Le gemme in Dante, l’omaggio che mancava va in mostra a Casalmaggiore

Ricevo e volentieri condivido – È stata inaugurata lo scorso venerdì 24 settembre Dolce color d’orïental zaffiro – Le gemme in Dante e nei bijoux americani, una mostra a cura di Maria Teresa Cannizzaro e Fiorella Operto presso il Museo del Bijou di Casalmaggiore (CR).

Quando a scuola si studia Dante Alighieri, nato a Firenze nel 1265 e morto a Ravenna nel 1321, non siamo forse in grado di apprezzare fino in fondo la magnificenza di un poeta che tutto il mondo ha ammirato e ammira, colui che insieme a Francesco Petrarca e Giovanni Boccaccio compone le tre Corone Fiorentine ed è considerato un pilastro della lingua italiana; eppure, quasi chiunque ricorda a memoria, anche a distanza di tanti anni, almeno qualche terzina della sua opera più famosa, il poema la Divina Commedia.

Le celebrazioni che ricorrono quest’anno in occasione dei 700 anni dalla morte del poeta hanno toccato le più erudite e approfondite declinazioni possibili in un tributo più che doveroso: si aggiunge ora un tassello – prezioso, è proprio il caso di dirlo – grazie appunto al Museo del Bijou.

È così che le gemme citate in diversi passaggi della Divina Commedia prendono vita nei più iconici e originali bijou americani dagli Anni Quaranta ai Settanta, firmati da nomi prestigiosi quali Kenneth Jay Lane, Miriam Haskell, Pell, Trifari, Krementz: ne è nato un racconto inedito e un curioso incrocio tra i gioielli e i versi di Inferno, Purgatorio e Paradiso. Leggi tutto

Se Kamala Harris mi convince a festeggiare il mio compleanno…

Detesto novembre anche se è il mese del mio compleanno, anzi, forse proprio per questo.
O forse lo detesto così come non provo simpatia per nessuno dei mesi caratterizzati dal freddo e dalla poca luce.
E a lui, a novembre, non perdono nulla, esattamente come nulla perdono a me stessa: l’ho ammesso tante volte, sono comprensiva con gli altri quanto poco lo sono con me stessa.

Tuttavia, da sette anni, da quando esiste A glittering woman, al mio compleanno dedico addirittura un post qui nel blog (quanto riesco a essere incoerente).
Quest’anno, come magari immaginerete, non avevo affatto voglia di fare il solito post perché c’è poco da festeggiare (vedere COVID-19), ma poi ho deciso di non interrompere quella che ormai è diventata una piccola tradizione, stavolta non tanto per festeggiare quanto per esorcizzare.

Esorcizzare, sì.

Dite che esagero?

E allora vi chiedo… ma voi come vi sentite in questo periodo?

Vi dico ciò che accade a me.

Ci sono giorni in cui mi alzo e mi riesce faticoso anche solo pensare e concentrarmi, figuriamoci agire.
In giornate di questo tipo, faccio fatica a fare le due cose per me di solito più abituali e spontanee, ovvero pensare (e in verità penso troppo) e scrivere (e anche in questo spesso esagero) e mi viene difficile perché mi sento sospesa e incerta, inquieta e svuotata.
In questi casi, nemmeno le mie amatissime camminate in campagna in assoluta solitudine mi riappacificano con il mondo e – soprattutto – con me stessa, nemmeno loro riescono a essere ciò che di solito sono, ovvero un toccasana per il fisico e un rimedio per tenere a bada ansia, inquietudine, pensieri cattivi o tumultuosi.

Altri giorni, invece, mi alzo e mi sento piena di energia, mi dico «basta ansia e inquietudine» e mi sforzo di crederci: riesco a mettere in fila i pensieri, provo a razionalizzare e a creare un po’ di ordine.
È quindi in giornate di questo tipo che cerco di portare avanti cose e azioni concrete che spero possano aiutare me e magari anche altri. Leggi tutto

Pillole di mondo: la borsa vintage e i francobolli Sperry and Hutchinson

Scorcio della mia borsa e dei francobolli Sperry and Hutchinson

Oggi voglio raccontarvi una piccola storia curiosa.

