La moda che NON mi piace: a proposito di Philipp Plein e di limiti (valicati)

La sera di giovedì 20 febbraio, nel pieno della Milano Fashion Week, terminate le lezioni con i miei studenti, mi trovavo a camminare lungo via Palestro per raggiungere la location di una presentazione.
All’altezza della Galleria d’Arte Moderna, ho notato un gruppetto di fuoristrada estremamente vistosi: li ho notati perché il contrasto tra le vetture chiassosamente dorate e la bellissima Villa Reale, capolavoro del Neoclassicismo milanese che ospita la GAM, risultava particolarmente… stridente, diciamo così.
Nella mia testa si è fatto immediatamente strada un nome: «è lo stile Philipp Plein», ho pensato.
Non mi sbagliavo: quando ho superato i fuoristrada, ho visto proprio il nome dello stilista tedesco tratteggiato a lettere cubitali sugli sportelli. Ho scosso la testa, ho sorriso e sono passata oltre, dimenticando ben presto l’episodio.

Mi è tornato in mente solo alla fine di Milano Moda Donna, quando ho letto un articolo di Fashion Network: ‘Philipp Plein suscita indignazione per il raffazzonato omaggio a Kobe Bryant’, titolava la testata online, l’unica (che a me risulti) in ambito moda ad aver fatto un dettagliato reportage critiche incluse dello show svoltosi a Milano il 22 febbraio.
Perché quel titolo?
Perché, per presentare la sua collezione autunno-inverno 2020/21, lo stilista ha organizzato uno show fastosissimo e dorato (ecco spiegati i fuoristrada visti quel giorno), rendendo omaggio (almeno nel suo intento) alla leggenda del basket Kobe Bryant, recentemente scomparso insieme alla figlia primogenita Gianna e ad altre sette persone a causa di un tragico incidente d’elicottero: è stato invece ampiamente criticato attraverso i social media per almeno due motivi.
Il primo: l’accusa di voler sfruttare l’immagine di Bryant a nemmeno un mese dalla scomparsa avvenuta il 26 gennaio.
Il secondo: l’inclusione nel set dello show (nel suo caso il termine è molto più adatto rispetto a sfilata) di elicotteri dorati oltre a varie supercar, motoscafi e aerei altrettanto lucenti.
Elicotteri, sì, avete letto bene, come quelli del mortale incidente.

Classe 1978, re dello stile opulento e volutamente eccessivo, il designer ha spiegato che tale ‘arredo’ era stato ideato e progettato a novembre 2019 (prima, dunque, della tragica morte di Bryant) e che era troppo tardi per sostituire gli elicotteri.
Davvero, Mr. Plein?
Davvero non si è potuto almeno eliminare quegli elicotteri?
«È triste vedere come qualcosa di positivo e costruttivo – lei hai dichiarato in una lettera – possa essere frainteso da persone che ovviamente vogliono dare interpretazioni negative senza nemmeno averne una ragione»: se il suo intento era rendere omaggio, davvero né lei né nessuno del suo staff ha pensato che con quegli elicotteri si andasse oltre il limite e che la loro presenza fosse dolorosa, irrispettosa e del tutto fuori luogo?
Davvero lei pensa che chi ha criticato tutto ciò l’abbia fatto giusto per il gusto di farlo e «senza nemmeno averne una ragione»?

Senza una ragione…
Per caso pensa che le critiche fossero senza ragione anche quando – come ricorda il coraggioso articolo di Fashion Network – lei è stato accusato di fare ‘fat-shaming’ nei confronti di una giornalista (Alexandra Mondalek, offesa perché ‘grassa’ come raccontava il britannico Independent), rea di aver scritto una recensione negativa (per Fashionista) dello show per l’autunno-inverno 2019-20?
E le critiche erano sempre senza ragione anche quando, nel 2018, lei ha pubblicizzato le vendite del Black Friday con un annuncio che raffigurava l’immagine di una modella coperta di tagli e sangue? L’immagine era accompagnata da uno slogan geniale (sono ironica, sì) ovvero «Uccidiamo con i prezzi migliori» (come riportato dal magazine online Tio), per giunta nello stesso periodo della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne (25 novembre)?
Lei è stato frainteso in entrambi i casi? Non vi erano ragioni per farlo?
E non ne aveva magari nemmeno il Comune di Milano quando ha fatto rimuovere uno di quei cartelloni vergognosi (sì, è questo ciò che penso, erano vergognosi)?

