Endelea, bellezza e concretezza di un brand davvero etico e sostenibile

Durante la MFW, ho avuto modo di incontrare Francesca De Gottardo, fondatrice di Endelea:
vi racconto perché questo è un brand davvero etico e sostenibile.

Si è da poco conclusa l’edizione di Milano Moda Donna con cui stilisti e marchi hanno presentato le loro proposte per la prossima primavera / estate 2023.

Devo fare una confessione: a parte i marchi emergenti, non ho visto gran cose che mi abbiano fatto venire voglia di investire tempo per raccontarle oppure cose che mi abbiano fatto nascere il desiderio di possederle.

È vero, sono stata contenta di aver potuto osservare che (finalmente) è tornata l’atmosfera frizzante che caratterizzava la fashion week prima della pandemia (e la mia città ne aveva bisogno), ma sono altrettanto scontenta di dover prendere nota del rovescio della medaglia, ovvero di un’occasione perduta: dopo un intero mese di sfilate (il discorso non vale quindi solo per Milano) si è vista sicuramente tanta ricchezza, a volte al limite dell’ostentazione, ma pochissima creatività intesa come reale innovazione e cambiamento.

Insomma, dopo le sperimentazioni (se vogliamo imperfette e in alcuni casi anche abbastanza azzardate) delle stagioni di pandemia, la moda si sta nuovamente richiudendo in sé stessa, tra clienti super facoltosi e occhio costantemente (se non unicamente) puntato al fatturato.

Per carità, sono la prima a dire che la moda è un business che per fortuna crea e dà lavoro (non sono certo Biancaneve…) risultando una voce importantissima del nostro Pil («La moda torna a trainare il Pil, primo semestre verso un +16% in un Paese nella bilancia» titolava Il Sole 24 Ore in un articolo dello scorso 27 maggio*), tuttavia non è, non può e non deve essere solo quello; pertanto mi chiedo dove sia finito tutto il resto, dove siano finiti tanti bei discorsi e concetti con cui ci si è riempiti la bocca – e soprattutto inclusione a 360°, multiculturalità, sostenibilità sociale e culturale, gender fluid eccetera eccetera eccetera.

«Ma come – osserverà qualcuno – non hai visto tutte le modelle di ogni fisicità in passerella? Anzi, non hai notato che ora si dice modell*? Non hai notato quante collezioni sostenibili ci sono? Non hai notato quante aziende di moda dichiarano ora la propria carbon footprint impegnandosi a ridurla da qui ai prossimi anni?»

Oh, certo che ho notato tutto ciò.

Ma quando si parla di argomenti importantissimi come inclusione e sostenibilità, non mi accontento di una spolveratina qua e là di polverina luccicante: non basta mandare in passerella modell* di varie taglie e non basta metterci l’asterisco (come ho iniziato a fare io stessa) per indicare che ci si apre anche alla libertà di genere (era ora!), non basta fare collezioni che si dichiarano essere sostenibili perché il cambiamento sia davvero concreto e reale.

Perché bisognerebbe parlare anche di come si mettono in passerella taglie, fisicità e generi (il modo in cui lo si sta facendo è davvero profondamente inclusivo o è ancora una volta solo facciata?) e bisognerebbe chiedersi quanto sostenibile sia l’ennesima collezione prodotta senza un reale cambiamento concettuale e produttivo (forse il problema non è solo produrre meglio ma anche produrre meno, vedere questione degli invenduti, degli abiti scartati che diventano rifiuti tessili e vedere cosa accade in posti come il deserto di Atacama in Cile**).

Insomma, ipocrisia e greenwashing (l’ambientalismo di facciata) sono dietro l’angolo e io sono un po’ perplessa…

È per questo che ho preso una decisione: gli unici articoli che scriverò dopo questa MFW sono quelli dedicati a dei progetti davvero innovativi, socialmente, culturalmente e anche ambientalmente.

E desidero iniziare da Endelea, un brand che fa moda veramente etica e sostenibile partendo dai pensieri e valori nonché dall’iniziativa e dal coraggio di una giovane donna che si chiama Francesca De Gottardo.

Francesca De Gottardo (photo credit Endelea)
Francesca De Gottardo (photo credit Endelea)

Prima di tutto, parto dal motivo fondamentale per cui ho scelto Francesca e il suo Endelea: questo progetto è un’ottima risposta a una pratica pericolosissima, ovvero l’appropriazione culturale.