Da tanti anni, ormai, faccio i miei acquisti non solo offline (nei negozi fisici) ma anche online (via web): uno dei primi canali che ho utilizzato è stato per esempio Etsy, marketplace di articoli che spaziano dai prodotti fatti a mano fino ai tesori vintage.
Ho un account da più di 10 anni, i miei primi acquisti risalgono al 2009 e sono grata a Etsy per avermi dato una splendida possibilità, quella di entrare in contatto con creativi di tutto il mondo senza sentirmi limitata da distanze fisiche e geografiche.
Oggi – lo confesso – demando questo compito soprattutto a Instagram che offre un’immediatezza e una facilità di ricerca davvero straordinarie: noto con piacere che molti account rimandano comunque a Etsy e ad altri marketplace similari.

Recentemente, attraverso Instagram, ho trovato una borsa Anni Cinquanta ricamata ad ago con un motivo di frutta e fiori: abitualmente, tali borse hanno dimensioni medio-piccole mentre questa ha colpito la mia attenzione per essere piuttosto grande oltre che per le sue ottime condizioni di conservazione.
Al suo interno, specificava la venditrice, c’è ancora il set originale composto da pettinino, specchio e portamonete.
Insomma, è scattato il colpo di fulmine e, dopo una breve trattativa, ho deciso di adottarla: quando la borsa è arrivata si è confermata un ottimo acquisto in quanto perfettamente rispondente alla descrizione, alle foto pubblicate e alle mie aspettative.
Al suo interno c’era il set specificato nonché un altro minuscolo dettaglio che diventa l’oggetto di questo post: tre piccoli francobolli verdi con la scritta Sperry and Hutchinson e la dicitura ‘discount or cash’.

Lo ammetto, non avevo mai visto simili francobolli ed è scattata la mia curiosità intellettuale: ho digitato il nome Sperry and Hutchinson in Google e mi si è aperto un mondo, quello che desidero condividere con voi, cari amici.

Ho scoperto che la Sperry and Hutchinson (in acronimo S&H) era una società fondata negli Stati Uniti nel 1896 da Thomas Sperry e Shelley Byron Hutchinson: la società era specializzata in francobolli commerciali, ovvero piccoli francobolli di carta dati ai clienti dai commercianti per concretizzare programmi di fidelizzazione che hanno preceduto le moderne carte fedeltà.

Singolarmente, i francobolli avevano un valore minimo equivalente a pochi millesimi di dollaro ma, quando un cliente ne accumulava un certo numero, essi potevano essere scambiati con premi quali giocattoli, oggetti personali, articoli per la casa, mobili ed elettrodomestici.
La Sperry and Hutchinson iniziò a offrire francobolli ai rivenditori statunitensi già dall’anno della propria fondazione: le organizzazioni di vendita al dettaglio che distribuivano i francobolli erano principalmente supermercati, stazioni di rifornimento di benzina e negozi che compravano i francobolli dalla S&H e li davano come bonus agli acquirenti in base all’importo dei loro acquisti. Leggi tutto

Louis Vuitton e NBA, la partnership e il baule per il Larry O’Brien Trophy

Louis Vuitton e la National Basketball Association (NBA) hanno annunciato una collaborazione pluriennale e la creazione del primo cofanetto rigido per contenere il Larry O’Brien Trophy, ovvero il trofeo assegnato dalla NBA.

L’annuncio è importante perché la collaborazione rappresenta il primo accordo che Louis Vuitton, Maison francese fondata nel lontano 1854, stringe con una lega sportiva nord-americana, anch’essa con un cammino storico iniziato nel 1946.

Realizzato a mano nel laboratorio LV di Asnières alle porte di Parigi, il cofanetto (che porta avanti la celeberrima expertise della Maison nell’ambito dei bauli) è rivestito dall’ormai iconica tela Monogram ed è decorato con le tradizionali rifiniture in ottone.

Il cofanetto, naturalmente realizzato su misura, ospiterà il Larry O’Brien Trophy con cui sarà premiata a giugno la squadra vincitrice del campionato NBA.

A raccontare la partnership è Michael Burke, Presidente e CEO di Louis Vuitton.

«Louis Vuitton e NBA sono icone e leader nel loro settore, dunque l’unione delle due promette momenti che daranno vita a ricordi storici. Louis Vuitton è stata a lungo associata ai trofei più ambiti del mondo e con questa collaborazione la tradizione continua: la vittoria viaggia in Louis Vuitton.»

Letteralmente, direi, e a fargli eco è Mark Tatum, Deputy Commissioner e Chief Operating Officer di NBA.

