Pillole di MFW per la prossima bella stagione: SS 19 Alberto Zambelli

SS 19 Alberto Zambelli (ph. courtesy ufficio stampa)

È appena terminata la Milano Fashion Week o Milano Moda Donna, in particolare l’edizione che ha presentato le proposte degli stilisti per la prossima primavera / estate 2019.
So che – giustamente – siamo ormai tutti proiettati verso l’autunno e l’inverno, ma mi fa piacere condividere con voi alcune anticipazioni, le collezioni di alcuni stilisti che ho avuto il piacere di veder sfilare e che hanno attirato la mia attenzione in modo positivo (ebbene sì, confesso di aver visto anche proposte che non mi sono piaciute per niente però, come sempre, preferisco aprire bocca o pigiare i tasti del pc solo dare spazio alla positività).

Inizio questo piccolo viaggio da lui, lui che, tra gli stilisti contemporanei, è indubbiamente uno dei miei preferiti poiché ha un’identità forte e riconoscibile eppure, al tempo stesso, è altrettanto capace di rischiare, di cambiare, di sperimentare, di evolvere: parlo di Alberto Zambelli.

La collezione SS 19 Alberto Zambelli guarda alla Natura più pura e incontaminata e forgia la materia fino a farla diventare quasi marmorea, pensando alle opere del grande Antonio Canova (1757 – 1822), l’artista ritenuto il massimo esponente del Neoclassicismo in scultura: è in suo onore che Alberto elegge il bianco – insieme a bagliori argento – a protagonista assoluto dell’intera collezione.

Proprio come in una scultura in cui il bianco è capace di cambiare e mutare, mai uguale a sé stesso, in cui è capace di assumere mille sfumature a seconda di luci e ombre, in maniera del tutto similare e parallela, lo stilista propone il bianco in molteplici tonalità: gesso, calce, roccia e ancora lattiginoso, lunare, glaciale.
E proprio come se ci trovassimo davanti a statue neoclassiche, le forme e i volumi – slegati dalla presenza di colore – si sviluppano liberi.
Le linee fortemente sartoriali emergono in tutta la loro forza, dando vita a strutture elaborate che eppure non costruiscono rigide architetture ma che – al contrario – riescono a conferire all’abito vita, anima e movimento a ogni singolo passo.
Alberto ci propone forme intriganti (a tunica, a kimono, a uovo) e gioca con le lunghezze (mini, midi, maxi) nonché con gli accessori, come tocchi di kidassia (vello di capra a pelo lungo), calze in lattice tipo seconda pelle, scarpe che ricordano i sandali tradizionali giapponesi (detti geta, a metà tra zoccoli e infradito), girocolli e orecchini con sfere in marmo.

A fine sfilata (qui un mio piccolo video) e poi subito dopo in backstage (qui trovate una sequenza di tre scatti), ovvero nei due momenti in cui ho ammirato la collezione SS 19 Alberto Zambelli nel suo complesso, mi sono ritrovata catapultata indietro nel tempo, a cinque anni fa, precisamente al pomeriggio in cui, in uno splendido giardino milanese, mi innamorai della collezione di esordio dello stilista, ovvero la SS 14, la prima con il suo marchio dopo lunghe esperienze in seno a molte realtà: in entrambi i casi, in quella occasione esattamente come per la SS 19, Alberto ha privilegiato la perfezione assoluta del bianco, il colore non colore che tutto contiene.

