Cruelty free, made in Italy, reshoring: siamo tutti oche?

Sembrerebbe che cruelty free sia diventata un’espressione molto in voga. Non solo: oggi, tantissimi parlano di made in Italy e di rientro in patria dei siti produttivi (ovvero il processo di reshoring o back reshoring), siti che in molti casi erano stati delocalizzati all’estero.

Desidero esprimere la mia opinione su tutto ciò, sebbene mi renda conto che sia pericoloso quanto avventurarsi su un campo minato o su una sottile lastra di ghiaccio: scontenterò molti, temo, in un senso e nell’altro, eppure – come sempre – non voglio rinunciare a essere sincera e trasparente.

Vi preannuncio che in questo post troverete molte domande, poche risposte e un certo numero di provocazioni. Tengo anche a precisare che non è una predica: non è questo ciò mi interessa e non potrei nemmeno farne.

È solo una riflessione a voce alta che mi va di condividere, perché, partendo dal cruelty free, vorrei mettere sul tavolo un po’ di spunti sia dal punto di vista degli animalisti sia dal punto di vista di chi sostiene l’uso dei prodotti di origine animale, fino ad arrivare a made in Italy, filiere, delocalizzazione e successivo reshoring.

Espongo argomentazioni su entrambi i fronti non per evitare di prendere posizione né per dare un colpo alla botte e uno al cerchio, come si suol dire, bensì perché cerco di ascoltare con mente aperta e perché trovo elementi condivisibili da una parte e dall’altra.

C’è chi sostiene che oggi non ci sia più necessità di usare gli animali (usare, gran brutta espressione, vero?) perché esistono materie prime alternative; c’è chi invece afferma che l’uomo abbia sempre convissuto con gli animali e dunque che sia cosa naturale la nostra predazione nei loro confronti.

Dal punto di vista professionale, se avete un po’ navigato il blog, avrete già capito che questo mio spazio non si può certo definire cruelty free: ho parlato sia di accessori in pelle sia, in alcune occasioni, di pellicce.

Anche dal punto di vista personale non sono certo quella che si può definire un’animalista. Uso borse, cinture, calzature e giacche in pelle. Cerco di evitare la pelliccia ma talvolta ho ceduto. Mangio la carne e mi piace.

Dico molto sinceramente che faccio fatica a pensare di rinunciare a queste abitudini, tuttavia auspico fortemente maggior controllo, monitoraggio e tracciatura. A mio avviso, occorre garantire che carne, pelli e pellicce provengano da luoghi dove l’allevamento o il procacciamento siano severamente regolamentati, anche se non pretendo che questo renda etico né il fatto di essere carnivori né quello di portare indumenti di origine animale.

Sono stata tra i firmatari delle campagne contro la vivisezione, in quanto credo che oggi la sperimentazione animale in medicina non sia più necessaria e che sia stata ampiamente sostituita da metodi alternativi.

Spero di non incontrare mai nessuno che stia bastonando un cane. Lo spero per i cani perché vorrei che non fossero più abbandonati e maltrattati. Lo spero per me perché dovrei intervenire e so che rischierei di prenderle. E lo spero per l’ipotetico uomo col bastone perché le prenderebbe anche lui, ve l’assicuro.

In definitiva, penso che tortura, umiliazioni, sadismo e crudeltà gratuita verso gli animali debbano sparire, eppure mi capita di consumare alimenti come il foie gras.

Ecco, l’ho detto. Siete scioccati?

La mia posizione è ibrida, me ne rendo conto, nonché piena di contraddizioni: ammetto le mie debolezze e dico beati a coloro che vivono di certezze assolute.

Di tutto ciò sono conscia: cerco di tenere gli occhi aperti e di non smettere di pormi domande. Mi metto in continua discussione, insomma.

Ma arriviamo al nucleo delle mie riflessioni, ovvero il più recente scandalo nel controverso rapporto uomo-animali: le oche spennate vive mostrate da un servizio di Report, la nota trasmissione televisiva di Milena Gabanelli, e il conseguente scandalo che ha coinvolto in pieno Moncler.

Parrebbe (il condizionale è d’obbligo dato che si stanno facendo verifiche e indagini) che l’azienda realizzi i propri piumini senza rispettare le norme. Le norme consentono le pratiche di “spazzolatura” nel periodo di muta nonché di “pettinatura”, due procedimenti che consentono la raccolta di piume senza causare dolore agli animali: Moncler, invece, le spennerebbe. Da vive.