«Le finali NBA sono ricordate per giocatori iconici e performance memorabili che culminano con la presentazione del Larry O’Brien Trophy. La tradizione, il patrimonio e l’identità di Louis Vuitton creano una sinergia naturale con NBA e questa collaborazione è un modo speciale e unico per mostrare il nostro trofeo a tutti i fan del mondo.»

La partnership è stata annunciata in vista della NBA Paris Game 2020: presentata da beIN SPORTS, network globale di canali sportivi, la competizione si è tenuta venerdì 24 gennaio presso l’AccorHotels Arena di Parigi e ha visto le squadre degli Charlotte Hornets e dei Milwaukee Bucks giocare per la prima volta una partita di regular season in Francia, patria di Louis Vuitton.

NBA e Louis Vuitton scriveranno dunque insieme nuove storie legate a uno dei più simbolici trofei dello sport.

Inoltre, come parte della collaborazione con NBA, Louis Vuitton creerà un’annuale capsule collection in edizione limitata. Leggi tutto

Buon lavoro, Presidente Trump. E non è un augurio ironico.

L’ho già ammesso: di politica non capisco granché.
Mi limito a scriverne, raramente e a modo mio, solo quando desidero trattare una delle numerosi interazioni che essa intrattiene con tutti gli aspetti della nostra vita e della nostra società.
Per esempio, ho parlato di pensieri e timori a proposito di Brexit; mi sono divertita a tracciare un piccolo excursus su come alcune donne di potere abbiano vissuto o vivano la moda; ho scritto di un certo tailleur viola indossato da Hillary Clinton.
Interazioni: ho scelto questo vocabolo appositamente e con cura, perché – che ci piaccia o no – la verità è che la politica riguarda tutti noi e che nessuno può (o dovrebbe) disinteressarsene, soprattutto nella sua forma più pura, ovvero come arte o tecnica di governare, far funzionare e far progredire la nostra società.
Dunque, nonostante io non sia un’esperta di tale (spinosa) materia, ho deciso di scrivere il presente post e di condividere la mia opinione semplicemente in veste di cittadina del mondo e in qualità di membro dell’umana comunità.

Opinione su che cosa?
Oggi, 20 gennaio 2017, Donald Trump presta giuramento diventando il 45° Presidente degli Stati Uniti nonché l’uomo più potente del mondo.
Credo di non aver nascosto né la mia poca simpatia verso Trump né le mie perplessità per quanto riguarda la scelta dei cittadini americani di eleggerlo, ma nutro un profondo rispetto della democrazia, dunque accetto la sua elezione – e invito tutti a farlo come primo gesto di civiltà e come presupposto dal quale partire.
Non so come sarà Trump nei panni di Presidente, non so se si rivelerà ottimo o pessimo, così come nessuno può saperlo in quanto non possediamo la cosiddetta sfera di vetro.
Certo, tanti presupposti non mi fanno stare serena e sicuramente ho il (grande) timore che Trump dimostri che i suoi tanti detrattori abbiano ragione, ho il timore che possa mantenere tante delle minacce più o meno velate che ha fatto.
Vedete, in questa fase, arrivati al dunque e archiviata la presidenza Obama, non mi interessano nemmeno più certe polemiche che finora ho magari trovato pittoresche, definiamole così.
Per esempio, non mi interessano le polemiche su chi voglia o meno esibirsi per Trump oppure su chi voglia o non voglia vestire sua moglie Melania. In tal senso, penso solo che ognuno sia libero di fare le proprie scelte in base a coscienza ed etica, personale e professionale, e faccio notare con grande rispetto una piccola contraddizione che ho rilevato leggendo giornali e soprattutto social network: è sciocco affermare (come spesso quasi tutti facciamo) che le persone famose si fanno facilmente comprare dai soldi o dal desiderio di apparire se poi non rispettiamo un loro no quando sanno dirlo, nel bene e nel male, giusto o sbagliato.
Non mi interessa nemmeno giudicare l’operato di Trump come businessman in quanto, da oggi, mi interessa piuttosto il suo operato come uomo di stato – salvo affiorino reati del passato.

L’episodio che invece al momento attira la mia attenzione e che rinnova i miei timori riguarda ciò che potrebbe accadere da oggi in poi è piuttosto lo scontro con Meryl Streep. Leggi tutto

Zimarty, architetture da indossare tra tecnologia e natura

Parrebbe che questa sia per me la settimana dedicata al gioiello, soprattutto nella sua forma contemporanea.

