Stato di salute e futuro della moda in tempi di coronavirus

Da tempo, ormai, si parla di quanto sia necessario rivedere il sistema attraverso il quale la moda viene presentata, prodotta, distribuita.

Per quanto riguarda la presentazione e soprattutto le sfilate, si discute animatamente soprattutto circa tempistiche e modalità.
Continuare a sfilare mesi prima come accade ora oppure adottare la modalità cosiddetta ‘see now, buy now’ con la vendita immediata di ciò che sfila? Far sfilare le collezioni moda e uomo separatamente oppure adottare la modalità co-ed, ovvero congiunta?
E poi… quanto servono le sfilate-spettacolo? Si punta troppo sul clamore a discapito dei capi?
E ancora: chi è seduto in prima fila (e sono sempre più influencer e nuove celebrità) distoglie l’attenzione facendo parlare – anche in questo caso – di chi è ospite più di quanto si parli della collezione?

Per quanto riguarda la produzione, si discute invece di delocalizzazione a discapito di produzioni specializzate, di produzione in Paesi dove non vengono rispettati i diritti umani, di filiere fuori controllo e non più sostenibili per il nostro pianeta.

Per quanto infine riguarda la distribuzione, si discute della crisi profonda dei negozi fisici, della crisi delle grandi catene storiche, dell’esasperazione che vuole che merce nuova sia messa in vendita a ciclo continuo senza durare nemmeno una stagione secondo il modello fast fashion che, ormai, influenza fortemente tutto il sistema e tutte le fasce della moda, indistintamente.
Senza parlare poi del discorso delle rimanenze di stagione, problema oneroso non solo economicamente ma anche dal punto di vista ambientale (leggere stock distrutti o meglio bruciati e anche in questo caso da tutti, brand del lusso inclusi).

Insomma, riassumendo: il sistema moda era in crisi da tempo. Tutto il sistema.
Stilisti costretti a sfornare una nuova collezione dietro l’altra (per soddisfare la smania di soldi delle holding finanziarie dalle quali sempre più spesso vengono inglobati) mentre modelle, giornalisti, compratori, fotografi girano il mondo senza sosta, vanificando gli appelli a una moda ecosostenibile; merce che approda nei negozi a ciclo continuo, tra sovrapproduzione di capi e mancato allineamento tra stagione commerciale e stagione climatica, con il risultato di restare spesso invenduta e generare pericolosi scarti da gestire.

Non è un mistero come molti (Giorgio Armani in testa) condannino da tempo tutto ciò, un sistema che fagocita ogni cosa, con ritmi sempre più serrati e insostenibili e nuova merce da dare in pasto a un mercato sempre più saturo.
Perfino lusso, alto di gamma e alta moda hanno spesso dimenticato i propri valori (qualità, durabilità, esclusività) per avvicinarsi – come ho detto – a un modello fast fashion nella speranza (o meglio nell’illusione) di vendere di più.

Io stessa, naturalmente nel mio piccolo, ho parlato varie volte di dette questioni, dalla delocalizzazione (qui) alla crisi di catene e negozi storici (qui) passando per l’illusione che alto di gamma sia sempre meglio di fast fashion (qui), dalle condizioni socialmente e ambientalmente insostenibili (qui) al gender gap (qui) passando per le sfilate-clamore che vanno oltre ogni limite di decenza (qui), giusto per citare alcuni argomenti dei quali ho provato a parlare negli anni.

Il problema, dunque, esisteva: il coronavirus ha spinto sull’acceleratore, facendo definitivamente esplodere le varie questioni in tutta la loro evidenza e gravità.

Purtroppo, come abbiamo imparato a nostre spese, i coronavirus sono una vasta famiglia di virus noti per causare malattie che vanno dal comune raffreddore a malattie più gravi come la Sindrome Respiratoria Acuta Grave tristemente nota come SARS.
Era l’11 febbraio di quest’anno quando l’OMS, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, ha annunciato che la malattia respiratoria causata da un nuovo coronavirus era stata chiamata COVID-19: la sigla è la sintesi dei termini CO-rona VI-rus D-isease e dell’anno d’identificazione, il 2019.

Esattamente un mese dopo, l’OMS dichiarava che il nuovo coronavirus era da considerarsi pandemia ovvero malattia epidemica che, diffondendosi rapidamente tra le persone, si espande in vaste aree geografiche su scala planetaria, coinvolgendo di conseguenza gran parte della popolazione mondiale.
Lo stesso giorno, Giuseppe Conte, il nostro Presidente del Consiglio, annunciava le ulteriori misure in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica estese all’intero territorio nazionale, mettendo l’Italia in quello che ci siamo abituati a chiamare lockdown, il protocollo di emergenza che ci impedisce di muoverci per salvaguardare la nostra salute e la vita di tutti con il conseguente blocco di ogni attività, eccezion fatta per quelle considerate di prima necessità.

Mi viene da sorridere (e vi assicuro che è un sorriso amaro) quando ripenso al fatto che, come avevo preannunciato nel post datato 30 dicembre 2019, sto alacremente lavorando da mesi a un articolo sui cambiamenti della moda del secondo decennio degli Anni Duemila: accantono momentaneamente quel progetto per dare precedenza a un post di riflessione sull’attuale situazione in cui versa il comparto moda in tempi di coronavirus.

L’ho già scritto nel mio post di riflessione generale sul COVID-19: non ho soluzioni da offrire né verità assolute da condividere.

Da una parte vorrei condividere l’osservazione scrupolosa che ho condotto finora, basata su una continua rassegna stampa iniziata dai primissimi giorni dell’emergenza: come per ogni editor e giornalista, la rassegna stampa è abitualmente alla base del mio lavoro quotidiano e ora, in un periodo così complesso, è perfino più intensa e approfondita.

Dall’altra parte vorrei mettere sul tavolo ipotesi, proiezioni e anche qualche idea che è maturata nella mia testa a furia di interrogarmi (come già avevo iniziato a fare proprio in chiusura del post di riflessione) su quale potrebbe essere un mio ruolo in questo scenario di crisi e il ruolo della specifica categoria professionale della quale – nel mio piccolo, per carità – faccio parte, quella degli studiosi (osservatori, analisti, critici di costume), dei comunicatori, degli educatori e docenti.

Ecco, io credo che il nostro (e il mio) ruolo sia quello di condividere riflessioni con calma e con obiettività, cercando di puntare al cuore delle questioni con sincerità, tra opportunità e problematiche, tra pro e contro, tra bene e male, senza creare panico ed evitando di creare facili sensazionalismi.
Ancora una volta, scelgo questa strada e provo allora a scrivere questa analisi come se stessi ragionando a voce alta e insieme a voi.

Partiamo allora dai fatti e dall’osservazione.