Per l’amore che provo verso la verità, verso il dovere di cronaca, verso la completezza di informazione, riporto che Mr. Philipp Plein ha usato la sua lettera anche per far notare che i profitti della capsule collection costituita dalle maglie-tributo a Kobe saranno devoluti a Mamba & Mambacita, l’associazione di beneficenza di Bryant, e ha dichiarato che 20.000 dollari sono stati donati alla stessa fondazione il giorno prima dello show.
Voglio fidarmi di tale dichiarazione.
E, al contrario, non voglio invece fare sciacallaggio e dunque non parlerò della tragedia e delle nove vite perse (Kobe, Gianna e gli altri sette passeggeri) anche perché, in questo momento, non è possibile parlarne con lucidità: davanti a questa vicenda dolorosissima c’è ancora troppa emotività – almeno per quel che mi riguarda.
Voglio invece parlare di qualcos’altro, ovvero di moda che NON mi piace e di limiti, limiti che dovrebbero esistere e mai essere valicati.

E non è la prima volta che, nonostante l’immenso amore che provo per la moda, mi schiero contro certi paradossi che la moda stessa alimenta, contro certi brutti esempi che dà, contro certi atteggiamenti poco edificanti che alimenta.
Qui nel blog ci sono decine di post su questi argomenti.
(Qui trovate giusto qualche esempio…)

Ma torniamo a Philipp Plein.

Quando, qualche anno fa e precisamente nel 2016, lo stilista decise di non sfilare più a Milano (salvo ritornare dopo tre anni, in giugno 2019, in occasione di Milano Moda Uomo), io mi dichiarai felice tramite un post Facebook (*): non era questione di mio gusto personale in fatto di abiti (fattore che ho imparato a mettere da parte quando parlo di moda per lavoro), dipendeva invece dal fatto che non apprezzo né approvo chi basa il proprio successo non sul prodotto bensì sullo show e sul clamore a qualsiasi costo, poiché questo – a mio avviso –  svilisce, svaluta e degrada la moda.

Philipp Plein è il re dello show e del clamore a qualsiasi costo (vedere sopra…) tanto che, negli anni meneghini dello stilista, tra gli addetti ai lavori non si faceva mistero del fatto che da lui si andasse non tanto per gli abiti quanto – appunto – per lo show e per i suoi party after show.
Nessuno o quasi aveva purtroppo il coraggio di scriverlo (tranne un grandissimo giornalista purtroppo scomparso che ebbe l’ardire di parlare di «fili volanti, orli non finiti, bottoni saltati»(*)), tutti però lo mormoravano.

Come ho raccontato recentemente in un post Instagram, nel lontano 1969, Assomoda fondò Milanovendemoda, oggi diventata Milano Moda Donna dopo varie trasformazioni.
Come prima sede, la manifestazione ottenne il tendone del circo Medini: le aziende di moda si unirono pertanto a clown, giocolieri e domatori in quella che un documento ufficiale di Assomoda avrebbe definito «un’allegrissima e ironica festa della moda».
Di lì a qualche anno, Milanovendemoda avrebbe avuto sede in un nuovo quartiere della città, Milano 2, realizzato da un imprenditore edile allora emergente che stava entrando anche nel business della TV: Silvio Berlusconi…
Fra circhi e imprenditori rampanti, emergeva così all’orizzonte il profilo di quella che un felice slogan avrebbe poi definito la ‘Milano da bere’.
Insomma, narrando questa storia a proposito di altri fatti, ho voluto raccontare come l’espressione ‘circo della moda’ abbia avuto un fondamento non (necessariamente) offensivo, auto-ironico, concreto e con motivazioni storiche: diciamo che, con i suoi show, Philipp Plein ha fornito nuovo materiale per rispolverare la definizione…

Qualche settimana fa, parlando di Simona Corsellini in un post qui nel blog, ho raccontato un altro fatto, ovvero come, in occasione delle sfilate, vi sia di solito una rigida divisione: da una parte siede la stampa, dall’altra siedono i buyer.
Da una parte c’è chi dovrà scrivere di ciò che sfila, dall’altra c’è chi sceglierà i capi che andranno veramente in vendita.
Io siedo tra colleghi che, come me, si occupano di comunicazione e dunque abbiamo punti di vista piuttosto simili: cerchiamo la particolarità, qualcosa che ci colpisca, che ci sorprenda e ci stupisca.
Qualcosa che abbia il coraggio di rompere le regole e di riscriverle con originalità e personalità.