Nel post precedente, ho parlato di un concorso con il quale si desidera mettere in evidenza il talento in tale campo (concorso nel quale ho tra l’altro orgogliosamente un ruolo attivo); oggi, desidero parlare di un duo di creativi nei quali sento di aver riconosciuto un valore. Spero dunque vorrete accompagnarmi in un viaggio alla scoperta di una visione alquanto particolare del concetto di gioiello.

Dovete sapere che, per riuscire a catturare tutta la mia attenzione, un monile – qualunque esso sia – deve possedere carattere.

E deve essere in grado di trasmettermi una sensazione, un’emozione: deve affascinarmi, stupirmi, incuriosirmi, sorprendermi, divertirmi. Al limite, indignarmi.

Deve coinvolgermi, insomma: non apprezzo i gioielli anonimi, scontati, banali e dunque noiosi. E guai a una mia reazione neutra o indifferente.

A maggior ragione, tutto ciò vale per gli anelli, monili che mi accompagnano sempre e che io considero molto importanti.

Sono importanti perché credo di fare un ampio uso del linguaggio del corpo: adopero la mimica facciale (cosa pessima per le foto, vengo sempre immortalata con espressioni inqualificabili e indefinibili) e gesticolo molto.

Le mie mani sono sempre in vista, dunque, in quanto sono uno dei mezzi attraversi i quali comunico e mi esprimo: occhi, viso e mani competono con le parole che pronuncio. Diciamo che la potenza della comunicazione non verbale mi affascina.

Tra gli anelli che amo indossare ci sono quelli divertenti, giocosi e che fanno sorridere chi mi incontra: ne ho di buffissimi, di ogni forma, colore e materiale, anelli con piatti di spaghetti, con pacchetti di popcorn, con occhi che si muovono, con oggetti vari in miniatura (macchine, moto, utensili).

Mi piacciono molto anche gli anelli con simboli, monete, piccoli ricordi, iniziali.

E poi ho un’enorme passione per gli anelli-scultura, vere e proprie opere d’arte da indossare: questo è il motivo per cui oggi vi parlo delle creazioni di uno studio di design che si chiama Zimarty. Leggi tutto

Hillary Clinton e i significati di un tailleur dai dettagli viola

Hillary Clinton e il marito Bill in occasione del Concession Speech del 9 novembre 2016 a New York (Photo Getty Images through Vogue)