Una delle primissime conseguenze per la moda è stata la brusca interruzione della Milano Fashion Week o Milano Moda Donna in corso dal 18 al 24 febbraio.
Dopo una settimana di notizie altalenanti e contrastanti, di tante conferme e alcune cancellazioni, posso testimoniare in prima persona l’annullamento di tutti gli eventi dell’ultimo giorno, quando da giorni, ahimè, tutti noi (stilisti, modelle, stylist, pr, giornalisti, fotografi e via discorrendo) frequentavamo gli stessi posti in spazi spesso ridotti se non ridottissimi…

 

Visualizza questo post su Instagram

 

Un post condiviso da Emanuela (Manu) Pirré (@aglitteringwoman) in data:

Da allora, quasi tutti gli eventi legati alla moda sono stati cancellati, almeno fino a settembre.

Sono state cancellate le settimane della moda di Shanghai, Pechino, Seul, Tokyo, Melbourne, Monte Carlo, Mosca.
Sono state cancellate tutte le sfilate cruise, mentre Parigi ha cancellato le sfilate uomo di giugno e quelle di haute couture di luglio. Stessa cosa per le sfilate uomo di New York e Londra.

Milano Moda Uomo in programma a giugno è stata rimandata e si svolgerà – forse – a settembre insieme alla prossima edizione di Milano Moda Donna, salvo ulteriori cambiamenti. E se scrivo così è perché qualcuno (per esempio Marc Jacobs in un’intervista rilasciata a Edward Enninful, direttore di British Vogue) ha già iniziato a preannunciare quanto sia irrealistico pensare a giornalisti, fotografi e invitati che prendano un aereo per una sfilata, partendo dai professionisti che rendono abitualmente possibile una sfilata quali modelle, make-up artist e via discorrendo.

A Firenze, Pitti Uomo (ovvero una delle più importanti fiere a livello internazionale) è stata spostata da giugno a settembre, mentre a New York non si terrà il Met Gala (4 maggio), evento di punta per il Metropolitan Museum, per Anna Wintour e per tutto lo star system.
Stessa decisione per il Council of Fashion Designers of America che ha annunciato la posticipazione a data da destinare dei Cfda Awards, i premi dedicati alla moda statunitense previsti per l’8 giugno.

Ed è recente l’annuncio che anche l’edizione di Altaroma di luglio viene per ora spostata a settembre.

È quasi inutile specificare che tutte le fiere di settore in tutti i Paesi subiscono la stessa sorte tra posticipi e definitive cancellazioni per l’anno 2020.

Ma la moda vede nero non certo esclusivamente sul fronte delle sfilate.

Il protocollo di lockdown si è pian piano esteso a tutti i Paesi causando la paralisi di fabbriche e negozi: si fa ricorso alla richiesta di ammortizzatori sociali, quando possibile, e sono già in atto le prime richieste di concordato o, peggio ancora, di fallimento.
Ovunque i magazzini sono pieni di merce invenduta: quando i negozi riapriranno, la moda si troverà ad affrontare una nuova crisi, ovvero cosa fare con le enormi pile di vestiti e accessori che si sono accumulati durante i vari blocchi.

Gli osservatori del settore affermano che il cosiddetto overstock sarà probabilmente senza precedenti e che potrebbe pesare sulle fortune della moda per gli anni a venire: probabilmente, affermano gli stessi osservatori, si aprirà la più grande stagione mai vista di sconti e ribassi.

La situazione non è rosea nemmeno per le vendite online il cui andamento in ambito moda è altalenante e talvolta contraddittorio.
Da una parte le vendite online di abbigliamento decollano spinte proprio dagli sconti: rimasti con merce arretrata, molti player hanno ribassato i prezzi e hanno puntato tutto sull’online.
Tuttavia, se per esempio l’e-commerce alimentare sorride con incrementi notevolissimi, il settore moda e lifestyle fatica a tenere il passo, registrando anche momenti di calo, per esempio collegati alle difficoltà di consegna visto che abbigliamento e accessori non sono considerati beni di prima necessità.

Peccato, però, che la moda sia un’industria che dà lavoro a milioni (forse miliardi) di persone in tutto il mondo, esattamente come altre industrie.
Peccato che, sebbene abiti e accessori non siano certo beni di prima necessità, produrli, presentarli e distribuirli sia comunque fonte di lavoro e sostentamento in tutto il mondo per innumerevoli persone e per le loro famiglie.

Lo sappiamo bene in Italia dove, da ormai due mesi, si moltiplicano gli appelli di stilisti, imprenditori, amministratori delegati, buyer, agenti, showroom, distributori – giusto per citare alcune delle filiere collegate al settore moda.
Le iniziative di CNMI, Camera Nazionale della Moda, si moltiplicano e a muoversi sono stati tutti, Confindustria Moda, Confartigianato Moda, Federmoda, Unimpresa Moda, SMI – Sistema Moda Italia, Assocalzaturifici, Assopellettieri, UNIC – Concerie Italiane tutte, Camera Buyer, Assomoda – e chiedo scusa se ho dimenticato qualche associazione o federazione.

Ora, dopo gli accorati appelli e dopo il via libera del Governo alla riapertura anticipata rispetto alla fine del lockdown per diverse attività produttive e distributive (tra le quali librerie e cartolerie), la moda vede aprirsi i primi spiragli: automotive, metallurgia e tessile sono tra le industrie in pole position per la ripartenza.

Anche perché va per esempio detto che, in questo momento di grande sofferenza, la moda ha mostrato il suo lato migliore, alla faccia di chi eternamente taccia il settore di superficialità e altro bla bla.

Case di moda, imprese produttrici, singoli stilisti, designer indipendenti, holding e capitani d’industria, agenzie di comunicazione e di servizi, influencer e celebrità, insomma tantissimi nomi illustri del settore si alternano dall’inizio dell’emergenza in una gara di solidarietà e di fattiva partecipazione: hanno offerto somme in denaro anche molto generose; hanno predisposto vari servizi di sostegno e supporto; hanno riconvertito, parzialmente o completamente, la consueta produzione per fabbricare dispositivi di protezione individuale come camici, mascherine, disinfettanti.

La lista delle riconversioni industriali in ambito moda è talmente lunga che fare dei nomi rischierebbe di essere riduttivo, ingiusto e non esaustivo, mentre farli tutti è quasi impossibile, per quantità, appunto, nonché perché detta lista (per fortuna!) è in costante aggiornamento, con nomi e realtà che vanno quasi ogni giorno a unirsi a questo gruppo che definisco virtuoso.

Alla faccia del chiacchiericcio vano, futile, senza costrutto, superficiale – e qui sì bisogna definirlo tale.

Intanto, la comunicazione di moda non è certo stata a guardare.

Cito un colosso mondiale come Condé Nast, l’editore di Vogue un giornale che ha attraversato guerre e crisi nel corso della sua storia ultracentenaria (è stato fondato a New York nel lontano 1892, 128 anni fa).
Facendo fede alla sua tradizione di non voltarsi dall’altra parte, in questo momento in cui il mondo sta cambiando molto probabilmente in maniera definitiva, Vogue Italia ha scelto di realizzare un numero speciale, in edicola dal 10 aprile.
Per sottolineare il rispetto, la rinascita e la speranza per il futuro, per la prima volta nella storia internazionale di Vogue, la copertina sarà completamente bianca e non per mancanza di immagini, ma perché il bianco è tante cose insieme, come ben spiega il direttore Emanuele Farneti nel suo editoriale.

