maestra della parola e della bella scrittura, la giornalista sopraffine, la testimone diretta della moda degli ultimi 50 anni nonché amica, guida e consigliera di molti stilisti, il modello e l’icona per quei tanti come me, la donna capace di dare voce a mille e più racconti che io desideravo ardentemente ascoltare.

Il 14 aprile questa voce si è purtroppo spenta per sempre e io mi permetto di renderle omaggio con tre ricordi personali.

Parto dalla prima volta che incontrai Giusi Ferré.
Attirai la sua attenzione involontariamente, grazie a una fantasiosa collana che indossavo: di quel giorno (era il 2013) resta una foto insieme in cui io ho un sorriso che va da un orecchio all’altro, quel tipo di sorriso che solo un’icona riesce a dipingerci sul volto in una sorta di sogno che si avvera.
Quella foto è qui nel blog, ma non la tiro fuori oggi… Leggi tutto

Gentile Catone SS 2022, il floreale in chiave decisamente contemporanea

È da poco terminata una nuova Milano Fashion Week, un’edizione che, si dice, ha riportato il settore moda a una certa normalità rispetto all’inizio della pandemia, anche se ormai questa parola, normalità, è sempre più priva di una definizione universalmente valida.

In passato ho spesso scritto post scomodi a mo’ di sunto di tante cattive abitudini e di tanti pessimi comportamenti che riscontravo (e riscontro) durante le settimane della moda (l’ultima volta lo feci un anno e mezzo fa, marzo 2020, a proposito di Philipp Plein e del suo discutibile omaggio a Kobe Bryant); ho poi smesso di farlo, per diversi motivi.

Questa volta, però, torno ad andare controvento nel momento di questo cosiddetto ritorno alla normalità perché ho da dire una cosetta o due nonostante il mio spirito ribelle e controcorrente sia stato ultimamente un po’ domato dagli eventi e sfiancato da un sistema decisamente più grande di me.

E per dire tali cose userò la collezione del brand Gentile Catone come esempio virtuoso nella piccola polemica che innesco. Leggi tutto

TELESCOPE – racconti da lontano: l’edizione 69 parla di Afghanistan

Il 15 marzo 2020, nel pieno della prima fase della pandemia, ricevetti una newsletter capace di catturare tutto il mio entusiasmo e tutto il mio interesse nel giro di pochi istanti: si trattava dell’annuncio di TELESCOPE – racconti da lontano, un progetto voluto dal team di Lara Facco Press&Communication, importante ufficio stampa, comunicazione e pubbliche relazioni in ambito arte.

TELESCOPE veniva presentato come un appuntamento settimanale pensato per parlare di progetti culturali, «mostre, collezioni, singole opere protagoniste di un racconto a più voci, per non fermare la cultura, alimentare il confronto culturale, esplorare nuovi modi di comunicare».

Così come il telescopio è lo strumento che consente la visione di oggetti distanti, allo stesso modo TELESCOPE si proponeva dunque come un insieme di «parole di giornalisti, curatori, direttori, artisti e critici per raccontare quello che per un po’ non potremo vedere di persona, tante voci per comporre un mosaico complesso che, senza la presunzione di sostituirsi a una visita dal vivo, restituisca “da lontano”, almeno in parte, l’emozione della fruizione culturale».

La promessa è stata mantenuta e la newsletter TELESCOPE è arrivata all’edizione numero 70: da assetata di cultura, arte e conoscenza quale sono, non ne ho persa nemmeno una.

Ma ciò che desidero sottoporre ora alla vostra attenzione è l’edizione numero 69 di TELESCOPE interamente dedicata all’Afghanistan, un’uscita speciale per il Paese oggi tristemente al centro dell’attenzione mondiale.