Da allora, le sue collezioni sono state costantemente concepite pensando a una donna elegante e sofisticata che non ha paura di giocare tra forme pulite e assolute, associate a materiali inediti con i quali Alberto ama spesso sperimentare, come accade anche nella collezione SS 19 nella quale troviamo, oltre a materiali quali la seta chiffon e il plissé double, anche altri più alternativi quali il latex, la viscosa liquida, il tecnosilver.
Ogni capo viene curato nel più piccolo dettaglio, dalla caduta del tessuto passando per il tipo di finitura fino ad arrivare a eventuali ricami e stampe: da qui nasce lo stile essenziale in cui Alberto Zambelli si riconosce – e in cui io costantemente lo riconosco, come scrivevo in principio.
Di stagione in stagione, di anno in anno, le sue collezioni sono il frutto di una continua e personale ricerca sulla contemporaneità, mantenendo un occhio attento al nostro prezioso passato, inteso non come qualcosa di vecchio e polveroso, bensì come un bagaglio ricco di tradizione, conoscenza, cultura che, in questo caso, l’ha condotto all’omaggio a Canova.
L’ulteriore attrazione per l’Oriente (vedere la linea a kimono e le calzature di ispirazione giapponese) ha portato Alberto a creare un concetto di stile purificato dall’eccesso.
In un continuo gioco di sovrapposizioni, profondità e volumi, le forme femminili vengono ridisegnate, esaltando il movimento che avvolge e svela delicatamente il corpo, addolcendo rigore e severità di linee quasi rigorose grazie a tessuti che esaltano l’anima delle sue muse.

In un’epoca di eccessi, di esagerazioni, di provocazioni (spesso gratuite quanto superflue, sterili e inutili), sono – infine – l’eleganza della pulizia e dell’essenzialità a catturare l’attenzione (detto da una che non ha certo fatto del minimalismo il suo stile ma che non sopporta i vuoti sensazionalismi quanto i tentativi di creare a ogni costo clamore).

E dunque… evviva.
Evviva Alberto Zambelli.

Evviva Alberto che dimostra che a uno stilista non servono le stranezze spinte all’estremo né gli atteggiamenti da divo consumato (o da divinità, nei casi più estremi…).
Basterebbe piuttosto avere il talento autentico, basterebbe avere il desiderio sincero di vestire il corpo femminile con passione e rispetto, di creare per noi donne e non esclusivamente per soddisfare il proprio ego (e il proprio conto in banca), esattamente come sapevano fare una volta quei creatori che meritarono il nome di couturier.

Manu

 

A seguire, i miei outfit preferiti nella collezione SS 19 Alberto Zambelli (ph. courtesy ufficio stampa).
Per visualizzare la gallery da pc, cliccate sulla prima foto
e poi scorrete con le frecce laterali.

Per seguire il bravo Alberto, qui trovate il sito, qui la pagina Facebook e qui l’account Instagram.

Generation Paisley, al Mudec la bella mostra per i 50 anni di Etro

La moda ha molteplici piani di lettura – lo sa bene chi come me se ne occupa, studiandola o svolgendo un lavoro in questo ambito.

A legare ogni suo aspetto (da quello puramente estetico e di impatto visivo fino a quello fatto di suggestioni ed emozioni) è il forte potere comunicativo: la moda è a tutti gli effetti un linguaggio e racconta gli umori e i cambiamenti della società in cui viviamo, influenzandola e venendone a sua volta influenzata; è un fenomenale specchio dei tempi capace di raccontare chi siamo stati, chi siamo e chi saremo.

Proprio in tale ottica, si moltiplicano le mostre che raccontano la storia e le storie della moda: in Italia così come all’estero, sono spesso i grandi musei a mettere a disposizione i loro spazi e io che amo profondamente la moda e i suoi contenuti, io che ho l’onore di insegnare in Accademia del Lusso, scuola consacrata a formare i futuri professionisti della moda, non posso che essere felice di questo approccio culturale.

Com’è ben noto a tutti, settembre è uno dei mesi tradizionalmente consacrati alla presentazione delle nuove collezioni e, in occasione delle quattro principali Fashion Week (New York, Londra, Milano, Parigi), proprio per Accademia del Lusso e in particolare per il nostro ADL Mag, ho scritto un articolo collegando ogni città con alcune mostre dedicate alla moda.

Dalla passerella al museo, il passo è più breve di quanto si possa pensare: così, ho voluto raccogliere in un articolo tutta una serie di appuntamenti a mio avviso imperdibili: le fashion week dedicate alle collezioni donna per la primavera / estate 2019 (che hanno preso il via il 6 settembre a New York e che stanno volgendo al termine in questi giorni con Parigi) sono state ricche non solo di sfilate e presentazioni, ma anche di mostre e celebrazioni.