«Il bianco è innanzitutto rispetto. Il bianco è rinascita, è la luce dopo il buio, la somma di tutti i colori. Il bianco è le divise di chi ci hanno salvato la vita, mettendo a rischio la propria. È tempo e spazio per pensare. Anche per rimanere in silenzio. Il bianco è per chi questo spazio e questo tempo vuoto lo sta riempiendo di idee, pensieri, racconti, versi, musica, attenzioni per gli altri. Il bianco è come quando, dopo la crisi del ’29, gli abiti si fecero candidi – un colore scelto per esprimere purezza nel presente e speranza nel futuro. Soprattutto: il bianco non è resa, piuttosto è una pagina tutta da scrivere, il frontespizio di una nuova storia che sta per cominciare.»

Non può che rendermi felice il fatto che una delle voci più autorevoli al mondo sottolinei con così tanta forza ciò che più amo e che – nel mio piccolo – vado ripetendo da anni, ovvero quanto sia forte il potere comunicativo della moda e quanto sia spiccata e innegabile la sua capacità di essere specchio dei tempi.

Dal canto loro, i marchi e le maison mettono in piedi iniziative di intrattenimento.

Con negozi chiusi, eventi rimandati, fashion week cancellate, durante l’emergenza coronavirus, non potendo puntare sulla visibilità garantita da questi appuntamenti canonici, i marchi di moda e lusso scelgono di investire sulla comunicazione online.

E se, nel contesto attuale, le pubblicità classiche sembrerebbero (e sarebbero!) di cattivo gusto, i marchi fanno affidamento su un approccio diverso.
E se ci siamo ‘abituati’ ai continui annunci che rivelano una moda solidale e concretamente attiva negli aiuti a ospedali e protezione civile, oltre ai propri canali social, marchi e maison stanno oggi sperimentando nuovi formati e contenuti speciali con cui attrarre e intrattenere gli utenti e le proprie community, mettendo in moto un’interazione inedita che potrebbe evolvere ulteriormente anche dopo la quarantena (ne parleremo poi).

I progetti online hanno diverse forme e si sviluppano in varie aree.
Conversazioni digitali, eventi anch’essi digitali e che spaziano tra mostre e concerti, masterclass e progetti culturali, iniziative volte a incoraggiare la creatività, condivisione di archivi, nozioni, storie, aneddoti e poi giochi, test e questionari: il web multicanale acquisisce una valenza nuova e maggiore, diventando strumento per vincere la malinconia in questo periodo di confino a casa e facendosi ancora una volta portatore di un messaggio di speranza espresso in una nuova forma narrativa.

Ancora una volta nella propria storia parallela a quella dell’umanità, la moda si fa anticipatrice dell’intero sistema dei consumi, rivelandosi capace di far velocemente proprie le evoluzioni.
Non potendo più uscire di casa se non per lo stretto necessario, le persone di ogni età e di ogni estrazione trascorrono molto tempo tra le mura domestiche, utilizzando in modo massiccio non solo i media tradizionali ma anche i nuovi.
Non c’è statistica o ricerca che non sottolinei come l’utilizzo dei media sia in costante ascesa trasversalmente tra tutte le attuali generazione di pubblico, Senior (o Maturist), Baby Boomer, Generazioni X, Y (i Millennial) e Z, quella dei più giovani: la moda cavalca questa esplosione proprio attraverso le proprie proposte di intrattenimento e coinvolgimento differenziate per target di pubblico.

Non solo: statistiche e ricerche dicono che l’emergenza coronavirus non ha smorzato nemmeno il seguito degli influencer.

Nonostante il lockdown domiciliare, le star dei social network sono riuscite a mantenere alto il proprio seguito sulle varie piattaforme, a patto, però, di saper riconoscere la necessità di cambiare registro.

Ad assicurarsi lo scettro in tal senso sembrano – ancora una volta, gli attivissimi Ferragnez ovvero la coppia Fedez e Chiara Ferragni: oltre a intrattenere i fan con quadretti di vita quotidiana insieme a Leone, il loro bambino, sono stati tra i primi a scendere in campo con iniziative concrete contro l’epidemia, per esempio con la raccolta fondi (oltre 3 milioni di euro!) per il nuovo reparto di terapia intensiva all’Ospedale San Raffaele di Milano.

Vengono penalizzati, invece, tutti quei personaggi che non hanno compreso la necessità di cambiare registro e scendere dal piedistallo…

Altra dimostrazione della capacità della moda di anticipare, adattarsi ed evolversi arriva dal fronte educazione.

Le scuole di moda sono state infatti tra le prime dell’intero sistema educativo a fare didattica a distanza e a mettere in pratica l’e-learning attraverso lo streaming in modalità live oppure on demand.
Sono particolarmente orgogliosa di lavorare per una di queste scuole, ovvero Accademia del Lusso, e di aver condiviso la mia esperienza in un articolo per ADL Mag, il nostro magazine.

Fin qui ho dipinto un quadro tra pro e contro dell’attuale situazione di un settore che è estremamente sfaccettato.

È il momento di passare a qualche idea circa il futuro, a qualche ipotesi e proiezione, tornando a ribadire che non pretendo certo di condividere verità assolute.

Molti sostengono che questa sia un’occasione per ripensare e riformulare il vecchio sistema, obsoleto, dispendioso (in tutti i sensi, anche dal punto di vista ambientale), eccessivamente frenetico e che ci ha mostrato tutti i suoi limiti.
Partendo dalla necessità di ottemperare al distanziamento sociale che (ormai è del tutto evidente…) ci accompagnerà per molto tempo, è evidente che c’è e ci sarà bisogno di riorganizzazione dell’intero sistema e di nuove modalità.

Ripartiamo di nuovo dalle sfilate.

Secondo alcuni esperti, le sfilate continueranno ma probabilmente saranno ridotte a due momenti nel corso dell’anno: si tornerà essenzialmente a quella per l’autunno/inverno più quella per la primavera/estate senza l’ulteriore frammentazione attuale che vede pre-collezioni, cruise e altro ancora. E saranno in versione digitale, mostrate in streaming.

Durante l’edizione di febbraio di Milano Moda Donna di cui vi ho parlato, conclusasi un giorno prima del previsto proprio a causa dell’allerta coronavirus, ha avuto luogo l’iniziativa ‘China, we are with you’ lanciata da Camera Nazionale della Moda Italiana: l’iniziativa ha raggiunto oltre 16 milioni di utenti cinesi che, nell’impossibilità di raggiungere l’Italia, hanno seguito online le sfilate trasmesse in streaming attraverso la piattaforma Tencent. Lo scopo è stato tentare di salvare la stagione…

Ma a fare da apripista per le fashion week interamente digitali sono state Shanghai e Mosca.

