Chiudono Colette e MAD Zone e io sono amareggiata (ma non mi arrendo)

Ve lo dico subito: oggi sono arrabbiata. Tanto.
Ma no, aspettate, forse arrabbiata non è l’aggettivo giusto né è giusto dire che lo sono oggi o da oggi: in realtà, provo rabbia, sì, d’accordo, ma il sentimento che più si avvicina a ciò che provo è l’amarezza e la provo già da diverso tempo.
Amarezza, ovvero un miscuglio di viva delusione, doloroso rammarico e pungente tristezza mescolati a contrarietà, fastidio e a un antipatico senso di impotenza.

Tutto ciò va avanti da tempo, come vi dicevo, precisamente dallo scorso luglio, ovvero da quando ho saputo della chiusura di Colette (diventata definitiva esattamente una settimana fa, il 20 dicembre – vedere qui e qui) e della cessione degli spazi appartenenti a 10 Corso Como (qui e qui due articoli di Pambianco).
Ad acquisire gli spazi sono stati l’imprenditore Tiziano Sgarbi e la stilista Simona Barbieri, fondatori ed ex proprietari di TwinSet: la mia perplessità circa l’acquisizione è aggravata dal fatto che proprio il marchio TwinSet è stato da loro ceduto al gruppo Carlyle, grossa società internazionale di asset management.
E io mi domando: cosa faranno questi due signori, ora, con 10 Corso Como? Seguirà la stessa sorte di quel loro ex marchio, finirà in pasto a qualche abnorme gruppo finanziario dove contano solo i numeri?

Colette e 10 Corso Como: due concept store, due spazi polifunzionali, due realtà appartenenti rispettivamente non solo alla storia di città come Parigi e di Milano ma al mondo.
Due luoghi mentali prima che fisici che hanno scritto pagine importanti della moda e del costume internazionale e del modo di intenderli: l’hanno fatto per 20 anni nel caso di Colette (fondato nel 1997 da Colette Roussaux) e per 27 anni nel caso di 10 Corso Como (fondato nel 1990 da Carla Sozzani, sorella di Franca, mitica direttrice di Vogue Italia).

Poi, dopo queste notizie, a fine luglio, è arrivata anche la telefonata di Tania Mazzoleni.
Per chi legge A glittering woman (grazie sempre ), quello di Tania è un nome familiare: è la fondatrice di MAD Zone, negozio e salotto meneghino sospeso tra moda, arte e design e che io ho sostenuto con tanto entusiasmo durante tutto il suo percorso, dagli eventi che lì sono stati presentati (qui e qui due esempi) fino ad arrivare ai creativi che ho conosciuto attraverso quella che era diventata una vera e propria fucina di talenti (come per esempio Andrea de Carvalho e Buh Lab).
Quella che ho scelto per illustrare il presente post, qui in alto, è una foto che ritrae me e Tania proprio in occasione di uno degli eventi di MAD Zone della scorsa primavera.

Ecco, il 31 luglio, Tania mi ha annunciato la chiusura di quel suo spazio così vivo e così emozionante ed è stato un duro colpo al cuore visto il mio deciso e sincero sostegno, è stato uno sviluppo inatteso e doloroso che mi ha toccato proprio nel personale e nel profondo, perché gli investimenti morali sono quelli sui quali io punto con più forza.
E in MAD Zone credevo fortemente, so che aveva tutte le carte in regola per diventare sempre più un grande successo. Come Colette e come 10 Corso Como.

Per completare il quadro alquanto nefasto mancava solo un’ulteriore quanto pessima notizia ricevuta attraverso Valentina Martin, la fondatrice di Spazio Asti 17, altro indirizzo milanese particolarissimo.
Dopo le vacanze estive, in settembre, ho incontrato Valentina per caso, a una fiera di settore: con un dispiacere evidente, mi ha confessato la chiusura del suo spazio che negli anni ha ospitato artisti e designer (lì ho incontrato Eleonora Ghilardi fisicamente dopo tanti scambi virtuali) e che è stato il teatro di tanti eventi culturali ai quali ho partecipato, talvolta con un ruolo attivo (per esempio quando sono stata chiamata a presentare uno dei libri della brava Irene Vella, giornalista e amica).