Vi dirò la verità: negli ultimi anni si è fatta una grande abbuffata di clamore e stupore a tutti i costi.
Di gente che, in nome dello show, ha dimenticato una gran verità: i vestiti vanno portati, indossati, vissuti ogni giorno.
E anche se io sono fermamente convinta che un abito sia non solo qualcosa che ci copre ma anche qualcosa che ci racconta… beh, questo non significa che debba essere ridicolo o clownesco. O di bassa qualità.
Molti stilisti si sono dimenticati di due parole magiche: portabilità e vestibilità.
E, per essere completamente onesti, ce ne siamo talvolta dimenticati anche noi comunicatori, elogiando collezioni e capi oggettivamente e obiettivamente importabili.

È vero, una sfilata non rappresenta necessariamente ciò che poi verrà prodotto: è una rappresentazione che fa da guida alla linea che viene poi realizzata.
Ma – appunto – la rappresenta, delinea la strada.

Vedete, a me piace molto quando, anziché essere seduta vicino a un collega della stampa, sono seduta vicino a un buyer.
Può capitare e mi piace perché in quelle occasioni imparo qualcosa, imparo a vedere le cose da un altro punto di vista, imparo a considerare altre variabili.
E se non sono seduta vicino a qualche buyer (capita davvero raramente) allora vado poi a cercare quelli che conosco per avere qualche loro opinione.
Perché, per fortuna, i buyer si sono rivelati un po’ più concreti, poiché il loro punto di vista è – da sempre – uno: proporre ai negozi qualcosa che possa essere comprato e indossato perché, altrimenti, resta invenduto e causa un problema.

In anni in cui la ‘normalità’ si è trasformata in un concetto di cui quasi vergognarsi, i buyer hanno continuato (quasi sempre) a tener presente un’idea: la moda è anche un business e dunque deve produrre reddito.
Ed è inutile fare bellissimi (bellissimi?) voli pindarici che comunque non vendono perché, alla fine, nessuno vuole indossarli.

E allora evviva la ‘normalità’ che non è affatto qualcosa di cui vergognarsi.
Evviva l’eleganza semplice, ‘semplice’ si fa per dire.
Definiamola piuttosto ‘senza sbrodolate’, ovvero quella che non insegue il clamore a tutti i costi, quella fatta invece di buoni tagli, buona vestibilità, ottimi tessuti e ottima manifattura.

È per tutti questi motivi che non apprezzo Philipp Plein e la sua filosofia, è per questo non gli perdono quegli show che vivono di clamore, alimentati da cadute di stile molto peggiori di un abito vistoso, provocante, eccessivo.

E c’è un’altra cosa.

Non ho mai fatto mistero del mio pensiero circa la moda.
Per me la moda è gioia, allegria, leggerezza (non superficialità), gioco, sogno.
La considero anche una forma di cultura, una modalità di libera espressione e di comunicazione personale e sociale, un linguaggio istantaneo e immediato che amo e rispetto.
Penso che l’estetica non possa e non debba essere slegata dall’etica e dai contenuti: la moda non è mera apparenza, può (e per me deve) essere anche sostanza ed essenza.

Credo anche che la moda possa essere veicolo per la ribellione che è a sua volta necessaria all’evoluzione e al progresso.
Insegno però ai miei studenti che occorre conoscere le regole prima di sovvertirle e riscriverle con originalità e personalità – come dicevo qui sopra.
E credo anche che esista un modo positivo di farlo e che esista un modo pessimo, per esempio quando si propone solo clamore.

Penso infine che nella vita e nella professione (moda inclusa) debbano esistere dei limiti.
Limiti positivi rappresentati e dettati dall’educazione, dal (con)vivere civile, dal rispetto, dalla dignità, dal buon gusto.
A dimostrarcelo, nella moda, esistono oggi problematiche come l’appropriazione culturale e la necessità di rispettare le diversità considerandola una ricchezza e non una minaccia.

E credo che qualcuno dovrebbe dire a Philipp Plein che i limiti sono stati ampiamente oltrepassati.