A inizio febbraio, quando l’epidemia di coronavirus imperversava in Cina, la Shanghai Fashion Week era stata una delle prime ad annunciare il proprio rinvio: la manifestazione ha poi cambiato strategia e si è svolta dal 24 al 30 marzo in un formato digitale inedito, ovvero in diretta su Tmall, il portale del lusso del colosso cinese dell’e-commerce Alibaba, oltre che su Taobao Live, la piattaforma di shopping in streaming, realizzando quello che è stato un vero debutto nella storia della moda.

Fondata nel 2004, la Shanghai Fashion Week è uno degli eventi moda globali più significativi, vista l’importanza del mercato cinese per il settore, con un’offerta trasversale, dai marchi di fascia alta, locali e internazionali, a colossi come H&M.
Anziché otto giorni di sfilate fisiche ne sono andati in scena sette con un calendario simile a quelli tradizionali e la possibilità offerta alle label di gestire il proprio spazio orario come meglio credevano: c’è chi ha colto l’occasione per spiegare in modo approfondito il proprio modello di business, andando oltre la sola presentazione dei capi, c’è chi ha creato video e c’è chi ha messo in vendita direttamente i modelli, con un’impostazione stile home-shopping.

Il risultato, secondo alcuni dati forniti da Tmall e ripresi all’interno di un lungo e interessante articolo del Financial Times, è stato al di là delle aspettative: sono stati 2,5 milioni coloro che hanno assistito alle prime tre ore della manifestazione.

Certo, non tutto è filato liscio: qualche intoppo tecnico ha rallentato di tanto in tanto il ritmo e la risoluzione di qualche video era troppo bassa, per esempio per permettere di cogliere appieno le caratteristiche dei tessuti.

Dopo Shanghai è stata la volta di Mosca.

La Moscow Fashion Week ha usato un format analogo: il 4 e 5 aprile la kermesse ha presentato una trentina di griffe (metà delle usuali) affidandosi a video pre-registrati e condivisi sul sito di e-commerce Aizel.ru con l’aiuto dei portali di Harper’s Bazaar Russia e Vogue Italia che hanno fatto da cassa di risonanza alla manifestazione.
La partecipazione è stata gratuita per i designer: i costi sono stati sostenuti dal Russian Fashion Council, l’equivalente della nostra Camera Nazionale della Moda.

È notizia freschissima che anche Londra inaugurerà un nuovo format di fashion week digitale.

Dopo aver annullato la London Fashion Week maschile, il British Fashion Council ha dichiarato che dal 12 al 14 giugno verrà creata una piattaforma digitale dedicata agli addetti ai lavori e ai consumatori finali: l’ente anglosassone conta di aggregare marchi emergenti e griffe affermate pronte a svelare le proprie collezioni in un’ottica co-ed, ovvero uomo e donna.

Ai brand verrà lasciata la massima flessibilità per quanto concerne il format di presentazione che potrà includere interviste, showroom digitali e podcast.

By the way, visto che ne ho parlato in principio: il BFC ha anche rivelato che per i prossimi 12 mesi TUTTE le London Fashion Week diventeranno stagioni co-ed.

Voi cosa ne pensate?
Le settimane della moda in versione digitale possono sostituire la realtà?
Può la moda – che si nutre di tante sensazioni – vivere in questa nuova dimensione perlopiù virtuale?

Ve lo confesso, io che appartengo (orgogliosamente) alla Generazione X sono molto combattuta.

Da una parte penso a come, da editor, io abbia sempre preferito vedere una sfilata dal vivo, da vicino, proprio per poter godere della parte sensoriale, il movimento di un abito, la caduta, il fruscio del tessuto, la luce e le ombre.
C’è poi da considerare il fattore umano: le settimane della moda non sono solo il momento della passerella, sono altrettanto importanti (se non di più…) le interazioni che si svolgono oltre la passerella, gli incontri con i designer e con tutta una serie di figure come giornalisti, fotografi, buyer, incontri che garantiscono confronti interessanti e costruttivi.

Penso a come abbia sempre amato anche press day e presentazioni stampa per la possibilità di toccare un tessuto, accarezzarlo, parlare con uno stilista, ascoltare la sua voce, farmi trasportare mentre racconta la genesi di una collezione.

Penso a tutto ciò e vorrei che questa dimensioni continuasse a esistere.

Badate bene, non sono solo romanticherie e nostalgie di una sciocca: sempre nel pezzo del Financial Times, Ida Peterson (buying director di Browns, storico department store londinese nato nel 1970 e oggi felicemente presente anche online) si dice convinta che replicare le fashion week online in tutto e per tutto sarà impossibile, ma ammette che la svolta digitale presenta vari vantaggi, per esempio il ridotto impatto ambientale derivante dalla riduzione degli spostamenti (e di questo parleremo nella seconda parte delle proiezioni future).

Dall’altra parte penso a come ogni cambiamento, nella moda e in qualsiasi settore, faccia sempre un po’ paura e a come ci renda un po’ refrattari (in positivo? in negativo?).

Penso alle evoluzioni che la moda ha vissuto. Alle immense trasformazioni attraverso le quali è passata.
Penso, per esempio, a quanto sembrasse improbabile nell’Ottocento che le donne avrebbero smesso di indossare crinolina e corsetto.

Penso alla prima volta che, appena ragazzina, ho messo le mani sulla tastiera di un pc guardandolo con sospetto e pensando che mai mi sarei abituata.
Penso alla strada che ha fatto il web a partire dal 1989, la data in cui viene concretizzato da Tim Berners-Lee; penso alle varie evoluzioni che ha vissuto, dal web 1.0 (il cosiddetto ‘read only web’ con poca interazione tra chi pubblicava e chi fruiva) passando per il web 3.0 (il cosiddetto ‘web semantico’ ovvero in grado di comprendere quanto viene richiesto dall’utente) fino ad arrivare al web 5.0 che oggi ipotizziamo e al quale si sta già lavorando, ovvero un web che cercherà di includere la componente emozionale nell’interazione tra persone e computer.
Penso che questa situazione di stallo da coronavirus potrebbe dare un impulso deciso all’evoluzione e spingere per velocizzare i tempi proprio verso il web 5.0.

Penso anche alla prima volta in cui ho sentito parlare di wearing technologies, anche in quel caso con diffidenza e scetticismo.
Penso a quando ho avuto la preziosa opportunità di conoscere un visionario come Bradley Quinn e di farci una chiacchierata: era il 2013 e lui appariva davvero come un autentico visionario e mi affascinò con le sue teorie che allora sembravano tanto futuribili e che ora… sono qui o quasi.