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Sei anni di Agw cercando la strada della comunicazione di cultura e talento

Il primo maggio del 2013, esattamente sei anni fa, pubblicavo il mio primissimo post lanciando questo blog al quale ho dato il nome A glittering woman, per festeggiare il mio amore verso tutto ciò che di bello, luminoso e scintillante esiste nella vita, in senso ampio, a 360°.
Quel primo post raccontava qualcosa a proposito di una delle mie grandi passioni, il vintage, e in particolare si concentrava su Next Vintage Belgioioso, una manifestazione di settore che amo particolarmente.
Allora, quando pubblicai il primo post, avevo naturalmente un progetto in testa ma – se devo essere sincera – non avevo idea di ciò che il blog sarebbe diventato nel tempo, ovvero la mia creatura, come chiamo a volte scherzosamente questo spazio web.
Certo, speravo che il progetto avesse una continuità e che potesse davvero riuscire a essere rappresentativo, pian piano, del mio pensiero, trasformando il blog in una sorta di manifesto: posso dire che, da questo punto di vista, oggi, sono molto soddisfatta.
Sebbene io non mi fermi mai sugli allori, nonostante io pensi costantemente che ogni cosa che faccio possa essere migliorata, vi posso confessare che sono felice sia della longevità di A glittering woman sia di come esso sia diventato rappresentativo di tutto ciò in cui credo, con onestà, coerenza, sincerità, trasparenza. Esattamente quel manifesto che speravo, insomma.
E ora, con il senno di poi, mi fa tenerezza notare come io sia partita (più o meno consciamente) proprio da un argomento che negli anni è diventato sempre più importante per me, una sorta di cavallo di battaglia, ovvero la second hand economy.

Sei anni…
Riflettevo che a sei anni un bambino termina la scuola materna e si accinge a una delle esperienze più importanti e significative di tutta la nostra vita, ovvero la scuola elementare.
Credo di aver dimenticato tanti episodi dei successivi anni di studio, ma ricordo nitidamente, con chiarezza e precisione, decine e decine di episodi collegati ai miei cinque anni di elementari.
La scuola elementare ha lasciato segni indelebili in me e ricordo perfettamente gli insegnamenti della mia maestra (e non solo quelli collegati a grammatica e matematica…), così come ne ricordo il nome – Gabriella Consolandi.
Se parlo di tutto ciò è perché – come dicevo in principio – a volte chiamo il blog la mia creatura, proprio come se fosse un bambino (il mio bambino); ora questo figlio si appresta a una fase molto delicata del suo percorso, come un bambino pronto a iniziare le scuole elementari.
Vediamo cosa accadrà…

L’anno scorso, festeggiando i cinque anni, avevo sottolineato come comunicare (ovvero il desiderio che mi ha spinto ad aprire il blog) sia un’esigenza che accomuna la maggior parte degli esseri umani.
Se andiamo all’origine della parola, scopriamo qualcosa che in fondo è facile intuire anche solo ripetendola: comunicare dal latino communicare, derivato di communis ovvero «comune».
Comun-icare: «rendere comune, far conoscere, far sapere, per lo più di cose non materiali», dice il vocabolario Treccani.
E aggiunge «divulgare, rendere noto ai più, fare partecipi altri di qualcosa», sottolineando la caratteristica più bella, profonda e positiva della comunicazione, ovvero il «valore reciproco».
Ecco, per me comunicare e fare comunicazione è proprio questo: mettere in comune. Ciò che amo oppure ciò che so, tanto o poco che sia.
Mettere al servizio di tutti informazioni e conoscenza, far circolare buona informazione costruita partendo da una sana curiosità e fortificata poi attraverso ricerca, studio, analisi.

Per me, dunque, la buona comunicazione avviene quando c’è collaborazione.
E credo che la comunicazione debba vere un valore sociale.
E credo anche che la comunicazione sia uno strumento fondamentale per generare crescita, personale e sociale, per ottenere credibilità, per costruire comunità solidali e consapevoli.
C’è poi chi comunica per provocare: scelte personali, io trovo che sia un trucchetto un po’ infantile per attirare l’attenzione e mi limito a passare oltre. Leggi tutto

Mario Valentino, in un libro la sua storia tra moda, design e arte

Che bella atmosfera ho respirato martedì sera in Triennale…

Partiamo dal presupposto che, già di suo, La Triennale è uno di quei posti capaci di farmi stare bene mettendomi a mio agio: partita nel 1933 sotto la guida di figure come Gio Ponti e Mario Sironi e ospitata in un edificio modulare e flessibile espressamente concepito per ospitare grandi manifestazioni e attività museali (il Palazzo dell’Arte), questa istituzione rappresenta, da 85 anni, un punto di riferimento nella vita culturale (e anche economica), un motore di intenso dialogo internazionale tra società, arte e impresa ben oltre i confini di Milano.