Ecco, a quel punto la mia amarezza è diventata dilagante.

Tra l’altro, è giusto precisare che, in realtà, il sentimento di disagio (nonché il primo campanello di allarme) risale a molto tempo prima ancora, ovvero quando nel 2011 chiuse definitivamente il concept store Fiorucci di piazza San Babila a Milano.

Aperto nella centralissima piazza nel 1967 (e precisamente in Galleria Passarella, come avevo già raccontato qui), lo store ideato dal grande e rimpianto Elio Fiorucci proponeva mode e tendenze dalle principali metropoli mondiali: luogo frequentatissimo e molto amato dai milanesi (e non solo), vi si trovava di tutto, dalle magliette ai pezzi di design, dai profumi agli oggetti esotici, ed è stato l’antesignano dei concept store in Italia.

Nel 2003, il negozio Fiorucci aveva abbassato la saracinesca, ceduto al colosso del fast fashion H&M: ma, dopo la clamorosa chiusura, Fiorucci aveva comunque riaperto poco più in là, sempre in Galleria Passarella, anche se in versione notevolmente ridimensionata e con vetrine affacciate dalla parte di corso Europa.
Purtroppo, nel 2011, era arrivata la chiusura anche di questo nuovo punto vendita e la fine definitiva di un’avventura epica.

Con Colette e MAD Zone, la crisi generale del settore retail (quello delle vendite al dettaglio) miete ora nuove vittime e questa volta non si tratta delle grandi insegne statunitensi particolarmente falcidiate dalle difficoltà del modello brick & mortar (qui, qui, qui e qui alcuni articoli di Pambianco e di Fashion Network con qualche nome), bensì di insegne storiche di un settore specifico, quello dei concept store.

Con il termine brick & mortar gli studiosi del settore identificano un’attività legata all’economia reale, caratterizzata dunque dall’esistenza di strutture aziendali fisiche in cui i clienti possono recarsi di persona per vedere e acquistare i prodotti: il termine sottolinea la differenza tra realtà fisiche, rappresentanti della old economy, in contrapposizione a quelle della new o net economy.
Il termine inglese significa letteralmente mattoni e malta, cioè i materiali da costruzione più tradizionali.

Proprio in ragione della specificità del settore e della sua importanza, la chiusura di Colette e i passaggi che interessano 10 Corso Como – entrambe realtà molto conosciute a livello mondiale – hanno fatto scorrere fiumi di inchiostro.

Si è parlato non solo di problemi economici, ma si sono fatte infinite congetture a proposito della morte definitiva dei concept store, della crisi diffusa della creatività, di responsabilità da parte dei Millennials che ricercano solo una moda di tipo fast, di progresso (?), di old economy contro new economy, di analogico contro digitale, di corsa al negozio virtuale a scapito degli spazi fisici.
Perdonatemi se mi aggiungo anch’io, ma ho un po’ di cose da dire proprio su questi argomenti.

L’abbiamo già detto, da una parte sussiste l’innegabile questione economico-finanziaria: la crisi che ha colpito i retailer in tutto il mondo (e non solo i concept store) ha trasformato i loro conti economici in qualcosa di difficile da sostenere.
Oggi comandano sempre più i grandi gruppi che muovono grandi capitali: o si è all’interno di queste logiche o diventa quasi impossibile sopravvivere, soffocati da affitti capestro, strozzati da partner inaffidabili che si tirano indietro all’improvviso, assorbiti da investitori le cui mire risultano talvolta poco chiare.

Un esempio pratico è proprio quello di 10 Corso Como che sopravviverà (forse) solo perché acquisito da qualcuno con un portafoglio florido e che – così sostiene – porterà avanti la filosofia di Carla Sozzani: «non snatureremo la formula, vogliamo rimodernarla», ha dichiarato Simona Barbieri al Corriere della Sera.
Sarà davvero così, l’anima più autentica del celebre spazio polifunzionale verrà rispettata?

Per estremo paradosso, tutto ciò avviene in città – Milano, Parigi – che dovrebbero essere culle per la creatività che era ben rappresentata da luoghi come Colette, MAD Zone, Spazio Asti, luoghi oggi tristemente chiusi.
Sempre per lo stesso paradosso, spazi similari sembrano resistere solo in provincia, in luoghi più piccoli dove pare esserci ancora spazio – in ogni senso, fisico e mentale.