Lo ammetto: dopo l’esito delle elezioni negli Stati Uniti, sono rimasta sotto shock per qualche giorno, al punto tale da non riuscire a scrivere nemmeno due righe sui social, Facebook, Twitter oppure Instagram.
In particolare, sono scioccata dalla schiacciante vittoria di Donald Trump, ammetto anche questo; sono però ugualmente basita davanti a certi commenti e ad alcune reazioni sia pro sia contro il nuovo presidente.
Si sente e si legge di tutto: c’è perfino chi sostiene che non si possa parlare di una vera vittoria di Trump, quanto piuttosto di una sconfitta – pesantissima – della Clinton poiché il voto non sarebbe una scelta da leggere in positivo, bensì un rifiuto deciso e categorico diretto alla esponente del partito democratico. Mi spaventa il fatto che ciò possa essere la verità, mi sembra terribile votare non a favore di qualcuno in cui crediamo, ma contro un altro candidato.
Si parla anche di un ulteriore messaggio, ovvero della saturazione della gente rispetto alla politica, ai suoi giochi e ai suoi protagonisti più consumati, come Hillary, appunto: qualcuno si spinge fino ad affermare che tutto ciò influenzerà anche il referendum italiano del prossimo 4 dicembre.
Vedete, non so se invidiare chi nutre tutte queste certezze: io ho piuttosto una montagna di dubbi e interrogativi e nutrivo molte speranze sul fatto che, finalmente, un Paese come gli Stati Uniti fosse pronto a dare fiducia a una donna. Ora, morta la speranza, mi pongo un ennesimo quesito: gli americani hanno ragione? Hillary Clinton è una donna tanto pessima da non poterle dare fiducia e lo è al punto tale da preferirle un uomo considerato mediocre e non all’altezza da molti, perfino all’interno dello stesso partito repubblicano del quale fa parte?
In fondo, desiderio di una donna presidente a parte, ho nutrito io stessa diversi dubbi sulla candidatura e su certi atteggiamenti di Hillary (in parte ne avevo parlato anche qui nel blog a proposito di donne e politica): forse, la Clinton non era davvero la candidata giusta affinché il sogno, mio e di molti altri, si avverasse.
Oggi come oggi, dubbi personali a parte, faccio comunque fatica a comprendere fino in fondo la scelta degli americani, un popolo che stimo per molti motivi; eppure, pur non comprendendo e non riuscendo a condividere la loro scelta finale, non mi piace nemmeno chi dà loro degli idioti oppure degli ignoranti o ancora degli ottusi senza analizzare le ragioni profonde di questo voto.
No, non ci sto e non accetto tali generalizzazioni, così come non le accetto mai e in nessun caso.
Siccome mi piace colmare la mie lacune ascoltando gli altri, in tutti questi giorni sono stata zitta e mi sono posta in ascolto proprio per cercare di capire le ragioni dei cittadini degli Stati Uniti: per esempio, ho ascoltato spiegazioni a mio avviso interessanti grazie a Kay Rush, giornalista nonché conduttrice radiofonica e televisiva che stimo.
Kay è statunitense (è nata a Milwaukee nello Stato del Wisconsin) anche se è naturalizzata italiana: può ben dire di conoscere la mentalità americana ed è dunque in grado di tastare il polso dei suoi connazionali.
Ai microfoni di Radio Monte Carlo, Kay ha offerto punti di vista ai quali non avevo pensato o che non avevo considerato, proprio perché, non essendo americana e non vivendo negli Stati Uniti, sicuramente non posso conoscere a fondo l’animo di quel Paese (e mi permetto di dire che di questo dovremmo tenere conto tutti prima di esprimere giudizi basati su conoscenze sommarie e non dirette).
Il primo motivo per cui Hillary non è stata apprezzata da molti è il comportamento che tenne quando suo marito Bill, allora Presidente degli Stati Uniti, fu coinvolto nello scandalo con Monica Lewinsky: gli americani, ha spiegato Kay, amano le donne forti, orgogliose e indipendenti, quindi non hanno apprezzato che la Clinton sia rimasta sposata per ragioni giudicate di mero interesse politico. Inoltre, i cittadini statunitensi amano che alla Casa Bianca ci sia una vera coppia e una vera famiglia, condizioni non più riconosciute ai Clinton. Infine, un ulteriore motivo è una certa altezzosità della quale si accusa Hillary che si è un po’ messa su un piedistallo: prova ne è, secondo la giornalista, il fatto che la Clinton non si sia recata in diversi Stati durante la campagna, facendo sospettare di essere arrogante al punto tale da dare per scontata la vittoria in alcuni luoghi. L’ha fatto perfino in Illinois, il suo Stato di nascita, dove era (forse) ciecamente convinta di poter vincere proprio per un motivo di origini.
Ma gli americani non sono sciocchi (come afferma sbagliando qualcuno) e Hillary, insomma, pagherebbe oggi lo scotto del suo atteggiamento, le accuse di chi la taccia di essere una guerrafondaia (vedere il suo ruolo di Segretario di Stato in un periodo in cui il Paese è stato protagonista di molti interventi bellici) e le sue scelte all’epoca del Sexgate.
Anche il ritardo con il quale la Clinton ha fatto la telefonata di resa (quella con cui ogni candidato statunitense sconfitto ammette tale condizione) non è stato visto di buon occhio in un Paese in cui prendere atto della chiusura dei giochi è un gesto importante che apre la nuova fase che subentra a campagna elettorale e votazioni finite.
Anche in questo caso, si sono sprecate illazioni di ogni tipo, genere e grado, mentre già si iniziano a fare confronti (spesso impietosi e imbarazzanti) tra la First Lady uscente Michelle Obama e Melania Trump, la nuova padrona di casa alla White House.
Sinceramente, a me tutto ciò un po’ infastidisce, quasi quanto i risultati delle elezioni stesse ed esattamente come e quanto sono stata infastidita dalle polemiche (a mio avviso di bassissimo livello) che sono seguite all’ultima cena data da Barack Obama e che ha visto la partecipazione di Matteo Renzi, il nostro Presidente del Consiglio.
Per giorni, non si è parlato di altro che dei vestiti di Agnese Landini Renzi e di Michelle Obama, del loro peso, della loro taglia e della loro forma fisica, della loro bruttezza e / o bellezza (delle signore e dei vestiti), dei brand scelti e via discorrendo.
Voi direte: sarai contenta, ti occupi di moda. Eh no, cari amici, non mi piace che gli abiti vengano usati per discorsi banali, triti e superficiali né mi piace che vengano usati per giudicare le persone.
Visto che penso che sia un linguaggio, mi piace che la moda sia tirata in ballo per fare analisi stimolanti e interessanti in grado di aggiungere nuovi piani di lettura e inediti spunti di riflessione: la critica fine a sé stessa e che sfiora il pettegolezzo mi annoia e mi nausea, invece, e chi mi legge d’abitudine lo sa. Leggi tutto

Donne e politica: Hillary Clinton & Co… la moda è una cosa seria?