È uno degli argomenti più dibattuti degli ultimi anni in ambito sostenibilità culturale e sociale e io – per esempio – ne parlo tanto e spesso con i miei studenti in Accademia: riassumendo, sussiste appropriazione culturale quando elementi fortemente identificativi di una cultura vengono adottati e/o utilizzati in modo irrispettoso, assumendo forma di oppressione e spoliazione o, in alcuni casi, di caricatura.

Negli ultimi anni se ne parla sempre di più, cercando di stabilire un confine tra cultural appropriation e cultural appreciation, ovvero tra appropriazione e apprezzamento: quando possiamo parlare di ispirazione e fusione culturale e quando diventa invece vera appropriazione?

Non è facile fissare questo confine in modo definitivo, tuttavia si possono elencare alcune caratteristiche che – a mio avviso – determinano appropriazione culturale.

Quando un oggetto o un capo viene completamente snaturato, estrapolato, decontestualizzato; quando quando viene spogliato e privato della propria essenza e del proprio significato originale; quando viene offerto a un altro tipo di pubblico in una pura ottica di business; quando un popolo viene depauperato e privato di un proprio simbolo senza averne alcun vantaggio e senza avere voce in capitolo (non viene riconosciuto nessun tipo di credito, né culturale né economico); ecco, in questi casi possiamo – secondo me – parlare di appropriazione culturale.

Capirete, miei cari amici, che, se guardiamo le cose in quest’ottica, esistono purtroppo molti casi di appropriazione culturale e ne esistono non pochi, ahimè, proprio in ambito moda.

Ed ecco perché Endelea mi piace: è un progetto di natura economica, certo, ma prima di tutto è un progetto sociale e culturale perché non priva un popolo di un proprio elemento identitario senza che questo popolo sia chiamato a partecipare. Non depaupera, non spoglia, non si appropria bensì rispetta, crea dialogo e crea vantaggio economico alla fonte: per questo definisco Endelea un brand etico.

Permettetemi di spendere due parole su Francesca.

Quando lo scorso 24 settembre ci siamo conosciute al Fashion Hub di Camera Moda, questa giovane donna dal sorriso autentico e assolutamente contagioso era un fiume in piena di entusiasmo e voglia di condividere, ma in modo generoso e per niente egocentrico.

Rispetto il suo modo di essere e vi racconto dunque semplicemente che Francesca ha maturato una significativa esperienza in seno a diverse aziende di moda anche molto note e non menziono i nomi proprio in nome di tale rispetto e perché non voglio spostare l’attenzione dal suo progetto; menziono la sua esperienza giusto per far capire la concretezza dietro Endelea.

Un bel giorno, Francesca si è resa conto che quel modello e quel certo sistema nel quale stava lavorando non la rappresentavano al 100% ma, anziché lamentarsi o piagnucolare, si è rimboccata le maniche e si è impegnata a costruire una sua realtà che «mettesse al centro le persone».

Ed è così che, nel 2018, ha visto la luce Endelea, un brand che desidera unire due Paesi, ovvero Tanzania e Italia.

Endelea nasce infatti con l’obiettivo di contribuire allo sviluppo di un’industria della moda in Tanzania: gli acquisti di tessuti sono fatti in loco, così come la quasi totalità della produzione, mentre parte dei ricavi è investita in workshop e nella collaborazione con scuole e università tanzaniane.

Un altro obiettivo importante è quello di creare un dialogo tra Europa e Africa a partire dai tessuti.

In quest’ottica, Endelea usa i tessuti Wax, Kikoi e Maasai acquistandoli dai produttori locali o facendoli produrre in esclusiva allo scopo di avere un controllo sulla filiera e sulla qualità della materia prima in ottica di responsabilità ambientale.

Il laboratorio a Dar es Salaam è la casa del team tanzaniano ed è dunque la prima parte dell’anima Endelea.

Al lavoro nei laboratori (photo credit Endelea)
Al lavoro nei laboratori (photo credit Endelea)

La retribuzione di sarti e sarte del laboratorio a Dar es Salaam è del 96% più alta della media e tutti godono di assicurazione sanitaria per sé e per le proprie famiglie, oltre che di pasti e trasporti gratuiti nonché di corsi per la crescita professionale.

Endelea collabora anche con Artisan Fashion, un laboratorio di ricamo di Nairobi che impiega più di mille persone, per la maggior parte donne, con l’obiettivo di collaborare con i brand di moda internazionali assicurando retribuzioni eque e lavoro dignitoso.

A Milano c’è l’altra parte dell’anima Endelea, ovvero il team che si occupa soprattutto di design, marketing e vendite.

Anche in Italia, come in Tanzania, il team è composto all’85% da donne, con un gender pay gap (ovvero la differenza di retribuzione tra uomini e donne) pari a zero.