A rendermi particolarmente orgogliosa è il fatto che Milano – la mia città – si sia particolarmente distinta ospitando un numero davvero elevato di eventi: oggi, desidero parlarvi in dettaglio di una delle mostre menzionate in quel mio articolo, ovvero quella organizzata presso il Mudec, il Museo delle Culture di Milano, per festeggiare i 50 anni della casa di moda italiana Etro. Leggi tutto

Starbucks Milano, innovazione e tradizione con focus sul Made in Italy

L’esterno di Starbucks Milano (ph. courtesy ufficio stampa)

È uno degli argomenti più gettonati di questo rientro post vacanze alquanto caldo (metaforicamente e letteralmente, visto il tempo degno del mese di luglio): Starbucks Milano è ufficialmente aperto ed è il primo punto vendita italiano della celeberrima insegna americana fondata nel 1971 da Howard Schultz il quale, negli anni, ha colonizzato il mondo (anche in questo caso quasi letteralmente…) con oltre 28.000 caffetterie in 78 paesi.

Nelle redazioni dei giornali, l’opening fa scorrere fiumi di inchiostro e fa ticchettare allegramente i tasti dei pc; attraverso i vari social, da Facebook a Twitter passando per Instagram, favorevoli e contrari battibeccano più o meno animatamente; intanto, in piazza Cordusio, davanti al palazzo che in passato ospitava le Poste, c’è coda fissa per prendere un caffè – e si parla di ore di attesa.

Io non ci sono ancora stata, poiché vi confesso che spararmi detta coda non mi attrae nemmeno un po’: sicuramente, però, ci andrò appena sarà scemata la mania dei primi giorni e ci andrò perché a me Starbucks piace.
Sono stata in tanti loro locali in vari paesi e sono felice che abbiano scelto la mia città come punto di partenza di una strategia che era destinata ad approdare anche qui da noi in Italia: era solo una questione di tempo e, tra l’altro, Starbucks Milano è ora il più grande store d’Europa (2.300 metri quadri) nonché il terzo al mondo (dopo Seattle e Shanghai) e porta per la prima volta nel vecchio continente il format della Roastery (ovvero torrefazione), la versione lusso – diciamo così – del locale con la classica insegna al neon bianca e verde alla quale, chi lo frequenta, è abituato.

Da fuori, lo storico palazzo delle Poste sembra essere sempre lo stesso: l’insegna del nuovo Starbucks è nera, discreta, direi elegante (come potete vedere dalla foto di apertura), e dà perfino poco nell’occhio se non fosse per i tavolini all’esterno che fanno invece subito comprendere la presenza di una caffetteria.
Da orgogliosa nativa e abitante del capoluogo lombardo, tutto ciò – l’attenzione verso Milano – mi fa piacere: francamente, se proprio ve lo devo dire, non comprendo le polemiche e ai brontoloni (lo scrivo con affetto e simpatia, sia chiaro) vorrei dire che… anche questo è cambiamento e crescita.

Cerchiamo di vedere il lato buono di questa novità: l’importante è non farsi tiranneggiare e conservare anche ciò che è nostro, ma la convivenza di tradizione e innovazione è possibile e a me piace.
Non per nulla, in principio, ho scelto il verbo colonizzare: so che questo è esattamente ciò che pensano molti, ci facciamo colonizzare, ma oggi desidero raccontarvi un paio di cose che spiegano il titolo che ho scelto per tale post e che avvalorano la mia tesi, ovvero come tradizione e innovazione possano convivere in buona armonia, come possano aiutarsi a vicenda e come sia possibile conservare ciò che è nostro pur accogliendo un’insegna che si trova in tutto il globo. Leggi tutto

Serena Fumaria: perché il progetto Guarire dal narcisista patologico

Non sopporto la violenza e le sue manifestazioni – mai e in nessun caso.
Non la sopporto qualunque sia la (pseudo)giustificazione o la (pseudo)motivazione perché – in realtà – non ne esiste nessuna che possa essere anche lontanamente valida.
Non la sopporto chiunque ne sia vittima: bambino, donna, uomo, animale.
Non riesco a fare graduatorie di gravità, poiché la violenza è sempre ignobile e disgustosa, con aggravanti ulteriori quando la vittima è in posizione di particolare debolezza, come accade con i bambini – e mi vengono i brividi di orrore solo a pensarci.
E non riesco nemmeno a fare graduatorie di gravità tra violenza fisica e psicologica: sia le botte sia le parole lasciano segni indelebili nel corpo e nell’anima.