Penso a tutte queste cose e a quanto amo la moda. A quanto voglio che sopravviva.
Penso a tutto quanto ho elencato qui sopra e a molto altro ancora e allora mi dico: forse viviamo in un momento ricco di possibilità, in un momento di grande evoluzione e trasformazione.
Forse è come vivere pagine che un giorno saranno storia come quella che studio continuamente nei libri e via web. Forse abbiamo l’opportunità di essere al centro di un cambiamento epocale.
Forse dobbiamo avere il coraggio di viverlo, abbracciarlo, cavalcarlo.

Bisogna entrare nell’ottica che, sicuramente, per quanto riguarda la presentazione delle collezioni, la componente digitale sarà più forte rispetto al passato.
Questo non creerà probabilmente particolari problemi a griffe ben strutturate e con grossi capitali alle spalle che saranno in grado di fornire agli addetti ai lavori e anche ai propri follower esperienze altamente immersive come in buona parte già avveniva in tempi non sospetti.
A trovarsi un po’ più in difficoltà potrebbero essere i nomi meno altisonanti che non posseggono né grande notorietà né grandi budget e che, da sempre, puntano piuttosto su fattore e contatto umano, dimensione in cui si può costruire pian piano un percorso.

Ah, a proposito di sfilate digitali, di futuro e di visionari…

C’è chi pensa addirittura a far sfilare in passerella modelle e modelli digitali.

«Abbiamo creato degli avatar che assolvono alla funzione di modelli di prova, possiamo anche includerli nelle campagne e nei fashion show. Li usiamo già, ma non li abbiamo ancora utilizzati all’esterno perché stiamo testando e sperimentando internamente»: sono parole di Daniel Grieder, CEO di Tommy Hilfiger.

Ma la crisi generata dal coronavirus travolgerà altri fronti.

Per esempio, a essere chiamato in causa è e sarà l’intero sistema di comunicazione e divulgazione, dai giornali e delle riviste di moda fino ai brand.

Giornali e riviste dovranno forse affrontare probabili tagli degli investimenti pubblicitari (una delle cose alle quali potrebbero rinunciare le aziende preferendo investire quei budget in un nuovo modo); dovranno anche affrontare difficoltà pratiche e organizzative, come per esempio l’impossibilità di scattare servizi fotografici così com’è avvenuto, per esempio, per il numero di aprile di Vogue Italia già citato, realizzato da fotografi, modelle, stylist, direttori creativi, make up artist che hanno fotografato, utilizzando abiti di stagione o del proprio archivio personale, sé stessi, le proprie famiglie o gli amici lontani attraverso il computer.

Altra grande questione sarà quella di riuscire a calibrare contenuti e toni giusti, senza sembrare troppo sconnessi dagli interessi e dalle preoccupazioni del momento.

Anche le aziende dovranno ricalibrare il loro modo di comunicare, sui social network e anche, appunto, nelle pubblicità.

Un esempio del nuovo corso è la soluzione adottata da Zara.
Nel rispetto delle misure di contenimento dell’emergenza epidemiologica coronavirus che impediscono gli shooting, la catena spagnola – affiancata in passato da fotografi e art director famosi – punta ora sul fai da te veicolando gli scatti attraverso Instagram.
Zara ha chiesto ad alcune modelle (a partire dalla top Malgosia Bela) di immortalarsi indossando i capi della nuova collezione, appositamente spediti al loro domicilio.

 

Visualizza questo post su Instagram

 

Un post condiviso da ZARA Official (@zara) in data:

Continuando a parlare di comunicazione, mi fa piacere segnalare che moltissime aziende stanno già attuando qualcosa che – a mio avviso – sarà fondamentale da ora in poi: puntare sull’insieme di valori che caratterizzano un marchio anziché spingere esclusivamente sui prodotti.

Pensate che, secondo la società londinese di consulenza Brand Finance, l’industria della moda sarà una delle più colpite dal coronavirus: alcuni marchi potrebbero subire una perdita significativa della loro valutazione.

«Se questi marchi stanno attualmente subendo l’impatto delle chiusure di negozi e stabilimenti, dell’interruzione delle loro catene di fornitura e delle preoccupazioni dei clienti, obbligati a confrontarsi con un’incertezza economica senza precedenti, devono anche prevedere significative difficoltà più a lungo termine»: a sostenerlo è Richard Haigh, direttore generale di Brand Finance.

Ma esattamente come avverrà nella maggior parte dei settori, i postumi che la crisi lascerà dipenderanno anche da come i marchi gestiranno il loro business durante questo periodo turbolento e da quanto risulteranno non disconnessi da problematiche e preoccupazioni, esattamente come nel caso di magazine e influencer.

Un esempio di come non comportarsi è quello di Draper James, marchio di abbigliamento femminile fondato dall’attrice Reese Witherspoon.
Il brand statunitense ha deciso di focalizzarsi sulle insegnanti delle scuole pubbliche, ringraziandole per il lavoro che stanno svolgendo in modalità smart working.
«Per mostrarvi la nostra gratitudine vorremmo omaggiare le maestre di un abito»: è il messaggio lanciato sul profilo Instagram del brand che invitava a compilare un modulo specificando genericamente che l’iniziativa sarebbe stata valida fino a esaurimento scorte.

Ma Draper James non aveva fatto bene i conti e l’iniziativa, promossa anche attraverso noti programmi televisivi, si è rivelata un boomerang: negli Stati Uniti, infatti, ci sono circa tre milioni di insegnanti della scuola pubblica, quasi tutte donne, e ben un milione di queste hanno compilato il modulo per ricevere l’abito promesso mentre il marchio aveva in realtà solo 250 vestiti a disposizione per le docenti, come riporta il New York Times.

La griffe, e di conseguenza anche la Witherspoon, sono state accusate di aver approfittato dell’emergenza coronavirus per trarre visibilità e acquisire dati personali delle utenti.

È stato perfino coniato un nuovo hashtag, #Covidwashing, che fa il verso al fenomeno del greenwashing, neologismo indicante la strategia di comunicazione di certe imprese e organizzazioni finalizzata a costruire un’immagine di sé ingannevolmente positiva sotto il profilo dell’impatto ambientale (un lavarsi la coscienza, insomma).

Ma arriviamo a un aspetto decisamente importante, ovvero quello dei consumi.

Molti sperano che, dopo l’attuale freno, vi sia il cosiddetto ‘revenge spending’ ovvero la liberatoria impennata delle spese che di solito segue un periodo di crisi, repressione o recessione e che, nel nostro caso, potrebbe essere la rivalsa contro l’isolamento e l’immobilità forzata causati dal coronavirus.

Altri analisti temono tuttavia che – al contrario – un’esperienza così traumatica e l’incertezza per il futuro spingeranno molti a tagliare le spese superflue e a risparmiare per comprare piuttosto un’auto, una casa oppure per mettere da parte i soldi per la pensione.

In effetti, il panorama attuale presenta aspetti e segnali contraddittori per quanto riguarda i consumi, segnali in parte anche diversi rispetto a precedenti momenti di crisi.

Un esempio è il lipstick index, fenomeno del quale ho da poco parlato con le studentesse della mia classe attuale.