E non finisce qui: Endelea ha tradotto il proprio impegno morale in un codice etico concreto che viene fatto firmare a chiunque lavori con loro (potete leggerlo anche voi qui).

Grazie al proprio impegno, dal 2020 Endelea è riconosciuta Benefit Corporation: per chi non lo sapesse, le B Corp sono aziende a scopo di lucro che vanno oltre l’obiettivo del solo profitto e che massimizzano il loro impatto positivo verso la società e l’ambiente (e qui ritorniamo al mio discorso circa l’etica).

Tessuti Maasai indossati dalla popolazione (photo credit Endelea)
Tessuti Maasai indossati dalla popolazione (photo credit Endelea)

Come ho accennato, Endelea lavora con vari tessuti tra cui gli splendidi Maasai check caratterizzati da colori vivaci.

Ma questi tessuti sono molto di più di colori e pattern: nascondono significati profondi e un legame forte con il territorio e la comunità – anche se occorre prima di tutto dare alcune spiegazioni.

I tessuti che io stessa ho genericamente definito Maasai non sono propriamente dei tessuti tradizionali: sono stati i colonizzatori inglesi a introdurre cotone e fibre sintetiche tra le popolazioni di pastori dell’Africa orientale ed ecco perché, per esempio, il pattern a quadri è molto simile al motivo che chiamiamo comunemente scozzese (il tartan, anch’esso tradizionale e distintivo di un popolo e di una tradizione).

Resistente e capace di proteggere dal difficile clima della Savana, soprattutto il Maasai Shuka si è diffuso per l’indiscussa praticità e oggi è il tessuto prevalente tra i Maasai che lo indossano a strati, drappeggiato sul corpo e sulle spalle.

Francesca mi ha spiegato che i tessuti si differenziano tra Maasai Check (più morbido e prevalentemente in cotone) e Maasai Shuka (realizzato in fibra acrilica) e ogni colore ha un significato diverso.

Il blu è il colore del cielo e della pioggia che nutre la terra; il rosso e il rosa vivo rappresentano la forza e il coraggio; il bianco è legato alla purezza; il verde si lega alla natura che dà la vita così come il giallo, il colore del sole.

I colori identificano anche diversi status: per esempio il blu è il colore delle persone sposate mentre gli anziani vestono il rosso.

L’eleganza intrinseca del popolo Maasai e la bellezza indiscutibile dei tessuti Shuka hanno ispirato molti fashion designer occidentali: diverse collezioni sono state tacciate di cultural appropriation e accusate di sfruttare la cultura Maasai senza riconoscerle alcun corrispettivo, né di merito né economico.

È proprio per evitare questo errore che Endelea ha lavorato per ottenere il patrocinio della Maasai Intellectual Property Initiative (MIPI), l’organizzazione che tutela e protegge la cultura Maasai nel mondo: la partnership prevede che Endelea si impegni a lavorare in modo trasparente e nel rispetto della cultura Maasai, come ho già raccontato e descritto, oltre a contribuire con una percentuale del ricavato alle attività dell’associazione con la comunità Maasai.

«I tessuti Maasai sono bellissimi – scrive Endelea nel suo sito – e forse poteva bastare questo per decidere di usarli, ma nel nostro viaggio alla scoperta della vera cultura tessile africana abbiamo deciso di spingerci più in là e abbiamo avuto il privilegio di lavorare con la comunità Maasai di un piccolo boma vicino ad Arusha, provincia tanzaniana al confine con il Kenya.»

Indossare un capo in Maasai Check o in Maasai Shuka è cool, certo; significa, però, prima di tutto indossare una storia e una cultura straordinarie e scegliere quelli Endelea significa contribuire a rispettare tutto ciò perché si riconosce il merito e si ridistribuisce il vantaggio economico. Insomma apprezzamento culturale e non appropriazione culturale.

Dialogo tra culture senza appropriazione (photo credit Endelea)
Dialogo tra culture senza appropriazione (photo credit Endelea)

Torniamo anche al discorso inclusione.

Endelea crede così profondamente nel concetto di inclusione da aver deciso di lavorare affinché nessun* si senta esclus*.

Le loro campagne ritraggono modell* di diversa provenienza, età e fisicità e sono realizzate sia in Italia sia in Tanzania dove il lavoro è affidato a un team di stylist, fotograf* e videomaker local* in modo che possa nascere un’industria della moda a 360° perché l’idea è costantemente quella di costruire non una solitaria cattedrale nel deserto bensì una nuova visione che dia realmente voce alla cultura africana.