E parliamoci chiaro: questo processo di schiacciamento finanziario era iniziato già prima della corsa alla rivoluzione digitale che negli ultimi anni ha assunto una velocità vertiginosa.
Prova di ciò è il ridimensionamento del concept store di Elio Fiorucci avvenuto già nel 2003.
Anzi, il processo è iniziato perfino prima delle gigantesche holding finanziarie attuali, quando la grande distribuzione e i centri commerciali hanno quasi ucciso la piccola distribuzione, quella fatta di negozi e botteghe di quartiere, i cosiddetti negozi di prossimità o di vicinato.

C’è poi la questione legata a una parola che ho citato poco più sopra, ovvero creatività.
Da tempo si dice che la creatività sia morta ma io non ci credo. Non voglio crederci.
Se – purtroppo – sono innegabili le questioni di soldi, rifiuto invece di credere alla morte della creatività nonché alla morte di formule (i concept store) che la diffondevano.

Il progresso non si arresta, è vero, e io sono la prima a pensarlo; chi non si adegua al progresso è destinato all’estinzione come un dinosauro ed è vero anche questo.
Ma questo non significa abbattere il vecchio in modo insensato: abbattiamo forse un monumento dalla valenza storica e culturale perché è vecchio?
No, costruiamo al suo fianco nuove strutture e facciamo convivere l’antico e il nuovo in quanto riconosciamo nell’antico un valore che, anche se non è più attuale, è importante per ciò che ci ha insegnato.

Non è detto che dobbiamo necessariamente accettare tutto ciò che ci viene propinato in nome di progresso e futuro e lo dice una persona che ama profondamente il concetto di progresso: penso che porsi in un ascolto critico e non passivo sia molto più producente.
Non sono mai stata spaventata davanti all’idea di smontare cose o situazioni obsolete se tale idea è accompagnata dalla prospettiva di una ricostruzione; tuttavia, distruggere per lasciare il vuoto (ciò che ho impressione stia accadendo) è invece un atteggiamento che non mi piace.

Credo che il discorso sull’evoluzione e sulla necessità di adeguarvisi ultimamente sia stato travisato e (appositamente) spinto ed estremizzato; credo inoltre che, in alcuni casi, il tutto sia stato fatto con uno scopo ben preciso e se avete pazienza vi spiegherò bene cosa intendo.

Cogliere i cambiamenti non vuol dire necessariamente approvarli né accettarli pedissequamente – scusate se lo ripeto e se insisto: vuol dire piuttosto ritagliarsi un ruolo attivo per poter guidare quel cambiamento nella direzione che la nostra etica ci suggerisce.
E aggiungo che, in un’epoca in cui sembra vincere la superficialità, è sempre più importante credere (e investire) nella cultura; ciò richiede coraggio da parte di tutti, da parte di chi è impegnato nella formazione delle nuove generazioni e da parte di chi fa business.

Ecco perché a volte rimpiango gli imprenditori del passato, coloro che erano capaci di far procedere di pari passo profitto economico e crescita della società: proprio questa settimana, ho parlato agli studenti di un mio corso di Ermenegildo Zegna e permettetemi di condividere anche con voi questa bella storia.

Nel 1910 a soli 18 anni, il giovane Ermenegildo (ultimo di dieci figli) fondò il Lanificio Zegna, a Trivero, nelle Alpi biellesi, iniziando a produrre tessuti con quattro telai.
Precursore dei suoi tempi, Ermenegildo aveva una strategia basata sull’approvvigionamento delle fibre naturali della migliore qualità direttamente nei paesi d’origine, sull’innovazione nel campo del prodotto e dei processi produttivi e sulla promozione del marchio (sono della sua azienda le prime pubblicità sui treni italiani).
Il suo spirito pionieristico lo portò a esportare tessuti nella lontana America già nel 1938: nel 1945, i tessuti Zegna erano venduti in oltre 40 Paesi.
Ma la grande capacità di Ermenegildo non si limitava agli affari: l’imprenditore capì che instaurare un rapporto positivo con il territorio e con le comunità locali sarebbe stata la base per ottenere la qualità a cui ambiva per i suoi prodotti. Capì che la bellezza dell’ambiente naturale e il benessere delle persone – e non solamente dei suoi dipendenti – erano indispensabili per un’azienda che aspirasse a durare nel tempo.