Il termine è stato coniato da Leonard Lauder, presidente di Estée Lauder, celeberrimo marchio specializzato in cosmetici, e stabilisce una relazione inversamente proporzionale tra momenti di crisi e vendite dei rossetti: Mr. Lauder ha infatti osservato come, durante i periodi di crisi, ci sia un aumento delle vendite di rossetti, prendendo come esempio il 1929 e il 1942. Questa teoria è stata ulteriormente verificata nel 2001 quando, dopo l’attentato alle Torri Gemelle, ci fu un periodo di recessione: le vendite dei rossetti ebbero un boom sebbene l’economia globale fosse sofferente.

Il make-up è un alleato di tutte le donne, un mezzo con il quale minimizzare quelli che consideriamo piccoli difetti e valorizzare i nostri pregi: tutto ciò vale a maggior ragione in momenti in cui le sicurezze generali vengono minate.

Per la prima volta da quando è stata pensata, la teoria del lipstick index viene smentita per due fattori.
Primo fattore: noi donne – come tutti – stiamo essenzialmente a casa e probabilmente riteniamo superfluo indossare il rossetto.
Secondo fattore: anche quando si aprirà la ‘fase 2’ e ricominceremo a recarci nei luoghi di lavoro, lo faremo comunque con la mascherina che renderà inutile o forse addirittura scomodo colorare le labbra.

Insomma, per parecchi mesi, i lipstick avranno vita dura e probabilmente il crollo dei consumi riguarderà il make-up in generale: la situazione di ‘copertura parziale’ del viso non contemplerà l’uso del trucco, sempre per motivi di scomodità (per esempio trasferimento del fondotinta) tranne che per gli occhi che si troveranno invece in primo piano.

Non è inoltre da escludere che, come dopo le rivoluzioni e i grandi momenti storici, ci saranno dei cambiamenti radicali anche nel modo di vestire.

Ho già citato la fine di crinolina e corsetto con la fine Ottocento e l’avvento del Novecento.
Potrei citare la nascita dei jeans nel 1873 come capo di utilità e la successiva trasformazione in divisa dei giovani ribelli negli Anni Cinquanta grazie al cinema (ne ho parlato qui); l’invenzione del nylon nel 1938 che porta alla nascita del collant nel 1959; il lancio nel 1946 del bikini di Louis Réard (ne ho parlato qui); il New Look di Christian Dior lanciato nel 1947 come risposta all’austerità imposta dalla Seconda Guerra Mondiale (ne ho parlato qui); l’introduzione della minigonna negli Anni Sessanta (e la cui paternità è divisa tra Mary Quant e André Courrèges); l’ascesa dei pantaloni nel guardaroba femminile (ne ho parlato qui).

(Per inciso: la calze in nylon non ancora collant subirono durante la Seconda Guerra Mondiale una momentanea sparizione causa riconversione industriale a favore della produzione bellica, proprio come oggi la moda si converte per produrre invece dispositivi di protezione individuale…)

La verità sta dunque probabilmente nel mezzo.
È probabile che si finisca per comprare di meno spendendo però meglio (e in alcuni casi un po’ di più), ovvero scegliendo di investire vestiti e accessori di maggiore qualità e durata, meno legati alle mode del momento.
A questo punto, anche i marchi dovranno puntare su quei prodotti che li caratterizzano fortemente, cavalli di battaglia che ripropongono con poche variazioni stagione dopo stagione, come i cosiddetti prodotti continuativi.
E sicuramente second hand, vintage, circular economy, recycling e upcycling saranno espressioni e modi di vivere sempre più in auge.

Cosa avverrà allora alle aziende produttrici di abbigliamento? E ai distributori?

I marchi di abbigliamento che la spunteranno, sempre secondo gli esperti, saranno quelli che avranno costruito nel frattempo un rapporto con i clienti, comunicando un’immagine di sé che vada oltre il semplice prodotto (proprio come dicevo qui sopra), un’immagine improntata al ‘reality telling’ come sviluppo dello storytelling, un concetto che si esprime in una proposta autentica, concreta, affidabile, incentrata sulle persone.

Potrebbero andare molto bene le aziende di abbigliamento sportivo che sono avvantaggiate da un’offerta versatile, comoda e funzionale.
Potrebbero emergere le aziende che lavorano direttamente con il cliente e quelle nate online, inclusi i piccoli marchi indipendenti che popolano social network come Instagram. Nonostante godano di minore copertura finanziaria rispetto ai grandi marchi e ai grandi gruppi, possono godere del rapporto fiduciario one-to-one con il cliente.
Dovrebbero andare bene, come accennavo, i siti che rivendono moda e che propongono il vintage.

La crisi dei grandi magazzini e dei centri commerciali diventerà invece più profonda e sarà ancora più insidiata dalla vendita online.
Dopo la riapertura delle attività, molti preferiranno acquistare un capo di abbigliamento online piuttosto che impiegare lungo tempo in fila o provare nei camerini gli stessi abiti magari appena indossati da altri.
Rischiano di soffrire molto anche le grandi catene di fast fashion, con una massa di vestiti (talvolta e sottolineo talvolta anonimi e di scarsa qualità) che rischierà di ammassarsi sempre più nei magazzini.
Potrebbe esserci invece una nuova primavera per i negozi di quartiere (o negozi di vicinato o negozi di prossimità), sempre in base all’idea di un rapporto più fiduciario e one-to-one.

(Consentitemi un personale appello alle istituzioni: non dimentichiamo la piccola e media industria che è ed è sempre stata l’anima, la colonna vertebrale di questo Paese.
Non arriviamo al paradosso di occuparci e preoccuparci solo delle grandi aziende e dei nomi altisonanti a discapito dei piccoli e medi imprenditori.
Diamo supporto a queste realtà, non lasciamole sole o indietro. Affianchiamole, supportiamole. Sono loro ad averne più bisogno.)

E arriviamo così a un punto estremamente cruciale: ci sarà – probabilmente – maggiore attenzione all’ambiente.

L’aumento della temperatura media del pianeta, lo scioglimento dei ghiacci e l’aumento del livello dei mari, lo smog, la riduzione drammatica delle foreste, l’inquinamento dei mari, l’estinzione di molte specie di animali.
Sono tutte problematiche che dibattiamo da tempo ma quanto sul serio le abbiamo prese? Addirittura c’è ancora chi nega tutto ciò e si prende gioco di Greta Thunberg…

Entrambi – il coronavirus e il cambiamento climatico – sono minacce globali.

Entrambi richiedono misure eccezionali; entrambi hanno effetti mortali e devastanti.

Ma allora perché abbiamo finora dimostrato di avere quasi più paura del coronavirus di quanta ne abbiamo del cambiamento climatico?
Secondo alcune ricerche, il virus rappresenta un pericolo concreto, vicino e immediato; percepiamo invece il cambiamento climatico come più lontano da noi, nonostante non manchino disastri ambientali a ricordarcelo periodicamente.