Come essere umano e come donna, sono naturalmente preoccupata dal crescendo di violenza che sempre più spesso donne di ogni età, di ogni provenienza e di ogni estrazione sociale si trovano a subire dentro le pareti domestiche e fuori, a partire dagli ambienti di lavoro.
Mi sono schierata moltissime volte contro la violenza sulle donne, dal body shaming (qui e qui due esempi) fino a casi estremi come quello dolorosissimo di Sara Di Pietrantonio (qui), una tragedia che mi impressionò profondamente.

E allora oggi voglio proseguire su questa strada di impegno in prima persona parlandovi di un progetto che è stato portato alla mia attenzione da una persona che conosco da anni e che stimo. Leggi tutto

Nasce Peste!, il Festival dedicato alla contaminazione positiva

Lo scorso 4 agosto, nel post scriptum dell’ultimo testo pubblicato prima di andare in vacanza, avevo promesso di far ripartire il blog parlando di un’iniziativa interessante dedicata alla contaminazione tra vari settori artistici e non solo.

Visto che mi piace mantenere le promesse, eccomi qui a raccontarvi quattro giorni di incontri, workshop, concerti, proiezioni, installazioni e performance nonché di un concorso per artisti emergenti.

Di cosa si tratta?
Ora vi racconto tutto per filo e per segno.

A Milano, dal 4 al 7 ottobre 2018, prende il via la prima edizione di Peste!: promosso dalla Fondazione Il Lazzaretto, questo Festival desidera proporre un’esplorazione del femminile, attraverso – come accennavo – la contaminazione tra arti visive, arti performative e pratiche psico-fisiche.

Nata nel 2014 nell’area dove un tempo aveva sede l’antico Lazzaretto meneghino, l’omonima Fondazione ha l’obiettivo di favorire processi di trasformazione collettiva e individuale.

È tristemente noto, purtroppo: il Lazzaretto di Milano, costruito tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento fuori da quella che era allora la Porta Orientale, era il ricovero per i malati durante le epidemie di peste.
Era una costruzione che occupava un’area che corrisponde grosso modo all’odierno perimetro che comprende parti di via Lazzaretto, via san Gregorio, corso Buenos Aires e viale Vittorio Veneto: era il luogo della cura e della separazione dal resto del mondo per chi – ahimè – contraeva il flagello della peste.

La peste è davvero stata un flagello terribile per l’umanità: si presentava in forme quasi sempre letali, decimando intere popolazioni.
In Europa, essa cominciò a scomparire verso la fine del 1700, ma l’ultima epidemia in Italia si verificò ancora nel 1815: per la sua virulenza, il termine peste è passato nel tempo a definire genericamente tutte le malattie epidemiche ad alto tasso di mortalità (l’AIDS, per esempio, a cui talvolta ci si riferisce come peste del XX secolo) ed è usato anche con accezione metaforica per indicare qualcosa di dannoso dal punto di vista sociale o morale, riferendosi in genere a fenomeni negativi di vasta portata (come, per esempio, la droga).

Essere una peste riferito a una persona sottolinea il suo essere insopportabile per varie ragioni; riferito a un bambino, l’espressione ne sottolinea l’irrequietezza.
Un sostantivo carico di significati negativi, insomma, che la Fondazione Il Lazzaretto ha invece voluto sovvertire e cambiare, attribuendo un nuovo e più interessante significato: essere una peste, oggi, diventa aprirsi alle possibili contaminazioni del mondo, diventa camminare sui confini e forzare il limite con ironia e divertimento, diventa provare a cambiare logica e immaginazione per cercare di promuovere una riflessione sui processi di trasformazione individuale e collettiva.

Proprio pensando a tutto ciò nasce il titolo Peste! per un Festival che, per la sua prima edizione, sceglie di esplorare i temi legati al femminile quale approccio e metodo per scandagliare le complessità del presente: all’interno dei suoi nuovi spazi riqualificati, la Fondazione ospiterà quattro giorni di incontri, workshop, concerti, proiezioni, installazioni e performance incentrati sul femminile. Leggi tutto

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