Nel 1932, a Trivero, erano già state create una sala convegni, una biblioteca, una palestra, un cinema/teatro e una piscina pubblica: nell’arco di qualche anno, Ermenegildo fece costruire anche un centro medico e una scuola materna.
Allo stesso modo, si dedicò anche all’ambiente e al paesaggio locale, piantando migliaia di alberi e costruendo la Panoramica Zegna, una strada di 14 chilometri che collega Trivero e la stazione turistica di Bielmonte.
Ermenegildo Zegna era un precursore con una mente straordinariamente aperta, specialmente per quanto riguarda il benessere sociale del territorio e la ridistribuzione del valore agli operai: è stato un ecologista molto prima che il termine fosse inventato.

Oggi, i tessuti Zegna sono ancora uno dei prodotti d’esportazione più prestigiosi d’Italia: l’idea di una cultura della bellezza (principio che si basa sul concetto che la qualità del prodotto non possa essere separata dal benessere dell’ambiente e delle comunità locali) si è rivelata vincente e viene portata avanti attraverso la Fondazione Zegna e l’Oasi Zegna che gode del prestigioso patrocinio del FAI, il Fondo Ambiente Italiano.

Oggi, invece, tanti imprenditori non pensano purtroppo nemmeno lontanamente all’importanza di valori quali cultura, formazione e benessere; pensano spesso solo in termini di freddi ed egoistici calcoli finanziari e il risultato è una mancanza di prospettive a lungo termine, è il vuoto di idee nonché un sistema economico superficiale e fragile che rischia di implodere su sé stesso proprio a causa dell’incapacità di proporre alternative che siano davvero valide e sostenibili rispetto a un passato che si vuole semplicemente distruggere.
Con tali comportamenti, questi personaggi spingono nella direzione della superficialità: ben venga – per loro – l’assenza di opinioni personali perché laddove non esiste personalità o cultura le persone diventano facilmente manovrabili, diventano consumatori anziché teste in grado di scegliere autonomamente e, magari, protestare.
E sempre per questi personaggi è molto comodo far passare messaggi tipo «se non ti adegui ti estingui» perché mette fretta, mette paura, fa sentire inadeguati e costringe a sposare cambiamenti sempre più fragili, inconsistenti, superficiali.

Tutto ciò mi spaventa, perché questo è il rischio che ci troviamo davanti, vuoto e superficialità spacciati per progresso, mentre io vorrei vedere altro nella cosiddetta rivoluzione digitale: vorrei che non fosse l’abbattimento dei valori antichi (antichi e non vecchi) in cambio della superficialità, bensì la capacità di moltiplicare le possibilità costruendo qualcosa di nuovo che sia in armonia con ciò che è stato.
Vorrei che non fosse un abbattimento sconsiderato per una sostituzione che a me spesso appare come un vuoto. Vuoto di idee, vuoto di morale.

Perché se la rivoluzione digitale è solo questo… beh, allora a me non interessa.
Se è solo chiusura di luoghi come Colette e MAD Zone in favore di omologazione, diktat e consumo seriale a me non interessa.
Perché altrimenti la moda perde quello che secondo me è il suo fascino e la sua più grande attrattiva, ovvero essere linguaggio, personale e individuale, per diventare solo la vendita di quattro stracci tutti uguali.
Se è così… fermate questa giostra perché io voglio scendere. A costo di rischiare l’estinzione.

Le rivoluzioni non si fermano, è vero, e io non voglio certo fermare quella digitale (vivo in buona parte al suo interno!), ma nulla impedisce di scegliere il modo di viverle.
Le rivoluzioni si possono cavalcare oppure ci si può far travolgere, ci si può annegare dentro rassegnandosi o si può cercare di resistere nuotando.
La trasformazione che stiamo vivendo non è ineluttabile o non è ineluttabile la direzione che prenderà: sta a noi – a ognuno di noi, sì – cercare di pilotarla nella direzione che crediamo migliore.