Donne.

Donne, politica.

Donne, politica, potere.

Donne, politica, potere, moda.

È così che, molto spesso, mi metto in testa certe idee. Parto da una parola, ne aggiungo un’altra e poi un’altra ancora. Nasce una fila (quasi) ordinata e, infine, metto a fuoco un pensiero.

In genere, c’è qualcosa che, in principio, cattura la mia attenzione, magari un fatto che sembra piccolo e isolato. Poi ne metto vicino un altro. Un altro ancora. Ed ecco che nasce un post per il blog, uno di quelli che di solito chiamo pensieri in ordine (quasi) sparso.

Credo che la suggestione alla base della sequenza donne, politica, potere, moda sia iniziata quando ho scritto il post sulla Brexit e sul referendum dello scorso 23 giugno, quello che sta conducendo all’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea.

Tra i tanti personaggi presenti in quel post, ho citato Margaret Thatcher e il primo referendum che ci fu nel 1975 nel Regno Unito per decidere se continuare a far parte dell’UE: il 67,2% per cento dei partecipanti votò per restare. Quell’anno, la Lady di Ferro, che divenne poi primo ministro nel 1979, sostenne la campagna per la permanenza della Comunità Europea: per correttezza e completezza d’informazione, occorre precisare che le sue posizioni europeiste cambiarono nel corso dei suoi mandati.

L’episodio che mi ha fatto pensare al suo rapporto con la moda accadde proprio in quel periodo.

A una manifestazione a favore del sì, la Thatcher indossò infatti un maglione diventato famoso come la maglia “9 bandiere”: di lana e a maniche lunghe, nero sulle maniche e sulla schiena, recava sul davanti le bandiere dei Paesi che facevano parte della Comunità Europea nel ’75, ovvero Belgio, Danimarca, Francia, Irlanda, Italia, Germania Ovest, Lussemburgo, Paesi Bassi e Regno Unito. Leggi tutto

Riflessioni su moda e costume passando per i jeans

Oggi mi sento in vena di nostalgia per il passato.
E – chissà perché – spesso capita che quello che proviamo sembra essere acuito e amplificato da ciò che ci circonda.
Mi spiego meglio: avete presente quando vi sentite romantiche e non vedete altro che coppie che si baciano? Oppure quando siete tristi e in televisione danno solo film strappalacrime?
Ecco, oggi, nelle mie incursioni sul web, mi sembra di trovare solo materiale che alimenta pensieri e nostalgie, ma ho deciso di volgere il tutto in un’ottica positiva: la mia convinzione è che si guarda avanti solo conoscendo ciò che è stato. Presente e futuro privi della memoria del passato equivalgono a una casa senza fondamenta e mi piacerebbe dimostrare quanto ciò sia vero più che mai nella moda e nel costume.

Ho usato – appositamente distinguendoli – i termini moda e costume e qui mi tocca fare una digressione: c’è differenza? Possono essere considerati sinonimi?
Diciamo che esistono delle sfumature.
La moda riguarda il cambiamento progressivo – e sempre temporaneo – del nostro modo di vestire e di arredare, ma anche, per esempio, di viaggiare, spostarci o divertirci: racconta, insomma, lo stile di vita sia della società sia dei singoli individui. Un tempo, tali cambiamenti erano molto lenti, mentre oggi sono sempre più veloci.
Il costume analizza invece comportamenti, usi e abitudini in chiave antropologica, ovvero studia i bisogni alla base e le caratteristiche che permettono di riconoscere una civiltà da un’altra o un’epoca da un’altra.

Naturalmente, moda e costume si influenzano a vicenda e sono correlati: non dimentichiamo inoltre che l’essere umano è l’unica creatura vivente che interviene volontariamente sul proprio aspetto attraverso il tramite di elementi esterni e lo fa per moltissimi motivi pratici e sociali, dall’esigenza di coprirsi e proteggersi al bisogno di comunicare passando per la pura vanità (l’intervento di modifica avviene talvolta anche nel mondo animale e vegetale, è vero, ma solitamente è finalizzato e limitato a precise fasi e a momenti specifici quali per esempio il corteggiamento, l’accoppiamento, l’impollinazione).