Qui scatta un ulteriore mistero: sembra, infatti, che la metodologia indolore non sia obbligatoria nella Comunità Europea, mentre lo è in Italia, dove vige il divieto di spiumatura di animali vivi. Sarà per questo – butto lì maliziosamente – che Moncler ha delocalizzato la produzione?

(L’amore per la verità mi obbliga a specificare che anche la produzione di foie gras è illegale in Italia da marzo 2007)

In un comunicato presente sulla home page del sito, Moncler sostiene di non aver affatto delocalizzato la produzione, come afferma il servizio di Report, e sapete perché? Perché l’azienda dichiara candidamente “che da sempre produce anche in Est Europa”, insomma, non è una novità. Beh, temo che questo sia un autogol o un epic fail, come si dice ora: non credo che i consumatori siano felici di sapere che un marchio che consideravano italiano, sebbene sia nato nel 1952 in Francia, “produce in Italia in quantità limitate e in Europa nei luoghi deputati a sostenere la produzione di ingenti volumi con elevato know-how tecnico che garantisca la migliore qualità”.

Ah sì? Know-how e qualità? E da quando in Italia non ci sono codeste caratteristiche? L’Italia è rinomata in tutto il mondo per il saper fare e la qualità: se mi si parla di costi capisco anche se non condivido, però non mi si parli di qualità.

A proposito: desidero ricordare che dal 1992 Moncler è un marchio italiano a tutti gli effetti e che nel 2003 fu acquisito dall’imprenditore Remo Ruffini, presidente e direttore creativo dell’azienda. Dunque non sbaglia chi si aspetterebbe un prodotto made in Italy.

Mi preme però anche dire che non credo che Moncler sia l’unica azienda a utilizzare determinate metodologie: come pensiamo che facciano le altre, a meno che non impieghino i materiali sintetici?

Scommetto che, tra coloro che sono rimasti scioccati dal reportage, ci sono anche molte persone contrarie alle pellicce, sinceramente convinte che il giaccone in piuma fosse un’alternativa etica. Questo dimostra per l’ennesima volta quanto la questione sia complicata, delicata, sfaccettata, controversa e di difficile gestione nonché quanto sia difficile stabilire limiti certi e sicuri.

E qui lancio una provocazione: oltre al foie gras e alle giacche in piuma, entrambi rei di trattamenti crudeli a carico delle oche, ricordiamoci che la piuma è anche nelle coperte che teniamo sui letti nonché in certi cuscini sui quali dormiamo.

Dove voglio arrivare?

Al fatto che credo che dovremmo tutti fermarci, pensare e metterci in discussione, integralisti inclusi.

Per esempio, vorrei che capissimo come gestire la pietà verso gli animali.

Aspettate, cerco di spiegarmi meglio.

A coloro che appartengono alla filosofia del “giammai-una-pelliccia-e-che-la-peste-colga-chi-le-porta” e che poi magari indossano scarpe in pelle o mangiano bistecche di manzo, vorrei chiedere questo: qual è la differenza per voi?

Se si ha pietà di un animale con pelliccia o dell’agnello a Pasqua in quanto teneri e graziosi e dunque portatori sani di simpatia, non occorrerebbe allora aver pietà per tutti quanti, inclusi quelli verso i quali nessuno nutre tenerezza?

Penso, per esempio, al coccodrillo, considerato per giunta un predatore feroce: non ricordo crociate a suo favore.

Nessuno o quasi ha pietà di ciò che accade a maiali, mucche e galline negli allevamenti prima e nei macelli poi, nessuno tranne vegetariani e vegani.

E vi prego, non mi dite che la giustificazione è che del maiale si usa tutto.

Perché ci si scandalizza per l’oca spennata e non si fa una piega per la mucca macellata, quasi il suo sia un destino ineluttabile?

Chi stabilisce i limiti? E dove vanno posti?

La salvezza o la condanna degli animali vanno a intermittenza?

Si possono fare delle graduatorie, delle classifiche? E come se ne determinano i parametri?

Chi decreta e scinde il salvabile dal sacrificabile?

Tutto ciò non è un senso della pietà del tutto distorto?

Faccio tutte queste riflessioni da peccatrice, lo ripeto ancora una volta.

Le contraddizioni, le posizioni ibride e le sfumature sono atteggiamenti familiari alla maggior parte degli esseri umani e molti di noi le ospitano nelle loro vite.