Perché – se non fossi stata chiara – per me la formula del concept store non è né obsoleta né morta, soprattutto intesa nel suo senso più puro, ovvero come spazio che racchiude idee e concetti che possono essere declinati in abiti, accessori, oggetti di design, arte, profumi, musica, libri.

Né credo sia morta la creatività, come vorrebbero farci credere.
Il design – nella moda e non solo – non è un capitolo chiuso come invece un certo establishment dei rispettivi settori vorrebbe imporci di pensare, soprattutto quello che ragiona esclusivamente in termini di fatturati considerando noi tutti come mucche da mungere: si può ancora agire per creare qualcosa di nuovo e viceversa non è vero che tutto è stato detto e che l’unico escamotage da mettere in atto per creare curiosità e sensazione sia il mix & match di prodotti già esistenti.
Al limite, la mancanza di creatività è un problema che appartiene proprio a chi la pensa in questi termini.

E se qualcuno si stupisce del fatto che la chiusura di Colette e MAD Zone non abbia abbattuto le mie idee più ardite e visionarie confermandone la morte, rispondo che – al contrario – questi accadimenti mi hanno dato maggiori conferme: credo infatti che dietro lo stop a quei progetti ci siano tante motivazioni che ho in buona parte esposto qui, ma che non sono certo la mancanza di talento e creatività.

Non credo infine che sia morta nemmeno la voglia di eccellenza.
Secondo me, quello che vuole che la generazione dei Millennials ambisca a vestire solo fast e che non cerchi né di idee originali né eccellenza è un altro (sciocco) luogo comune.
Chissà, forse ho più stima dei Millennials di quanta ne abbiano molti, ma non voglio credere che loro – insieme alla neo Generazione Z – si accontentino solo di superficialità.

A rischiare l’agonia e forse la morte è però oggi il pensiero libero e individuale – così come farebbe comodo a una certa (irresponsabile) classe di uomini politici e d’affari.
E credo che in definitiva la sfida sia proprio in tal senso e che lo sia trasversalmente e indistintamente, per tutte le generazioni (inclusa la mia, la Generazione X): sottoscriveremo questa morte?
Lasceremo che accada?

Ci adegueremo al pensiero che va o andrà per la maggiore (la via più facile), rinunceremo al nostro senso critico o tenteremo – nel nostro piccolo – di fare qualcosa?
Resisteremo alla tentazione dei luoghi comuni e della banalità evitando di ripetere le formule preconfezionate che ci vogliono propinare e delle quali ci vogliono convincere, come «i negozi fisici non hanno più senso» oppure «la creatività è morta» oppure «non c’è più nulla da inventare» oppure «di conseguenza i concept store sono morti»?
Vogliamo rispondere a queste banalità e a chi le promuove con domande legittime come «qual è l’alternativa concreta che proponi?»
(Per inciso: non rispondetemi che l’alternativa a tutto ciò è Instagram, vi prego. Amo alla follia Instagram ma dubito fortemente sia l’alternativa risolutiva e definitiva, perché nulla nel web, nel digitale e nei social media è definitivo.)

Io ho già scelto.
Io ho già deciso di provare a resistere.
Anche scrivendo questo post ed esercitando il mio continuo desiderio di confrontarmi, di mettermi in gioco e in discussione, di tenere gli occhi aperti. Ben aperti.

Voglio dire un’altra cosa – perché so che siamo soggetti a infiniti stimoli e non ci si può ricordare di tutto.
Quando la grande distribuzione sembrò avere la meglio sulla piccola, i soliti profeti predissero e decretarono – in puro stile Cassandra – la morte e il superamento del concetto di negozio.
Peccato che oggi, a qualche decennio di distanza, molti siano tornati sui propri passi, compresi alcuni di quei profeti: viviamo un momento di revival di negozi e botteghe, c’è un certo movimento che tenta di tornare a dare valore a quelli che sono stati considerati modelli superati.
Perfino le insegne delle grandi catene abbandonano talvolta i grandi spazi commerciali per tornare a ripopolare luoghi che fin a poco tempo fa erano reputati di marginale interesse, proprio per cercare di cavalcare questa inversione di tendenza (un altro paradosso…).
Si è capito, insomma, che la grande distribuzione non è la soluzione per tutto e si sta vedendo come fare un passo indietro: forse, i negozi di quartiere, di prossimità o di vicinato, chiamateli come preferite, non rappresentavano dunque un modello poi così obsoleto.
(Se avete voglia, leggete questo articolo di Fashion Network che racconta come Milano, per esempio, stia rivalutando i negozi di vicinato, con il sindaco Sala schierato a favore, in quanto tali attività garantiscono perfino «più vivibilità e sicurezza dei quartieri».)