Pandemia e cambiamento climatico hanno invece molte cose in comune.

Entrambi sono capaci di generare effetti economici e sociali distruttivi; su entrambi ci siamo preparati pochissimo; come per il cambiamento climatico, anche il coronavirus ha avuto molti negazionisti perfino quando era ormai evidente a tutti (perfino agli ottimisti come me…) tutta la gravità della situazione.

Cosa possiamo allora imparare?
Che dobbiamo lavorare su previsioni a lungo termine e che per farlo servono preparazione e risposte globali – mentre fin qui le risposte sono state in ordine sparso, da Paese a Paese.
Che bisognerebbe mettere in evidenza gli impatti del cambiamento climatico sulla salute pubblica perché la salute pubblica è il veicolo migliore per indurre nelle persone reali cambiamenti di comportamento.

Le misure restrittive contro il coronavirus sono state accettate più o meno ovunque poiché percepite come temporanee (e lo speriamo vivamente tutti, anche se sarà un ‘temporaneo’ non a brevissimo termine): le misure contro il cambiamento climatico devono invece essere permanenti e quindi suscitano maggior contestazione e maggior resistenza.
Servono dunque misure sostenibili che possano essere accettate da tutti; la politica deve lavorare con la scienza e deve investire su un sistema educativo che formi le persone; i cittadini devono impegnarsi a informarsi imparando a distinguere tra informazione affidabile e fake news.

Quello che hanno in comune la moda e il coronavirus, oggi, è proprio il tema della sostenibilità.

Se da un lato la moda si rivela responsabile, solidale e consapevole tramite la riconversione e le donazioni, dall’altro lato il virus ci ha sbattuto in faccia una grande verità: se ci spostiamo meno, inquiniamo meno; se inquiniamo meno, possiamo (ancora) sperare di salvare il pianeta.
Oltre al fatto che, comprando meno vestiti, contribuiamo ad abbattere i consumi del ciclo tessile, la seconda industria più inquinante al mondo – ahimè.

Abbiamo bisogno di un nuovo tempo, dove le questioni di ieri (la sostenibilità ambientale, umana e sociale, il rispetto del lavoro, il rispetto delle differenze, l’inclusione) devono diventare realtà.

E allora chissà che non tornino in auge discorsi che abbiamo accantonato, come la tracciabilità delle filiere produttive realizzata attraverso blockchain.
Con blockchain (letteralmente ‘catena di blocchi’) si intende una tecnologia che prevede una struttura di dati condivisi e immutabili: è una sorta di registro digitale le cui voci sono raggruppate in blocchi, concatenati in ordine cronologico. È immutabile in quanto, di norma, una volta scritto, il contenuto non è più né modificabile né eliminabile, a meno di non invalidare l’intera struttura.

Ecco perché la blockchain sarebbe uno strumento ideale per tracciare con assoluta certezza la provenienza (e anche per certificare l’autenticità) dei prodotti moda, passaggio dopo passaggio.
Il Ministero dello Sviluppo Economico ha messo in piedi il progetto pilota ‘La Blockchain per la tracciabilità del Made in Italy, Origine, Qualità, Sostenibilità’: il dicastero guidato da Stefano Patuanelli, con il supporto di Ibm e la collaborazione di Smi-Sistema Moda Italia, ha commissionato questo studio di fattibilità (i cui risultati sono stati presentati il 14 novembre scorso) per tracciare una delle possibili soluzioni che le imprese possono decidere di intraprendere per innovare i processi produttivi.

Speriamo che tale studio possa portare presto alla sperimentazione sul campo.
Speriamo che la pandemia finisca per accelerare i cambiamenti già in corso da anni nel mondo della moda.

(Oggi, 22 aprile 2020, si festeggia la Giornata della Terra o Earth day.
Si festeggiò per la prima volta il 22 aprile 1970, esattamente 50 anni fa: rendo omaggio alla ricorrenza con questo mio scritto e con tanta speranza.)

 

Visualizza questo post su Instagram

 

Un post condiviso da Giorgio Armani (@giorgioarmani) in data:

«(…) L’emergenza attuale dimostra invece come un rallentamento attento e intelligente sia la sola via d’uscita. Una strada che finalmente riporterà valore al nostro lavoro e che ne farà percepire l’importanza e il valore veri al pubblico finale. Il declino del sistema moda per come lo conosciamo è iniziato quando il settore del lusso ha adottato le modalità operative del fast fashion, carpendone il ciclo di consegna continua nella speranza di vendere di più, ma dimenticando che il lusso richiede tempo, per essere realizzato e per essere apprezzato. Il lusso non può e non deve essere fast. Non ha senso che una mia giacca o un mio tailleur vivano in negozio per tre settimane prima di diventare obsoleti, sostituiti da merce nuova che non è poi troppo diversa. Io non lavoro così, e trovo immorale farlo. Ho sempre creduto in una idea di eleganza senza tempo, che non è solo un preciso credo estetico, ma anche un atteggiamento nella progettazione e realizzazione dei capi che suggerisce un modo di acquistarli: perché durino. Per lo stesso motivo, trovo assurdo che in pieno inverno in boutique ci siano i vestito di lino e in estate i cappotti di alpaca, per il semplice motivo che il desiderio d’acquisto va soddisfatto nell’immediato. Chi acquista per mettere in armadio aspettando la stagione giusta? Nessuno o pochi, penso io. (…) Questa crisi è anche una meravigliosa opportunità per ridare valore all’autenticità: basta con la moda come puro gioco di comunicazione, basta con le sfilate cruise in giro per il mondo per presentare idee blande e intrattenere con spettacoli grandiosi che oggi ci si rivelano per quel che sono: inappropriati e, se vogliamo, anche volgari. Sprechi di denaro che inquinano e sono verniciati di smalto sul nulla. Eventi speciali devono succedere per occasioni speciali, non come routine. Il momento che stiamo attraversando è turbolento, ma ci offre anche la possibilità, unica davvero, di aggiustare quello che non va, di riguadagnare una dimensione più umana. (…)»

È un estratto dalla lunga lettera aperta che Giorgio Armani ha fatto pervenire al magazine WWD.

E con le sue parole (che vorrei leggeste con grande attenzione) desidero avviarmi verso la conclusione di questo nostro lungo viaggio tra sogni, desideri, speranze, possibilità, opportunità, questioni aperte e anche qualche dubbio e qualche timore.

Perdonatemi – appunto – per la lunghezza, ma credo che un argomento così complesso, sfaccettato, ricco di implicazioni qual è lo stato di salute e il futuro della moda in tempi di coronavirus non possa essere liquidato in una manciata di righe.

Liquidare frettolosamente significherebbe svilire l’argomento e io – invece – amo e rispetto troppo la moda per farlo.
La studio e la respiro ogni giorno e credo meriti di vedere riconosciuto il proprio ruolo.