Non solo, La Triennale fa tutto ciò con una modernità e una freschezza tali da fare innamorare tutti, generazione dopo generazione, fino ad arrivare a Millennials e Generazione Z.

L’evento di martedì rispettava in pieno questa ottica di modernità, freschezza e apertura di pensiero.

A introdurre la serata, c’era un gruppetto di meravigliosi professionisti: Antonio Mancinelli (caporedattore attualità di Marie Claire, firma prestigiosa e che io stimo tanto da consigliare il suo blog nella mia sezione Cosa leggo), Alba Cappellieri (professore ordinario di Disegno Industriale e Presidente del Corso di Laurea in Design per la Moda presso il Politecnico di Milano, grande professionista che mi strega ogni volta in cui ho la fortuna di incontrarla), Eleonora Fiorani (docente presso il Politecnico di Milano, filosofa e curatrice del settore Moda della Triennale) e Arturo Dell’Acqua Bellavitis (professore ordinario di Disegno Industriale presso il Politecnico di Milano e Presidente della Fondazione Museo del Design presso la Triennale). Leggi tutto

Felice di piacervi e non, parola di Franca Sozzani

Non so mentire: provavo una simpatia alquanto tiepida nei confronti di Franca Sozzani.

A non farmi sentire a mio agio – io eternamente scomposta e con infinite imperfezioni – era in parte la sua aria eterea, il suo aspetto quasi serafico: sembrava sempre essere appena uscita da un quadro, i capelli (lunghissimi e ondulati) e lo sguardo mi ricordavano immancabilmente la perfezione della Venere di Botticelli.

Insultatemi pure, pensate pure che io sia poco delicata a scrivere tali pensieri a pochi giorni dalla sua dipartita: non posso darvi torto, eppure preferisco essere sincera.
D’altro canto, mi sembra altrettanto sconveniente l’atteggiamento di chi oggi la osanna quando alcune di quelle stesse persone si sono scatenate giusto poco tempo fa in una ridda di commenti caustici a proposito del docu-film Franca: Chaos and Creation girato dal figlio Francesco Carrozzini.
Ciò avveniva quando pochissimi sapevano della malattia che l’ha portata via il 22 dicembre: oggi quel lavoro appare come un omaggio e un saluto, eppure ricordo bene Facebook pieno di battutine sarcastiche perché purtroppo (purtroppo, sì) godo di buona memoria.

Credo che di questo stridente contrasto tra il prima e il dopo sorriderebbe lei per prima, visto che non teneva affatto né a piacere a tutti né a essere simpatica a tutti, come scrisse molto chiaramente in un post datato 22 luglio 2010 dal quale è presa la foto qui sopra e che è apparso nel suo frequentatissimo Blog del Direttore.
«Non si può sempre piacere a tutti e soprattutto non si deve»: così scrisse in tale occasione e dunque sono certa che sorriderebbe anche della mia tiepida simpatia per poi infischiarsene.
Giustamente e senza perdere la sua solita classe, naturalmente.

Franca Sozzani ha fatto tanto per la moda e questo è un dato inconfutabile che va ben oltre qualsiasi simpatia, antipatia o sarcasmo.

Non si mette minimamente in discussione e non servono certo le mie parole a ricordare tutto ciò che ha fatto. Anzi, a tal proposito, vi invito a leggere l’articolo di Antonio Mancinelli per Marie Claire, decisamente quanto di meglio io abbia letto, oppure il ricordo firmato da Anna Wintour, inossidabile direttrice di Vogue USA.
Quindi, pur non avendo alcuna intenzione di esibirmi in dichiarazioni di simpatia postuma (che nel mio caso sarebbero ipocrite considerando ciò che ho confessato), scrivo queste righe di stima e commiato con slancio spontaneo e sincero, per dire grazie a Franca Sozzani per almeno quattro buoni motivi.

Il primo motivo è, signora Sozzani, proprio ciò che lei ha fatto.
Vogue ha un grande peso nella formazione di ogni appassionato e/o professionista di moda che si rispetti e lei ha dedicato a Vogue Italia – una delle edizioni più belle a livello mondiale – ben 28 dei suoi 66 anni di vita. Dal 1988 a oggi, con coraggio e passione. E con successo.
Questo è qualcosa che solo un’ingrata o una stupida o una folle potrebbe non riconoscerle. Sarebbe una pessima dimostrazione di ignoranza e arroganza.
Dunque, ecco il mio primo grazie.