Ho amici che amano alla follia i loro animali domestici ma non rinunciano a un panino con la salamella oppure indossano la pelliccia. Conosco gente che si commuove fino alle lacrime per cani e gatti abbandonati ma che non donerebbe un centesimo per i bambini denutriti dell’Africa. C’è anche chi trova accettabile una pelliccia di lapin mentre si scandalizza davanti a una di visone.

Io cerco di accettare tutti (tranne chi non ha pietà per i bimbi africani) e cerco a mia volta di gestire le mie incoerenze.

A coloro che invece appartengono alla filosofia “l’uomo-è-il-padrone-della-Terra-e-pertanto-tutto-ci-è-concesso”, vorrei invece portare un esempio (secondo me pessimo) di cupidigia, quella che ci può portare a vedere gli animali solo come meri oggetti e quindi privi di diritti, oggetti dei quali possiamo fare un uso indiscriminato: mi riferisco a Patrizio Bertelli, CEO di Prada e alla sua presa di posizione proprio sulla questione dei piumini e delle oche, presa di posizione che non ho affatto apprezzato, come avrete già capito.

“Portare in televisione il tema dei maltrattamenti causati alle oche per imbottire giacche e piumini fa parte di una cultura del passato oramai sorpassata, per questo la Gabanelli è stata stupida”, ha detto l’imprenditore durante il Milano Fashion Global Summit.

E non si è fermato: “Non capisco la distinzione tra una gallina e una balena. È naturale che in un mondo globalizzato un’impresa cerchi risorse produttive con costi più contenuti, per esempio in Ucraina o in Slovenia, e non si può impedirlo in un mercato liberale. Questo non vuol dire che noi dobbiamo fare i carabinieri sui produttori ai quali ci affidiamo”.

Cultura del passato? È forse un discorso antico cercare di limitare la crudeltà sugli animali? Non solo, la spiumatura in vivo avviene oggi, come ampiamente documentato dal programma.

La Gabanelli è stata stupida? No comment.

È naturale che un’impresa cerchi risorse produttive con costi più contenuti? Certo, ma non esistono solo profitto e fatturato.

Non dobbiamo fare i carabinieri sui produttori? E allora dove sta la responsabilità di un imprenditore?

Che incredibile faccia tosta, ragazzi! L’unico punto su cui non posso proprio dargli torto è la distinzione tra animali nonché la pietà a intermittenza.

Perdonatemi se provo simpatia per la risposta della Gabanelli. “Bertelli ha ragione nel darmi della stupida – ha replicato la giornalista – sono orgogliosamente stupida, perché le mie tasse le verso fino all’ultimo centesimo; mentre lui, indagato per elusione per 470 milioni (nonostante sia uno degli uomini più ricchi del mondo), può propriamente definirsi furbo”.

“Nessuno – ha proseguito – impedisce a Bertelli di andare a produrre in Transnistria (un paese nemmeno riconosciuto dalle Nazioni Unite) per 30 euro i suoi giacconi in vendita a 2.000, ma non si stupisca se qualcuno lo racconta e si chiede perché non produrre qui, visto che il lusso è il settore che ha i ricarichi più alti. Il consumatore ha il diritto di essere informato e poi sceglierà come meglio crede. Il patron di Prada investe molte risorse nel monitorare la stampa: ne potrebbe investire un po’ nel monitorare i suoi fornitori, altrimenti i codici etici sono tutta fuffa”.

Amen.

Sapete, tra le tantissime opinioni che ho letto in questi giorni, c’è stato un pensiero serpeggiante da più parti che mi è sembrato uno dei punti di vista più intelligenti e condivisibili: è vero che l’uomo ha sempre convissuto con gli animali anche predandoli, ma forse le cose ci sono sfuggite di mano nel momento in cui li abbiamo fatti diventare semplici materie prime delle nostre catene industriali. Credo che il nostro errore sia quello di mettere gli esseri viventi in un sistema in cui la logica dei grandi numeri domina su qualsiasi altro valore.

E qui scivoliamo pian piano verso la china di filiere, made in Italy, delocalizzazione e reshoring.

Prima di tutto, tengo a far notare che Bertelli ha dato della stupida non solo alla Gabanelli ma a tutti coloro che si pongono interrogativi sul (vero) made in Italy e sulle filiere produttive. So benissimo qual è il mestiere di un imprenditore, ma pretendo che quello stesso imprenditore non faccia passare per stupidi noi se ci poniamo interrogativi che vanno oltre la preoccupazione per il suo profitto.