E ci sono altri esempi di quanto nulla sia definitivo e categorico.
Qualcuno aveva dato per morti anche i dischi in vinile – e sono invece tornati in auge – così come è stato fatto per i libri di carta contro eBook.

Statistiche e ricerche recenti dicono invece che, negli Stati Uniti, gli eBook sono oggi in calo, mentre sono stabili (e in alcuni casi in aumento) i libri di carta (in brossura e rilegati): lo afferma uno studio della AAP (Association of American Publishers) che spiega come, per il terzo anno consecutivo, i libri digitali abbiano registrato un calo sia per quanto riguarda le entrate in $ sia per quanto riguarda le unità vendute, mentre i libri in brossura restano il formato più popolare in termini di unità vendute.
Non solo: se i libri rilegati non sono il formato che vende di più in termini assoluti, sia le unità vendute sia le entrate sono aumentate per il secondo anno di fila.

Una delle cause principali del calo degli eBook? Quella che viene chiamata fatica digitale e che fa sì che i dispositivi elettronici affatichino la vista più della carta stampata.
La AAP precisa inoltre che alla base del fenomeno del calo dei libri in formato digitale c’è anche la fine del cosiddetto effetto novità: le case editrici speravano che gli eBook avrebbero incuriosito molti più utenti che, invece, al contrario di ciò che è avvenuto per quotidiani e riviste, si sono un po’ stancati di questo formato tornando a preferire la tradizionale carta.

E allora lo ripeto: nulla nelle vicende umane, digitale incluso, è definitivo e lo dice una che con il web ci studia e ci lavora.
Non che ci fosse qualcosa di definitivo nell’analogico, ma a maggior ragione non esistono certezze assolute in un mondo che è in buona parte virtuale: ecco perché io non mi faccio ammaliare e cerco di far convivere analogico e digitale.

Perché, tra l’altro, la frontiera più avanzata del digitale torna – per ulteriore paradosso e in questo caso è un paradosso che mi piace – a mettere al centro l’individuo.

In un post recente, avevo raccontato come Brunello Cucinelli, l’imprenditore umbro fondatore dell’omonima casa di moda specializzata in cashmere, parli da tempo di tecnologia garbata e di umanesimo digitale.
L’ha fatto anche lo scorso 8 novembre, in occasione di un importante convegno a San Francisco, di fronte a una platea che comprendeva personaggi del calibro di Michelle Obama (ex First Lady degli Stati Uniti), Susan Wojcicki (CEO di YouTube), Ginni Rometty (presidente e CEO di IBM).
Ecco, gli imprenditori come Cucinelli mi fanno pensare a Ermenegildo Zegna e mi fanno pensare che esistono suoi eredi morali e persone che sono capaci, ancora oggi, di essere precursori come lo è stato lui, sebbene risulti un po’ buffo che sia servito quasi un secolo per tornare a ciò che lui aveva compreso istintivamente già allora.

A questo punto, però, mi chiedo una cosa: i profeti che oggi decretano la morte del concept store faranno (magari tra 10 o 15 anni) lo stesso dietrofront già fatto sul fronte negozi di vicinato, dischi in vinile, libri di carta – e potrei proseguire con altri esempi?