Endelea ha sposato anche il Tingatinga, un genere di pittura nato negli Anni Sessanta sempre in Tanzania e caratterizzato da colori brillanti e soggetti naïf ispirati alla natura (cliccate qui se volete saperne di più).

Traendo le somme posso affermare che, dal 2018 a oggi, il brand è riuscito a offrire un ampio panorama tessile africano passando dallo status di start-up a quello di società benefit e mai dimenticando i concetti di rispetto, sostenibilità e inclusione.

«Attorno al tema della sostenibilità c’è un po’ di confusione – dicono in Endelea – e per questo crediamo sia importante non soltanto agire in modo responsabile, ma anche rendere esplicito il nostro impegno verso le persone e l’ambiente. Introdurre comportamenti sostenibili in un’azienda divisa tra due Paesi, uno dei quali africano e dunque con sistemi di controllo completamente diversi da quelli a cui siamo abituati, è complesso e sfidante, ma è il nostro investimento per il futuro.»

Per rendere esplicito, concreto e trasparente il proprio impegno, il brand ha recentemente pubblicato il suo nuovo rapporto di sostenibilità per l’anno 2021 (cliccate qui se volete leggerlo) e mi piace sottolineare che in riconoscimento dell’importanza del lavoro fin qui svolto, proprio in occasione di Milano Moda Donna, Endelea ha vinto il Camera Buyer Award e il Young Designer DHL Award.

Immagini dagli shooting Endelea (photo credit Endelea)
Immagini dagli shooting Endelea (photo credit Endelea)

Concludo questo racconto svelandovi che Endelea è una parola in Swahili, la lingua diffusa in gran parte dell’Africa orientale: significa «andare avanti senza arrendersi alle difficoltà» e mi sembra che ben si accompagni a «dream bold», «sognare audacemente» ovvero il motto del brand.

«Ogni acquisto è una scelta»: così ho sentito dire a Francesca in un’intervista.

Ha ragione, naturalmente, perché decidere cosa comprare è l’arma più potente in mano a ognuno di noi: spesso ci chiediamo cosa possiamo fare per produrre un cambiamento positivo nel mondo e, in fondo, la risposta è proprio nelle nostre mani, ogni giorno.

Pensare, scegliere, decidere cosa comprare: «shop the change you want to see in the world», sempre per usare altre parole Endelea.

Aggiungerei – un po’ tornando al punto da cui sono partita – che anche il modo in cui ogni prodotto viene creato è una scelta che origina un cambiamento.

E questa scelta Francesca e il suo team l’hanno fatta, forte e chiara. Li ringrazio per questo.

Se anche voi volete vedere un cambiamento positivo e se volete contribuire a farlo avvenire, ecco il sito, il canale Instagram e la pagina Facebook di Endelea.

Manu

 

 

* Se volete leggere l’articolo che ho citato, eccolo.

** Se volete sapere di più circa la discarica nel deserto di Acatama, date un occhio qui.

 

 

 

 

 

*** Tutte le immagini qui usate sono proprietà © Endelea ***

 

 

 

 

 

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Manu

Mi chiamo Emanuela Pirré, Manu per gli amici di vita quotidiana e di web. Sono nata un tot di anni fa con una malattia: la moda. Amo la moda perché per me è una forma di cultura, una modalità di espressione e di comunicazione, un linguaggio che mi incuriosisce. Scrivo e creo contenuti in ambito editoriale, principalmente proprio per la moda. Insegno (Fashion Web Editing, Storytelling, Content Creation) in due scuole milanesi. Vivo sospesa tra passione per il vintage e amore per il futuro e sono orgogliosa della mia nutrita collezione di bijou iniziata quando avevo 15 anni. Per fortuna Enrico, la mia metà, sopporta (e supporta) entrambe, me e la collezione, con pazienza e amore. Oltre a confessare un'immensa curiosità, dichiaro la mia allergia a pregiudizi, cliché, luoghi comuni, conformismo e omologazione. Detesto i limiti, i confini, i preconcetti – soprattutto i miei – e mi piace fare tutto ciò che posso per superarli. La positività è la mia filosofia di vita: mi piace costruire, non distruggere. Moda a parte, amo i viaggi, i libri e la lettura, l'arte, il cinema, la fotografia, la musica, la buona tavola e la buona compagnia. Se volete provare a diventare miei amici, potete offrirmi un piatto di tortellini in brodo, uno dei miei comfort food. Oppure potete propormi la visione del film “Ghost”: da sognatrice, inguaribile romantica e ottimista quale sono, riesco ancora a sperare che la scena finale triste si trasformi miracolosamente in un lieto fine.

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