Bertelli continuerà a fare il suo interesse, è ovvio ed è nell’ordine delle cose: noi (spero) decideremo con le nostre teste senza accettare di sentirci apostrofare come degli stupidi che vivono nel passato. Ognuno farà le proprie scelte, sebbene io comprenda perfettamente che al nostro imprenditore farebbe molto comodo avere consumatori che non si pongano alcuna domanda.

Nonostante abbia ammesso l’esistenza di posizioni ibride, contraddizioni e sfumature, il motivo per cui non apprezzo la posizione di Bertelli è proprio il suo voler far passare per stupido chi non la vede come lui.

A tal proposito, gli raccomando un giro dalle parti di Brunello Cucinelli, fondatore e proprietario dell’omonima azienda di abbigliamento in cashmere, un uomo che dimostra che può esistere un altro modo di fare l’imprenditore.

E a questo punto vorrei lanciare un’altra provocazione: ricordiamo che su tutte le catene industriali, oltre alla questione animali e ambiente, pesano anche tutte quelle connesse alla salute e alla sicurezza dei lavoratori. O, anche in questo caso, devo pensare che un operaio – magari maschio e adulto – della Transnitria ci faccia meno pietà delle suddette graziose bestioline da pelliccia?

Le condizioni di lavoro restano sempre una gravissima problematica: quando qui sopra parlavo di esseri viventi e logica dei grandi numeri che prevarica ogni valore, mi riferivo ad animali e uomini in egual misura.

Torno a ripeterlo: io sono per la tracciatura e per il controllo, perché – se volete la mia minuscola opinione – credo che molto difficilmente si riuscirà a giungere a un totale cruelty free e a una totale eliminazione dei materiali di origine animale.

Credo anche che la delocalizzazione delle produzioni abbia avuto molti risvolti negativi e che ritornare al made in Italy – controllato e autentico – sia una delle poche strade percorribili se si vuole arrivare a soluzioni un minimo decenti o politically correct, come piace dire a molti.

È palese che la delocalizzazione abbia fatto molti danni, di immagine e di sostanza, ai contenuti e all’economia: la produzione industriale è oggi spesso sfilacciata e slabbrata quanto un maglione vecchio e ha più buchi di un colabrodo. In molti casi è difficilissimo se non impossibile esercitare il controllo.

Mi concentro da tempo sugli emergenti che, contrariamente a quanto talvolta avviene per i grandi imperi aziendali e le holding internazionali, fondano molto spesso le loro attività proprio sull’autentico made in Italy.

Non prendiamoci in giro e ammettiamolo: i marchi del cosiddetto lusso (che poi bisognerebbe ben definire il concetto di lusso) fanno principalmente finanza e ciò avviene indipendentemente che si occupino di moda o di altro (e su questo sono pronta a lanciare un’altra provocazione). Non per nulla, moltissimi brand di questo segmento fanno parte di holding enorme e trasversali.

Se siete tra coloro che si sono scandalizzati per il trattamento riservato alle oche, mi permetto di segnalare che, volendo, le alternative ci sono, per esempio, appunto, guardare non solo ai grandi brand ma finalmente alle piccole realtà. Oppure tra un mese le oche saranno dimenticate e il piumino Moncler tornerà a essere un oggetto del desiderio?

E qui dico un’altra cosa impopolare: a cosa sarà servito, allora, tutto ciò? Magari solo a qualche taglio di posti di lavoro qualora l’attuale caduta del titolo Moncler in borsa dovesse continuare, caduta rovinosa seguita allo scandalo?

Per quanto mi riguarda, preferirò sempre più le aziende trasparenti che danno accesso alla filiera produttiva e alla sua tracciabilità: giusto la scorsa settimana, ho parlato di Mauro Gasperi, per esempio, e del sistema che applica. Sempre più preferirò gente come lui, stilisti e imprenditori che ci consentono di essere consumatori consapevoli, quale che sia il nostro pensiero e quale che sia la loro politica.

Non sei cruelty free? Produci in un paese estero? Sii sincero e dimmelo. La scelta starà poi a ciascuno di noi e non è detto che sia necessariamente quella di scartare il prodotto.

E qui cito come esempio G-Star, azienda leader nel settore dei jeans che ha pubblicato sul web la mappa mondiale del proprio sourcing: per chi vuol provare (io l’ho fatto, come San Tommaso), sulla home page del sito, in base a destra, c’è l’icona “I nostri fornitori”. Da qui si accede a una sezione che presenta i 27 partner con i quali l’azienda lavora e dai quali fa realizzare più del 90% dei suoi prodotti. Non solo, questa mappatura è anche collegata all’e-shop e, in ogni scheda prodotto, è presente un bottone “produced by”: il consumatore può così sapere dove è fabbricato il prodotto che si appresta ad acquistare.