Ai posteri l’ardua sentenza.
Io mi pongo in attenta e vigile osservazione e intanto cerco di tamponare la mia attuale delusione per la chiusura di Colette e MAD Zone con alcune considerazioni finali:

  1. Pensate che io sia solo una piccola e sciocca nostalgica, appartenente a una generazione ormai fuori luogo e fuori tempo? Leggete il disappunto della grande e influente giornalista di moda Suzy Menkes che alla definitiva chiusura di Colette avvenuta il 20 dicembre ha dedicato ben nove post sul suo account Instagram (qui e qui un paio).
  2. Per fortuna, previsioni funeste a parte, c’è invece chi fa ciò che io amo, ovvero prova ad analizzare nuove realtà e nuovi modelli: in questo articolo, Pambianco prova a raccontare i possibili scenari dello store del futuro.
  3. Sono ripetiva, lo so: il concept store non è morto e se non credete a me leggete la storia e il caso di Chichi Meroni, fondatrice nel 2010 di un altro luogo milanese, il cult store L’Arabesque.
  4. Chi è geniale continua a esserlo: qui trovate i nuovi progetti di Sarah Andelman (co-fondatrice di Colette insieme alla madre Colette Roussaux) e qui un’intervista interessante a Carla Sozzani sugli attuali progetti e il futuro di 10 Corso Como.

Per inciso: durante la nostra telefonata di fine luglio, anche Tania Mazzoleni mi ha parlato di nuovi progetti.
E allora ti aspetto, cara Tania: per me, MAD Zone non è finito, è solo in attesa di trovare una nuova forma.
Potremmo anche aver perso una battaglia, forse, ma non la guerra: so che non ti arrendi né ho intenzione di farlo io.

Per chi come me crede nel talento e nella bellezza, per chi come me cerca di dare costantemente voce alla capacità, la chiusura di una realtà come Colette è un’immensa amarezza nonché una cocente delusione; nel caso di MAD Zone, il tutto diventa perfino qualcosa di più, diventa una sconfitta personale.

Così la vivo, eppure questo non metterà a tacere né te né me, Tania: è solo uno stop momentaneo che ci renderà più forti e più determinate nel difendere ciò in cui continueremo a credere.
Perché chi è abituato a combattere sa che le rivoluzioni – quelle vere, solide, concrete, durature e perfino definitive – richiedono tempo, pazienza e devozione, mentre le dinamiche che caratterizzano il mondo digitale si stanno spesso rivelando solo fugaci e passeggeri fuochi di paglia.

E allora io sono qui, in attesa di darti il mio sostegno per nuove avventure, Tania.

Lo farò con te e con chi avrà il coraggio di portare avanti progetti come Colette, MAD Zone, 10 Corso Como e Spazio Asti 17.

Manu

 

 

 

 

 

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Manu

Mi chiamo Emanuela Pirré, Manu per gli amici di vita quotidiana e di web. Sono nata un tot di anni fa con una malattia: la moda. Amo la moda perché per me è una forma di cultura, una modalità di espressione e di comunicazione, un linguaggio che mi incuriosisce. Scrivo e creo contenuti in ambito editoriale, principalmente proprio per la moda. Insegno (Fashion Web Editing, Storytelling, Content Creation) in due scuole milanesi. Vivo sospesa tra passione per il vintage e amore per il futuro e sono orgogliosa della mia nutrita collezione di bijou iniziata quando avevo 15 anni. Per fortuna Enrico, la mia metà, sopporta (e supporta) entrambe, me e la collezione, con pazienza e amore. Oltre a confessare un'immensa curiosità, dichiaro la mia allergia a pregiudizi, cliché, luoghi comuni, conformismo e omologazione. Detesto i limiti, i confini, i preconcetti – soprattutto i miei – e mi piace fare tutto ciò che posso per superarli. La positività è la mia filosofia di vita: mi piace costruire, non distruggere. Moda a parte, amo i viaggi, i libri e la lettura, l'arte, il cinema, la fotografia, la musica, la buona tavola e la buona compagnia. Se volete provare a diventare miei amici, potete offrirmi un piatto di tortellini in brodo, uno dei miei comfort food. Oppure potete propormi la visione del film “Ghost”: da sognatrice, inguaribile romantica e ottimista quale sono, riesco ancora a sperare che la scena finale triste si trasformi miracolosamente in un lieto fine.