Il secondo motivo è l’importanza che lei ha dato al talento, parola, idea, concetto che tanto amo a mia volta.
Lei, signora Sozzani, ha supportato molti professionisti della moda decretandone il successo; dicono che abbia allo stesso modo decretato l’insuccesso di altri e di questo qualcuno gliene fa una colpa.
Non sono d’accordo con accuse di questo tipo: dire di a tutti sarebbe insensato quanto sbagliato e dire dei no comporta un prezzo da pagare. Lei ha accettato di pagarlo e anche per questo le dico un altro grazie, perché la sincerità e la fedeltà a noi stessi e alle nostre idee è fondamentale e irrinunciabile.

Il terzo motivo è che, oltre al talento, lei credeva nell’impegno e nel duro lavoro.
Una come me che crede ciecamente che impegno, studio e lavoro siano valori assoluti non può che dirle un ennesimo grazie.

Il quarto motivo è proprio quel suo coraggio di non voler piacere a tutti.
Viviamo in un’epoca in cui molti (troppi) vogliono piacere a più persone possibili raccogliendo qualunque consenso; vivo in un ambiente – lo stesso, quello della moda – in cui tutto ciò è ancor più enfatizzato e nel quale molti (troppi) giocano ancor di più a fare i piacioni (ma sì, uso questa espressione). In una simile epoca e in un simile ambiente, il suo atteggiamento assumeva ancora più importanza. Era quasi rivoluzionario.
E allora le dico l’ultimo grazie, signora Sozzani, a titolo estremamente personale, perché l’esempio di una persona così importante come lei dà forza a me – nel mio piccolo e con le dovute proporzioni – per continuare a pensare che non sbaglio nel portare avanti a mia volta lo stesso atteggiamento.

Ho iniziato il post scrivendo di non nutrire simpatia particolare per lei: arrivata a questo punto, mi rendo conto che provavo e provo per lei un grande rispetto.
Chino la testa davanti al fatto che se ne sia andata con discrezione e in silenzio, senza rendere pubblico il male che la stava consumando.
E sono sinceramente colpita dai ricordi di molte persone che l’hanno conosciuta e che testimoniano come lei non facesse mai mancare qualche parola gentile alle sfilate o come non mancasse di spronare a coltivare il talento e a inseguire i sogni, in qualunque campo essi fossero: sono racconti che la dipingono come persona di buona carica umana, in barba all’impressione di distacco che suggeriva invece a me.

Chissà, se avessi avuto l’opportunità di intrattenermi con lei, forse avrei superato l’imbarazzo che la sua figura mi incuteva: mi rimarrà il rammarico che tale opportunità non ci sia stata.

E allora, con grande sincerità, le auguro buon viaggio, cara Franca.

Manu

Manuela Pavesi e la malattia della Moda

Scrivere è uno tra i gesti più intimi che esistano: è come mettersi a nudo.
A volte si scrive pensando agli altri, altre pensando agli altri e a sé stessi, altre ancora si fa principalmente per sé stessi.
Oggi è un giorno da terzo caso e non è egoismo: è sopravvivenza. Ho bisogno di fermare i troppi pensieri che mi girano in testa.
Perché scrivere, talvolta, è la cura per certi dispiaceri – o almeno funziona da placebo, da palliativo.
Perché quando viene a mancare una grande personalità come lo era Manuela Pavesi, mi sento un po’ più sola: diminuiscono le persone con quella certa visione della Moda con la maiuscola, aumenta un nuovo modo (e un nuovo mondo) nel quale, purtroppo, non mi riconosco.
Perché quando viene a mancare una figura come la sua, mi sento defraudata e un po’ più ignorante, perché non avrò mai più l’opportunità o anche solo la speranza di incontrare chi aveva tantissimo da insegnare.
Perché nel giorno dell’ultimo saluto a questa donna speciale, ho il coraggio di dire a voce alta che, forse, la Moda non salverà il mondo, eppure è un affare serio. È complessità, come l’aveva definita lei in occasione di una lezione allo IUAV.
Sicuramente è tale quella in cui credeva lei, la stessa nella quale credo io. Leggi tutto

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