È questo ciò che voglio avere, la possibilità di sapere e dunque scegliere. Non voglio essere presa in giro: ovviamente sta a me l’onere di non essere pigra e informarmi, ma sta all’azienda quello di non occultare le informazioni.

A questo punto ribadisco ciò che ho scritto in principio: con questo post non pretendo di offrire alcuna soluzione definitiva né ho ricette miracolose da offrire, lo vedete.

Che se poi volessimo spingere tutto all’estremo, il fatto stesso che io abbia preso buona parte degli appunti per scrivere questo post attraverso un tablet è di per sé stessa una contraddizione verso certi discorsi e verso certe mie posizioni, così come lo è se mi state leggendo da uno smartphone: crediamo forse che gli apparecchi elettronici siano prodotti in modo etico?

Non è solo la moda a essere politicamente scorretta: ecco la mia ultima (per oggi) provocazione.

Con queste affermazioni non voglio essere disfattista: non credo che il fatto che ci siano cose sbagliate ovunque, in ogni settore, possa essere un buon motivo per arrendersi, per rinunciare, per non fare nulla, per alzare le braccia, per soccombere, rassegnarsi, adeguarsi.

Dico solo che tutto ciò ci deve far capire quanto sia difficile giudicare.

E che possono esistere le sfumature, che si può cercare di fare piccoli passi.

Che occorre stare attenti: emettere pochi giudizi e non sentirsi fuori. Fare piano piano qualcosa, giorno dopo giorno.

E dico per l’ennesima volta che occorre non smettere mai di porsi domande.

Credo che tra il nulla e il tutto esistano i punti intermedi, le piccole battaglie vinte.

Per questo faccio fatica a capire i puristi, gli integralisti, i menefreghisti e chi preferisce vivere con la testa sotto la sabbia; per questo mi è difficile capire chi è sempre pronto a puntare il dito e chi vive di certezze assolute.

Abbiamo fatto un gran bel casino, ragazzi.

E ora, come ho scritto in principio, abbiamo parecchie cose sulle quali riflettere e ne abbiamo ancora di più da fare.

Io direi, semplicemente: rimbocchiamoci le maniche. Ognuno per quel che può e per quel che sente: è già qualcosa, è un inizio.

Manu

 

P.S.: questo post è lunghissimo e tratta argomenti piuttosto pesanti, me ne rendo conto, pertanto desidero ringraziare chi è arrivato fin qui. Grazie di cuore: sì, dico proprio a te che stai leggendo.

 

 

 

Questa volta non vi sottopongo link di approfondimento: è sufficiente inserire cruelty free, made in Italy, filiera, delocalizzazione e reshoring nella stringa di Google perché escano milioni di risultati.

Buona navigazione a chi vorrà sapere e informarsi.

 

 

 

 

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Manu

Mi chiamo Emanuela Pirré, Manu per gli amici di vita quotidiana e di web. Sono nata un tot di anni fa con una malattia: la moda. Amo la moda perché per me è una forma di cultura, una modalità di espressione e di comunicazione, un linguaggio che mi incuriosisce. Scrivo e creo contenuti in ambito editoriale, principalmente proprio per la moda. Insegno (Fashion Web Editing, Storytelling, Content Creation) in due scuole milanesi. Vivo sospesa tra passione per il vintage e amore per il futuro e sono orgogliosa della mia nutrita collezione di bijou iniziata quando avevo 15 anni. Per fortuna Enrico, la mia metà, sopporta (e supporta) entrambe, me e la collezione, con pazienza e amore. Oltre a confessare un'immensa curiosità, dichiaro la mia allergia a pregiudizi, cliché, luoghi comuni, conformismo e omologazione. Detesto i limiti, i confini, i preconcetti – soprattutto i miei – e mi piace fare tutto ciò che posso per superarli. La positività è la mia filosofia di vita: mi piace costruire, non distruggere. Moda a parte, amo i viaggi, i libri e la lettura, l'arte, il cinema, la fotografia, la musica, la buona tavola e la buona compagnia. Se volete provare a diventare miei amici, potete offrirmi un piatto di tortellini in brodo, uno dei miei comfort food. Oppure potete propormi la visione del film “Ghost”: da sognatrice, inguaribile romantica e ottimista quale sono, riesco ancora a sperare che la scena finale triste si trasformi miracolosamente in un lieto fine.

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