Glittering comments

Gaia S
Reply

Ciao Manu, hai scritto un post molto completo e dettagliato, anche coinvolgente.
Complimenti, ho scoperto tante cose.
Gaia

Manu
Reply

Ciao Gaia,
Grazie per il tuo commento: arrossisco!
Pensa che in Facebook qualcuno ha definito il post «noioso e snob» 🙂
Noioso lo capisco (è molto lungo, come spesso succede quando parlo di qualcosa che mi appassiona particolarmente… mi sono fatta un po’ prendere la mano), ma francamente non capisco perché definirlo snob, anzi, mi sembrava di aver parlato a cuore aperto 🙁
Comunque è giusto che ognuno abbia la sua opinione: ho ringraziato quella persona lo stesso e ringrazio te, con gratitudine, e sperando che tornerai a trovarmi.
Buona serata,
Manu

Gaia S
Reply

Snob no!!!!
Fregatene, è invidia, pochi avrebbero saputo scrivere un post così 🙂
Io tornerò, Gaia

Manu
Reply

Sei gentile, Gaia, davvero.
Ma no, invidia no. Ci sta che non si piaccia a tutti 🙂
Sai qual è il segreto del post? Non sono giovane (purtroppo!) e quindi ho vissuto tante cose e sono stata testimone di tanti passaggi e cambiamenti, tutto qui: non è un merito, insomma 😀
Voglio solo sdrammatizzare un po’, ma le tue parole mi fanno davvero piacere, ripagano i miei sforzi di ricerca, studio, preparazione in quanto – a parte il vissuto personale – cerco sempre di documentarmi prima di scrivere un post simile.
E la cosa più bella è leggere il tuo «io tornerò»: guarda che ci conto 🙂
Un abbraccio,
Manu

Cate
Reply

Posso dirti che di queste cavolate non importa proprio niente a nessuno? Ci sono cose più serie delle quali occuparsi……..

Manu
Reply

Buonasera Cate,
E grazie per aver commentato.

Certo, puoi dire tutto ciò che ti pare perché sappi che io rispetto le idee di tutti, quindi lungi da me l’idea di offendermi se qualcuno liquida i miei scritti in questo modo.
Tuttavia, vorrei farti presente due cose che mi sono dispiaciute – me lo permetti?
E non per me, credimi, ma per terze persone e ora ti spiego.

Mi è dispiaciuto che tu definisca tale questione con un «cavolate» perché credo che la chiusura di attività con conseguente perdita di posti di lavoro non meriti una definizione simile che appare un po’ irrispettosa.
Perdere i propri investimenti, ciò che si è fatto, parte dei propri sogni: tutto ciò non è affatto una «cavolata» e non può essere frettolosamente bollata come tale.
Non hai offeso ma, ma chi ha lavorato per Colette, per MAD Zone, per Spazio Asti 17, per 10 Corso Como.
Hai offeso le lettrici che su Facebook (pubblicamente e qualcuna anche in privato, nei messaggi, per riservatezza) mi hanno confessato le angosce legate ai loro progetti che vanno da una parte all’altra del nostro Paese, come un concept store di Vigevano e un altro di Taormina, progetti che fanno fatica a sopravvivere e nel quale persone vere e concrete stanno investendo i loro soldi, il loro tempo e la loro energia.

La seconda cosa che mi è dispiaciuta è l’uso del termine «nessuno» perché, anche in questo caso, hai offeso persone che sono invece interessate alla faccenda.
Hai definito «nessuno» Gaia che ha commentato qui sopra, hai definito «nessuno» tutte le persone che hanno commentato su Facebook (qui e qui, inclusa una delle ragazze che mi ha affidato i suoi timori…) e su Instagram (qui).
Tutte queste persone, secondo te, sono «nessuno»? Meritano di essere definite tali?
Non importa che siano tante o poche, sono persone, vere, con i loro pensieri, dunque sono qualcuno.

Ecco, volevo dirti solo questo: prima di scrivere «cavolate» e «nessuno» occorrerebbe pensare a cosa e chi si bolla in tal modo – e non per me, te l’assicuro.
Perché di me stessa non mi importa, mi si può dire qualsiasi cosa e non mi offendo, lo ribadisco, ma delle persone che si affidano a me e che mi danno la loro fiducia, invece, mi importa – e molto.

Un saluto,
Manu

P.S.: Sono sempre a disposizione per ricevere spunti per cose più serie delle quali occuparmi. Puoi scrivermi qui nei commenti, nella pagina Contatti oppure all’indirizzo emanuela@aglitteringwoman.com

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