Dunque…

Prima di tutto, per quanto riguarda il futuro, visto che ho dato molto spazio soprattutto alle ipotesi che ho raccolto, vi dico in cosa credo io personalmente.
Credo soprattutto nella necessità di correggere il tiro in tutti gli ambiti, sia nel modo di presentare la moda sia nel modo di produrla e distribuirla. E questa correzione deve andare necessariamente in direzione di una maggiore sostenibilità, dal punto di vista sociale e dal punto di vista ambientale..

Oggi più che mai penso che la moda sia molto di più di un passatempo per persone superficiali.
È un’industria, una delle più prospere del nostro Paese. Crea impiego e reddito, dà lavoro.
Per contro, abbiamo talvolta esagerato anche nel ridurla al solo e mero business perché la moda è anche sogno e proiezione.

«I consumatori sono al centro dei nostri pensieri. Dovremo stare al loro fianco, con la consapevolezza che siamo tutti animali che cambiano pelle. Penso che le cose non cambieranno radicalmente, perché la moda è fatta per dare gioia. Forse ci sarà più sobrietà, come è già avvenuto dopo altre crisi, nel 2001 e nel 2008: si va a corsi e ricorsi.»
Così ha detto Marco Bizzarri, presidente e CEO di Gucci, in una recente intervista per WWD.
«La moda è fatta per dare gioia»: è vero, presidente, e io vorrei che lei, figura chiave di una maison importante e che fa parte di un gruppo mondiale come Kering, lo tenesse davvero ben presente insieme alla ovvia necessità (lo capisco) di fare business e fatturato…

La moda che amo – e lo vado ripetendo da sempre – è quella sì fatta di estetica ma anche di contenuti, è fatta di apparenza ma anche di essenza e di etica.
Ora più che mai la moda ha bisogno di sostanza.

La moda che amo racconta abitudini, comportamenti, preferenze del singolo individuo e di interi gruppi di persone; interessa pertanto svariati ambiti – sociali, storici, geografici, ideologici, artistici – e può essere inserita a pieno titolo tra le molteplici declinazioni che la cultura assume.
La cultura investe moltissimi ambiti: c’è cultura in un libro e in una mostra, ma ci sono conoscenza, sapere e significati anche in un abito.

Cultura che – non dimentichiamolo – deriva dal verbo latino colere, ovvero ‘coltivare’, dunque intesa come insieme di conoscenze e come sistema di saperi, opinioni e comportamenti che caratterizzano (o dovrebbero caratterizzare) noi esseri umani.
La cultura dovrebbe essere pertanto interesse primario di ciascuno di noi.
Perché la cultura non è un vezzo. Non è un hobby, un optional, un’alternativa.
È caratteristica fondamentale di un popolo e lo è in particolare per il nostro Paese e noi non dobbiamo in nessun caso rinunciarvi.
Ribadisco una volta di più che per me non esiste nessuna diatriba che opponga cultura e sopravvivenza: questa antitesi non esiste perché l’uomo ha bisogno di nutrire testa e anima quanto ha bisogno di nutrire il corpo.

Si dice che la cultura debba costruire ponti, non muri.
Anche la moda deve dunque contribuire a costruire ponti: oggi quei ponti sono virtuali e io continuo a desiderare e sperare, oltre qualsiasi analisi che, un giorno, torneranno a essere anche fisici.

Intanto lavoro ai ponti virtuali.
Continuo la mia campagna di sostegno al talento, in Instagram e qui nel blog; vi preannuncio già che il prossimo post nel blog sarà proprio in tal senso, al 100%.
Parlerò infatti di Bsamply, piattaforma che permette di digitalizzare i processi di vendita.

Alla prossima, allora.

Manu

 

 

Postilla 1: Se la moda rispecchia il proprio tempo, lo stesso vale per i magazine e qualsiasi altro mezzo (blog inclusi) che la raccontino. Nel mondo infuria una pandemia che, probabilmente, cambierà molti equilibri che davamo per scontati e che, probabilmente, muterà il nostro modo di vivere e quindi anche di raccontare la moda e consumarla. E se ancora oggi qualcuno storce il naso all’idea che l’attualità rientri tra gli interessi di chi si occupa di moda, forse vale la pena di andare alle radici della storia di un magazine come Vogue, radici lontane e profonde. Per chi voglia approfondire l’argomento, lascio volentieri questi due link, qui e qui.

Postilla 2: Certi giorni mi alzo e mi riesce faticoso anche solo pensare e concentrarmi, figuriamoci agire. Vorrei poter aiutare tutti, tutte le realtà che stimo, ma perdonatemi, non ho energie e tempo sufficiente, anche perché anch’io avrei talvolta bisogno di aiuto, fosse anche ‘solo’ per placare i pensieri tumultuosi che non mi danno pace. Altri giorni mi alzo e riesco a mettere in fila almeno i pensieri, cercando di fare analisi che spero possano aiutare me e magari anche altri, provando a razionalizzare e a creare un po’ di ordine, un filo logico. Perdonatemi, ripeto, faccio ciò che posso, al massimo delle mie possibilità, con impegno immutato, ma mettendo in conto energie e forze disponibili.

 

 

 

L’immagine di apertura è una mia elaborazione
fatta attraverso il sito PhotoFunia

 

 

 

 

 

A glittering woman è anche su Facebook | Twitter | Instagram

 

Sharing is caring: se vi va, qui sotto trovate alcuni pulsanti di condivisione

 

 

 

 

 

Spread the love

Manu

Mi chiamo Emanuela Pirré, Manu per gli amici di vita quotidiana e di web. Sono nata un tot di anni fa con una malattia: la moda. Amo la moda perché per me è una forma di cultura, una modalità di espressione e di comunicazione, un linguaggio che mi incuriosisce. Scrivo e creo contenuti in ambito editoriale, principalmente proprio per la moda. Insegno (Fashion Web Editing, Storytelling, Content Creation) in due scuole milanesi. Vivo sospesa tra passione per il vintage e amore per il futuro e sono orgogliosa della mia nutrita collezione di bijou iniziata quando avevo 15 anni. Per fortuna Enrico, la mia metà, sopporta (e supporta) entrambe, me e la collezione, con pazienza e amore. Oltre a confessare un'immensa curiosità, dichiaro la mia allergia a pregiudizi, cliché, luoghi comuni, conformismo e omologazione. Detesto i limiti, i confini, i preconcetti – soprattutto i miei – e mi piace fare tutto ciò che posso per superarli. La positività è la mia filosofia di vita: mi piace costruire, non distruggere. Moda a parte, amo i viaggi, i libri e la lettura, l'arte, il cinema, la fotografia, la musica, la buona tavola e la buona compagnia. Se volete provare a diventare miei amici, potete offrirmi un piatto di tortellini in brodo, uno dei miei comfort food. Oppure potete propormi la visione del film “Ghost”: da sognatrice, inguaribile romantica e ottimista quale sono, riesco ancora a sperare che la scena finale triste si trasformi miracolosamente in un lieto fine.

Lascia un commento

Nome*

email* (not published)

website

error: Sii glittering... non copiare :-)