Perché, se la moda è linguaggio, dobbiamo stare molto attenti a cosa comunichiamo.
Perché, se vogliamo essere rivoluzionari e riscrivere le regole, lo dobbiamo fare in modo migliore, progressista.
Perché non si può fare moda e fare business con la figura di una persona scomparsa né con l’immagine di una donna insanguinata, mai, in nessun caso.
Perché questo è il clamore del quale possiamo e dobbiamo fare a meno e perché questi sono i limiti che non vanno valicati anche perché, francamente e sinceramente, non rappresentano né una miglioria né un progresso.

Sorry, Mr. Philipp Plein, per quanto mi riguarda possiamo a questo punto calare il sipario, con la speranza che – un giorno – lei mi dia argomenti positivi dei quali parlare, per esempio i suoi capi.

Sa, anche se ora sono delusa, resto sempre un’inguaribile ottimista.

Manu

 

 

 

(*) C’era una persona che stimavo moltissimo.
Il suo nome era Gabriel Darcangeli e mi tocca usare il passato perché Gabriel si è spento giovanissimo il 26 dicembre 2016.
All’improvviso e lasciando impietriti tutti coloro che l’amavano.
Tra le cose che io e Gabriel avevamo in comune c’era il fatto di muoverci nello stesso ambiente professionale (la moda) e di pensarla allo stesso modo su alcuni fenomeni e meccanismi di tale ambiente.
Proprio nel 2016, pochi mesi prima della sua scomparsa, Gabriel scrisse un articolo a proposito di Philipp Plein:
le sue parole severe ma educate mi indussero a condividere quel pezzo in Facebook poiché non avrei saputo e potuto esprimere meglio quello che era anche la mia opinione circa lo stilista tedesco.
Purtroppo quel pezzo non è più disponibile in rete, tuttavia io lo ricordo perfettamente quasi parola per parola tanto mi impressionò e, ora che a mia volta ho scritto di Philipp Plein… non ho potuto fare a mano di pensare a Gabriel.
So che da qualche parte e in qualche modo mi leggi, Gabriel.
E spero di aver fatto onore al coraggio che ti ha sempre contraddistinto,
il coraggio di dire sempre ciò che pensavi all’insegna di una grande integrità e onesta intellettuale, anche quando si trattava di idee scomode perché – quando si ama davvero qualcosa – si deve capire quand’è il caso di andare contro vento, sebbene magari di solito si creda nella comunicazione positiva.
Mi manchi. Ci manchi. E ti penso.
Non ne avremmo riso insieme come abbiamo fatto in altre occasioni poiché l’argomento è in questo caso troppo serio,
ma ci saremmo intesi come sempre.

 

 

 

L’immagine è una mia elaborazione attraverso il sito PhotoFunia

 

 

 

 

 

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Manu

Mi chiamo Emanuela Pirré, Manu per gli amici di vita quotidiana e di web. Sono nata un tot di anni fa con una malattia: la moda. Amo la moda perché per me è una forma di cultura, una modalità di espressione e di comunicazione, un linguaggio che mi incuriosisce. Scrivo e creo contenuti in ambito editoriale, principalmente proprio per la moda. Insegno (Fashion Web Editing, Storytelling, Content Creation) in due scuole milanesi. Vivo sospesa tra passione per il vintage e amore per il futuro e sono orgogliosa della mia nutrita collezione di bijou iniziata quando avevo 15 anni. Per fortuna Enrico, la mia metà, sopporta (e supporta) entrambe, me e la collezione, con pazienza e amore. Oltre a confessare un'immensa curiosità, dichiaro la mia allergia a pregiudizi, cliché, luoghi comuni, conformismo e omologazione. Detesto i limiti, i confini, i preconcetti – soprattutto i miei – e mi piace fare tutto ciò che posso per superarli. La positività è la mia filosofia di vita: mi piace costruire, non distruggere. Moda a parte, amo i viaggi, i libri e la lettura, l'arte, il cinema, la fotografia, la musica, la buona tavola e la buona compagnia. Se volete provare a diventare miei amici, potete offrirmi un piatto di tortellini in brodo, uno dei miei comfort food. Oppure potete propormi la visione del film “Ghost”: da sognatrice, inguaribile romantica e ottimista quale sono, riesco ancora a sperare che la scena finale triste si trasformi miracolosamente in un lieto fine.

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