Sapete, Enrico, il mio amore, mi ha appena regalato un libro molto interessante, si intitola Fashion:Box ed è edito da Contrasto: racconta quelli che sono considerati i grandi classici della moda (la minigonna, la camicia bianca e via discorrendo) e li collega alle icone che hanno contribuito a renderli immortali (un esempio per tutti, Audrey Hepburn e il tubino nero).
Proprio iniziando a leggere questo volume, mi è venuto in mente un esempio di capo che ha fatto la storia del costume e che oggi racconta la moda: mi riferisco ai jeans.

Si dice che i jeans siano nati a Genova sebbene la loro definitiva affermazione sia poi partita dagli Stati Uniti, nel periodo della corsa all’oro: nel 1853, Levi Strauss apre a San Francisco un negozio per vendere oggetti utili a lavoratori e cercatori d’oro e propone dei grembiuli in denim, un pesante tessuto di colore blu.
Un sarto di nome Jacob Davis, originario del Nevada, si unisce a lui e, nel 1873 (precisamente il 20 maggio), l’ufficio americano dei brevetti rilascia loro l’autorizzazione a produrre in esclusiva pantaloni di cotone robusto tenuti insieme anche grazie a rivetti metallici posti nei punti più soggetti a tensione e usura.
In quegli anni, il denim viene usato dagli operai che costruiscono le prime ferrovie americane, dai taglialegna e dai mandriani di bestiame: i jeans vanno dunque a soddisfare un bisogno, quello di avere indumenti funzionali, resistenti e longevi.
Con l’avvento del secolo successivo e in particolare negli Anni Cinquanta, il cinema americano porta i jeans nelle case dei giovani attraverso idoli quali James Dean o Elvis Presley: i pantaloni in denim diventano il simbolo della ribellione giovanile e della voglia di prendere le distanze dalla monotonia (e dall’ipocrisia) del mondo degli adulti.
In seguito, però, i jeans diventano trasversali e negli Anni Ottanta si trasformano addirittura in un capo di lusso. Oggi non parlano necessariamente di bisogni soddisfatti o di voglia di ribellione e sono indossati da tutti, qualsiasi mestiere si faccia e a qualsiasi età, cambiando rapidamente fogge e modelli: hanno smesso quindi di essere un fenomeno di costume per entrare a pieno titolo nelle vicende di moda.

A questo punto, dopo aver fatto una piccola distinzione tra costume e moda, torno a ciò che volevo affermare fin dal principio: il passato ci dà chiavi di lettura che permettono di capire il presente e ci consentono di guardare al futuro.
Inoltre, osservando lo scorrere del tempo, possiamo fare un’altra constatazione: i cambiamenti nella moda non sono affatto un prodotto della società moderna come molti credono, bensì hanno accompagnato ogni epoca.
Al limite, ciò che è cambiato è l’atteggiamento, l’attitudine a fare dei trend una mania che può diventare malsana nel momento in cui perdiamo la componente critica che invece dovrebbe essere sempre presente.
La critica alla quale mi riferisco deve essere costruttiva e non distruttiva: semplicemente, come ho affermato in altri casi, cerchiamo di non accettare pedissequamente tutto ciò che la moda ci propina e facciamo invece sentire la nostra voce e la nostra personalità. È così che taluni sono riusciti a scrivere la storia della moda.

A dimostrazione del perenne mutare della moda in ogni epoca, vi mostro il delizioso quadretto qui sopra: illustra quanto e come siano cambiate le fogge femminili in un periodo relativamente breve, dal 1809 al 1828 (1).
E concludo con due video molto divertenti: per par condicio, uno è dedicato alle donne e uno agli uomini.
Guardando i video, a me è venuto un pensiero: in alcuni casi, preferisco la moda del passato, naturalmente senza tornare a estremismi come i corsetti che stringevano la vita, per carità, orpelli che rendevano la donna prigioniera (2).

Ve l’avevo detto che oggi sono nostalgica, tuttavia non voglio perdere di vista il mio obiettivo primario e torno a sottolineare che storia e ricordo devono avere una valenza educativa e fungere da insegnamento senza imprigionarci: «Coloro che non ricordano il passato sono condannati a ripeterlo», scriveva il filosofo e saggista spagnolo George Santayana.
Sono d’accordo con lui e lo sono comunque sia il passato, bello o brutto.

Manu

(1) Per chi fosse curioso quanto lo sono io: l’illustrazione cita un periodico pubblicato in Inghilterra tra il 1809 e il 1829 dall’editore e litografo Rudolph Ackermann. Sebbene tale periodico fosse spesso chiamato Ackermann’s Repository o semplicemente Ackermann’s, il titolo esatto e completo era Repository of arts, literature, commerce, manufactures, fashions and politics: in effetti, andava a coprire tutti questi campi e, durante gli anni della sua pubblicazione, ha avuto grande influenza sui gusti inglesi.
Il quadretto d’insieme è un’elaborazione digitale dell’artista Evelyn Kennedy Duncan aka EKDuncan.

(2) Nel caso in cui qualcuno non creda al fatto che i corsetti stringivita imprigionassero le donne, riporto le significative parole di Thorstein Bunde Veblen, economista e sociologo statunitense: «Il busto – scriveva Veblen, grande ritrattista della classe agiata – è sostanzialmente uno strumento di mutilazione al fine di ridurre la vitalità del soggetto e di renderla evidentemente inadatta al lavoro».
Durante tutto il 1800, la donna doveva avere il cosiddetto vitino di vespa con una circonferenza che non superava i 40 centimetri, in netto contrasto con l’ampiezza delle gonne.

Elizabeth Arden, seduta di trucco e storia di una donna unica

Quale donna non ricorda con tenerezza i primi propri personali approcci col trucco?

Quale donna non ricorda i primi tentativi, spesso maldestri, di mettere il rossetto per bene o di fare la riga precisa sul contorno occhi?

E ricordate le incursioni nel beauty case della mamma, affascinate da boccette, flaconcini, vasetti e pennelli?

Ricordo anche le prime discussioni sul colore del lucidalabbra da adottare o sull’altezza di quella benedetta riga sugli occhi, così come ricordo quanto erano preziosi i primi prodotti tutti miei, mi sembrava di aver fatto una conquista importantissima.

Il make-up è un mondo che mi affascina da sempre, quindi sono stata molto felice quando Elizabeth Arden, nome storico e prestigioso, mi ha proposto di fare da modella per una sessione di trucco.

L’occasione è stata fornita dalla Milano Vintage Week, la kermesse milanese dedicata alla moda d’antan: lo scorso anno, avevo tenuto per loro un piccolo seminario intitolato Vintage con personalità, quest’anno abbiamo rinnovato la nostra collaborazione in un modo nuovo.

Grazie a un corner completamente dedicato alla celebre maison, ho avuto modo di interfacciarmi con Caterina Todde, bravissima make-up artist scelta da Elizabeth Arden, e ho potuto provare diversi prodotti.

Inoltre, grazie a una bellissima mostra ricca di documenti, fotografie, manifesti di campagne pubblicitarie e confezioni di prodotti originali, ho avuto la possibilità di approfondire la storia del brand e della sua mitica fondatrice, Miss Elizabeth Arden. Leggi tutto

M Missoni is for Music: a NYC, moda e musica con un pizzico di impegno

Non sono una persona molto interessata al gossip e alla mondanità: quello che fanno attori, cantanti e sportivi non mi appassiona granché.

Mi piace seguirli nelle loro professioni, se li stimo, ma sinceramente non mi interessa sapere con chi escono o con chi si lasciano o con chi fanno un figlio.

Raramente cedo alla lettura di qualche rivista di pettegolezzi, più che altro per noia, tipo quando sono in attesa dal parrucchiere con il colore in posa, ma se ho con me il mio fido iPad la scelta non si pone: preferisco navigare in rete e cercare cose nuove.

Faccio un’eccezione quando non si tratta di gossip vero e proprio o di mondanità pura, ovvero quando le star legano i loro nomi a buone cause: sono tra coloro che credono che la celebrità possa avere un’utilità e che possa risultare positiva se diventa un esempio per gli altri.

Seguo Missoni da sempre, orgogliosa che sia un brand italiano di ottima tradizione, e lo scorso anno mi è capitato di essere invitata all’inaugurazione della nuova boutique di corso Venezia a Milano, quella che ospita i capi della linea M Missoni dedicata al prêt-à-porter (se siete interessati, potete trovare qui il mio racconto). Per questo la mia attenzione è stata attirata da un paio di eventi organizzati a New York e nei quali il marchio ha avuto un ruolo da protagonista.
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